Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 2 nr. 14
estate 1972


Rivista Anarchica Online

Il veleno di Cefis
di Gruppo Machno

Nocività alla Montedison di Marghera

È stato recentemente riaperto il reparto TDI della Montedison di Marghera, che produce il "Fosgene", un gas impiegato nella fabbricazione di materie coloranti. Se la cosa può rallegrare i dirigenti e i tecnocrati nostrani, preoccupati del rilancio dell'industria chimica italiana e, in generale, dell'aumento della produttività, pone invece le popolazioni di Marghera e anche di Mestre e Venezia, di fronte ad un problema gravissimo: l'impianto in questione, infatti, è tra i più pericolosi del mondo, sia per il suo funzionamento imperfetto, sia per la sua ubicazione. Il fosgene è un gas incolore velenoso. La sua presenza nell'area in dosi di 5 parti per milione è già in grado di provocare la morte, se viene respirato, mentre dosi minori (2-3 p.p.m.) possono danneggiare in modo irreparabile il fisico umano. Durante la prima guerra mondiale, venne usato dai tedeschi come aggressivo chimico, appunto per queste sue caratteristiche. Gli impianti attualmente esistenti nel mondo per la produzione del fosgene sono quattro: negli Stati Uniti, in Germania, in Giappone e in Italia. Negli U.S.A. i macchinari sono stati installati nel deserto del Nevada, in una zona completamente disabitata. In Germania, si trovano nella Foresta Nera, anche qui in una zona disabitata. In Giappone, sono stati sistemati su di una montagna, dopo che la popolazione è stata fatta evacuare per un raggio di 50 chilometri. In Italia... nel centro di Marghera! In America, in Germania ed in Giappone, gli impianti sono comandati a distanza, da personale che sta in edifici ermeticamente chiusi, lontani 3-400 metri dallo stabilimento vero e proprio. A Marghera, gli operai stanno in locali privi della minima garanzia di sicurezza, a brevissima distanza dall'impianto di produzione.
L'unico sistema di allarme è costituito da una sirena, che avvisa le maestranze quando ci sono fughe di gas. Come si vede, le preoccupazioni di quanti risiedono nella zona (oltre che degli operai costretti a lavorare nello stabilimento) sono più che giustificate.
Le norme di sicurezza previste dalla ditta sono vecchie e inadeguate. Ad esempio, c'è l'obbligo della maschera antigas, ma con un gas come questo, non ha nessun senso: più che altro, bisognerebbe usare un autorespiratore. E siccome, nel caso di una grossa fuga di fosgene, non verrebbero colpiti soltanto gli operai nelle immediate adiacenze, ma tutti gli abitanti di Marghera, di Mestre, Venezia e paesi vicini, l'obbligo dell'autorespiratore dovrebbe essere esteso a tutti, anche ai neonati, ai turisti e (perché no?) agli animali. Provate a pensare quale sarebbe l'aspetto della provincia di Venezia, in una eventualità di tal genere.
La storia dell'impianto e assai breve, essendo stato costruito in tempo non lontano. Il fatto più interessante è che è già stato chiuso quattro volte, e sempre in seguito A fughe di gas. Una prima chiusura si ebbe un paio di anni fa. Gli operai si rifiutarono di riprendere il lavoro, dopo che due loro compagni erano rimasti intossicati in modo gravissimo (sono ancora oggi in ospedale, due larve umane sotto la tenda ad ossigeno). Avrebbe dovuto essere una chiusura definitiva, almeno fintanto che non fossero state messe in opera misure antinfortunistiche degne di questo nome, invece un bel mattino gli operai hanno trovato l'impianto nuovamente in funzione, tale e quale a prima. Da allora, il gioco si è ripetuto sempre uguale. Altre fughe di gas, altri operai colpiti in modo più o meno grave (qualcuno se l'è cavata con un mese di ospedale, qualcun altro, non così fortunato, è rimasto deficiente) altre temporanee chiusure e altrettante riaperture.
L'inefficienza e la pericolosità dell'impianto TDI di Marghera sono tali che a qualcuno potrebbe venire il sospetto che a tutto ciò non siano estranei atti di sabotaggio, o qualcosa del genere. Sembrerebbe strano, infatti, che uno stabilimento così moderno, importante, funzioni tanto male. Ma strano non è, se si tengono in conto le condizioni nelle quali l'impianto è stato costruito. I sabotaggi non c'entrano. C'entra invece il fatto che esso è stato messo in piedi in brevissimo tempo (2-3 mesi), da personale non specializzato, senza alcun riguardo alle più elementari norme di sicurezza. Il progetto è stato finito da tecnici americani, che avevano previsto un collaudo di 5 mesi. La direzione della Montedison, invece, ha voluto mettere in funzione l'impianto subito, con ben otto mesi di anticipo rispetto alla data stabilita. A questo punto gli esperti americani se ne sono andati, declinando ogni responsabilità e senza rilasciare il brevetto. La Montedison, dal canto suo, solo ora, dopo la quarta chiusura, ha avvertito l'esigenza di un certo controllo e ha proposto un collaudo di 3 (tre!) giorni.
Ciò detto, c'è ancora qualcuno disposto a stupirsi per la mortale inefficienza dello stabilimento TDI? Certamente no, piuttosto, può venire in mente di chiedersi il perché di tutto questo, come mai tanta fretta di costruire, prima, e di rimettere in funzione la baracca dopo? Ma anche qui, la risposta è semplice, se pur sgradevole. Proprio in questo momento di crisi economica, di stagnazione produttiva, tenere chiuso un impianto come quello di Marghera significherebbe mettere in difficoltà tutto il settore chimico e, in generale, tutta la programmazione nazionale. Cosa di cui, evidentemente, la classe dirigente italiana ha terrore come della peste, perché comprometterebbe in prospettiva la sua stessa stabilità al potere. Che importa, dunque, se qualche operaio diventa deficiente, se qualche altro resta immobilizzato in un letto, purché si continui a PRODURRE?
Ma la morale della storia non si limita a questo. In tutta la faccenda, l'atteggiamento dei sindacati è stato quanto mai cauto. Soltanto dopo l'ultima fuga di gas, quando ormai le cose erano diventate insostenibili, si sono sentiti in dovere di intervenire, e soltanto per esprimere una "decisa", quanto sterile, condanna verbale. Di chiudere il TDI, come sembrerebbe logico in chi sostiene di avere il compito istituzionale di difendere gli interessi proletari, nessuno ha avuto il coraggio di parlare.
È dunque evidente che i sindacati condividono l'ansia di produttività e di ripresa economica dei padroni e dei dirigenti più di quanto non sentano l'esigenza elementare di tutelare l'integrità fisica dei lavoratori. E pensare che c'è chi vorrebbe affidare ai sindacati il ruolo di controllori della "nocività"!

Gruppo Machno