Rivista Anarchica Online
Una mediazione difficile
di Emilio Cipriano
Anche quest'anno la relazione Carli cerca di mediare le esigenze dell'impresa privata e quelle del
settore pubblico dell'economia
"O servi o padroni, con la istigazione nel sangue o alla sedizione o alla
prepotenza, conforme il primitivo
assoluto diritto della persona, cui spetti farsi giustizia da sé". Con queste parole di Giustino
Fortunato,
il Governatore della Banca d'Italia ha chiuso la sua relazione all'Assemblea Generale. L'importanza
di questa relazione è data soprattutto dall'analisi complessiva della situazione
economico-finanziaria italiana, più che dalle proposte formulate (quasi sempre di conciliazione
tra i settori pubblici
e quelli privati). La relazione prende le mosse da una critica al trattato di Bretton Woods ed al
riconoscimento del suo
ormai definitivo decadimento. È questo un argomento caro al Governatore Carli, tant'è
che ogni anno
rincara la dose contro il famigerato trattato, per proporre, al suo posto, la creazione di una moneta che
dell'oro non abbia nemmeno il lontano ricordo. Questo esordio serve a Carli per insistere sulla
necessità di rafforzare l'assetto economico-finanziario dei
paesi della C.E.E. affinché diventino competitivi nei confronti degli U.S.A., e sappiano fornire
una
risposta unitaria alla "sfida monetaria americana". Tutto ciò non sarà possibile fino a
quando i paesi della
C.E.E. non avranno sviluppato sia al loro interno sia nei rapporti intercomunitari un meccanismo di
regolazione e di sviluppo che ponga in un primo piano il pieno impiego di tutte le forze
produttive. Partendo da queste affermazioni il Governatore Carli si lancia in difesa dell'impresa
privata, contro la
sempre più incontrastata invadenza delle imprese pubbliche. La necessità di
difendere le imprese private è determinata soprattutto dal fatto che "... l'ampliamento
della sfera d'azione delle imprese pubbliche, quale risultato di interventi di salvataggio non rispondenti
a una coerente linea di politica economica, conduce alla degenerazione della imprenditorialità
pubblica
e privata e concorre a chiudere il sistema alla integrazione europea". Infatti come Carli rileva se
mancano imprese efficienti l'abbattimento delle frontiere economiche genera
soltanto l'inserimento di imprese straniere in Italia, fenomeno questo, non bilanciato da investimenti
italiani all'estero. A questo riguardo è interessante notare una convergenza del governatore
della Banca d'Italia con il
segretario generale della programmazione Ruffolo: questi infatti riconosce che "è tuttavia
necessario
impedire che l'estensione dell'area pubblica tenda prevalentemente a fronteggiare situazioni di crisi e
cedimento dell'apparato produttivo". Ora, che Carli non veda di buon occhio un eccessivo sviluppo
delle imprese pubbliche è comprensibile,
ma che questa tesi sia espressa anche da Ruffolo, tipico esponente del settore pubblico, deve farci
comprendere che l'area pubblica è così estese in Italia da divenire (se non interverranno
riforme
strutturali) ingovernabile. Quindi i più accorti spingono oggi verso una più organica
sistemazione
dell'intero complesso che non verso un suo allargamento. Successivamente Carli scopre senza
ritegni il suo vero volto, e abbandonati i giri di parole, dichiara
esplicitamente che la maggior parte dei problemi dell'economia italiana derivano dalla crisi iniziata
nell'autunno 1969 in cui "la pressione sindacale dopo essersi esercitata, in occasione delle vertenze
contrattuali, sui temi consueti, quali il miglioramento dei salari e la riduzione dell'orario di lavoro, si
trasferì a livello di contrattazione aziendale, su aspetti che investivano da vicino la condizione
dei
lavoratori all'interno delle fabbriche e, a livello nazionale, sui problemi di interesse generale concernenti
il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori al di fuori dell'ambiente di lavoro; i rapporti nelle
fabbriche si deteriorarono per la commistione di istanze e dei conseguenti metodi di lotta, riflettenti stati
d'animo che rifuggivano dall'esprimersi in obiettivi costruttivi". Il riferimento agli organismi
extra-sindacali è esplicito, ma Carli rivela una buona dose di lungimiranza
perché non invoca soluzioni reazionarie, in senso stretto, ma: "... la ricerca di una nuova
normalità,
necessariamente laboriosa..." cioè la ricerca di una strutturazione più avanzata capace
di assorbire gli
aumenti del costo. Solo poche imprese sono state in grado di superare i problemi creatisi dopo il
'69, i maggiori costi hanno
contratto gli utili aziendali e hanno impedito un programma di sufficienti investimenti, soprattutto nelle
imprese private. "Già nel 1971 - rileva Carli - le imprese minori, anche per le più
difficoltose condizioni finanziarie, erano
costrette a ridurre fortemente l'attività di investimento mentre le maggiori ne rallentavano il
ritmo, che
continuava ad essere positivo, cercando soprattutto di adeguare il loro apparato alle necessità
imposte
dall'aumento dei costi salariali e dai mutamenti intervenuti nei rapporti di lavoro". In questo quadro
congiunturale l'impresa pubblica non è stata in grado di sviluppare una sufficiente
azione anticiclica. Quindi per Carli (come per altri accorti ed astuti dirigenti) occorre "gestire i contratti
collettivi di lavoro" e le centrali sindacali in continua collaborazione con i consigli di
fabbrica. Bisogna inoltre risolvere il problema centenario dell'economia italiana: il divario di
sviluppo tra nord e
sud, con il conseguente "contraddittorio coesistere degli inconvenienti propri del pieno impiego con
quelli della sottoutilizzazione del lavoro". In effetti l'economia italiana deve liberarsi, per essere
competitiva con quella degli altri paesi europei,
da questo dualismo, oltre che geografico, strutturale, e deve eliminare i contrasti troppo stridenti e
perciò dannosi ad uno sviluppo di tipo europeo. La relazione del governatore Carli termina
con una considerazione sulla contrazione del margine di
manovra della Banca d'Italia a causa dell'accresciuto "peso delle decisioni concernenti il volume della
spesa pubblica e la sua destinazione, l'incentivazione dell'investimento pubblico e privato e soprattutto
la definizione dei rapporti di lavoro". Tutto questo, benché Carli se ne dispiaccia è
in armonia coi tempi, lo Stato sempre più totalitario sia in
politica, sia in economia ha sempre meno bisogno di un regolatore finanziario dell'economia,
perché è
lo Stato in prima persona che, tramite le sue aziende, "fa" l'economia.
Emilio Cipriano
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