rivista anarchica
anno 48 n. 423
marzo 2018




Musica e tradizione orale nel Salento/
Un incontro con Maurizio Agamennone

Za' Tora e il Professore

«Za' Tora - Salvatora Marzo, la tamburellista che sentiamo accompagnare il violinista Luigi Stìfani nelle storiche registrazioni di de Martino - di certo non ha mai suonato nei night-club, come invece poteva accadere ai suonatori o ai cantanti maschi che - seguendo arcane tradizioni - praticavano la pizzica terapeutica.
Mentre invece lei - Za' Tora - era presente in tutte le procedure cerimoniali della sua comunità di appartenenza: toglieva il malocchio, rimuoveva le fatture, riparava i traumi ingessando con lo sbattuto d'uovo, curava in generale tutte le malattie, assisteva ai parti, faceva la lamentazione funebre e per l'appunto curava la sindrome del tarantismo.
Tutta una competenza femminile appartata rispetto a quella maschile, che pertiene al rapporto fra la vita e la morte.
In quella comunità Za' Tora era un po' l'amministratrice di una sorta di “welfare” arcaico della salute durante tutto l'arco dell'esistenza, dalla venuta al mondo all'elaborazione del lutto.
Si trattava di competenze strettamente femminili, secondo una struttura rigidamente patriarcale nella quale i maschi sono i padroni della casa e le donne, emarginate dalla rappresentanza sociale, hanno un campo di pertinenza esclusivamente domestica. Secondo questa suddivisione il fare artigianale è maschile, il fare diffuso è femminile.
Questo fare diffuso deve per di più avere una disponibilità totale: l'artigiano la sera stacca dal lavoro e se ne va a casa, la donna resta attiva 24 ore su 24. Il fare maschile ha un tempo limitato, cosa che gli consente di disporre di un surplus di ore per suonare gli strumenti quali il violino, l'organetto, il mandolino: strumenti che richiedono del tempo per se stessi, provare, riprovare, imparare... le donne invece non avevano mai la disponibilità del loro tempo.»
Questo illuminante ritratto di uno di quelle figure definite “alberi del canto” - ovvero quegli informatori leggendari, quelle biblioteche viventi depositarie della cultura popolare, intercettati nelle ricerche degli anni Cinquanta e Sessanta - ce lo fa in poche parole Maurizio Agamennone.
Il professor Agamennone è un luminare del suo campo - l'etnomusicologia, materia che attualmente insegna nell'università di Firenze - capace di tratteggiarci singole situazioni con sguardo acuto, allargando bruscamente lo zoom a teorie antropologiche più generali, a riflessioni culturali e sociali ampie, smitizzando preconcetti e stimolando nuovi dubbi e opinioni.
Accompagnati da questo studioso fantastico abbiamo davvero l'impressione di riuscire a leggere nelle tracce della cultura orale quella nostra storia che non studiammo mai a scuola, comprendere da dove vengono le forme che diamo per scontato nelle relazioni interpersonali, e in fin dei conti capire qualcosa di più profondo su noi stessi e sul vivere con gli altri.

Lomax e Carpitella in Salento

L'occasione di incontrare il professor Agamennone per una chiacchierata ce la dà la recente pubblicazione del libro “Musica e tradizione orale nel Salento”, Squi[libri] editore 382 pagine con ben tre CD allegati. Per chi ama la musica tradizionale un monumento!
I tre CD allegati - punto di partenza dell'intera operazione - equivalgono all'integrale delle registrazioni che Alan Lomax e Diego Carpitella fecero in Salento a cavallo del ferragosto del 1954, nell'ambito di una vasta campagna di ricerca - la prima mai fatta con determinati criteri e in modo così ampio - per tutta l'Italia. Forse qualcuno dei lettori di A ricorderà che sul numero 402 del novembre 2015 avevo già parlato di Lomax e in particolare del suo viaggio in Italia.
Orbene questo materiale, per due terzi inedito, è già di per sé prezioso, a maggior ragione perché insiste su un territorio diventato poi uno dei più frequentati da etnologi, musicisti e anche semplici turisti curiosi... pensate solo al successo dell'evento - diventato anche Festival - “La Notte della Taranta”, alla cui origine c'è proprio il nostro Professor Agamennone. Non era facile produrre un volume che non fosse una mera guida all'ascolto di un materiale così significativo, ma possiamo tranquillamente dire che l'autore si è superato, ogni spunto fornito da quegli antichi nastri viene approfondito in uno specifico capitolo: il contesto storico, quello sociale, i testi cantati, le musiche (presenti anche ottime trascrizioni), ecc. non perdendo peraltro di vista il “romanzo” dei due ricercatori, la strana coppia del gigante americano già conscio della sua leggenda e del suo carisma, positivista e romantico, e del giovane studioso calabrese, piccoletto e attentissimo alla ricostruzione scientifica di un passato che lui doveva sentire molto prossimo.

Alessio Lega - La prima cosa che mi ha colpito, ascoltando i CD e al contempo sfogliando il libro, è che fra le tracce siano stati conservate le parole dette, le voci di Carpitella e di Lomax, alcuni loro dialoghi con gli informatori. Questo mi conferma l'impressione che ci troviamo davanti a un doppio libro: quello stampato, il tuo saggio sulla ricerca e sui materiali... e poi abbiamo un altro libro sonoro, che ci permette di seguire il percorso dei ricercatori, i loro dubbi, i loro fantasmi che si confrontano con la molteplicità dei loro interlocutori sul campo.
Maurizio Agamennone - Non era una scelta scontata quella di lasciare le voci dei ricercatori, in genere in pubblicazioni come questa vengono rimosse lasciando il documento “puro”... ma io ho deciso di tenerle perché questa che ho dovuto fare è una strana forma di etnografia “ex-post”: lavoravo su materiale raccolto da due “mostri sacri” - tanto che io li chiamo “i nostri eroi” - più di mezzo secolo fa, ascoltandolo per così dire “al buio”, in presenza di pochissime informazioni oggettive (Lomax all'epoca subì un furto dei suoi appunti relativi alle registrazioni), cercando di immaginare il contesto.
La campagna di rilevazione di Lomax e Carpitella del '54-'55 è una storia avventurosa, non solo perché è entrata nella leggenda di chi l'ha studiata dopo, ma perché appariva così già ai due protagonisti, lo si evince dalle rendicontazioni, che Lomax fece quasi subito - con uno stile narrativo ed emozionale - e Carpitella solo molto dopo. Già parecchi anni fa ci fu il tentativo (non andato in porto) di trarne un film, e attualmente ci sono ben due distinti progetti di registi italiani, lo so perché in seguito alla pubblicazione di questo libro mi hanno cercato per chiedermi una consulenza... evidentemente continua a sembrare un'esperienza molto attraente.

Tu parli dell'intera esperienza italiana, non solo di quella salentina oggetto del tuo libro?
Sì, dell'intera esperienza... ma ho la consapevolezza che il segmento salentino è forse quello più fortunato: prendiamo i nastri registrati a Martano - molti dei quali ritrovati dopo un'accurata ricerca comparata negli archivi della RAI e dell'Accademia di Santa Cecilia - risultano da soli essere il corpus più consistente di tutta la campagna.
Insomma - la sparo un po' grossa! - ma ho l'impressione che i nostri due eroi non sapessero esattamente cosa cercare - Lomax per ovvi motivi di provenienza esterna, Carpitella per la giovane età - e così si misero a registrare tutto, e incapparono in momenti rivelatori.
Per esempio c'è un dialogo fra due informatrici che si stanno accordando su una polifonia, e si “beccano” a vicenda: «tu sbagli», «no qui non è così»... e a un certo punto una dice all'altra «e ce ‘nde sacciu ieu, ieu lu bassu sacciu» («e che vuoi che ne sappia, io il basso conosco»). Questa signora con queste due parole ha testimoniato una competenza distribuita fra le persone, in una polifonia inclusiva, nella quale alcuni si limitano a conoscere il ruolo più facile, ovvero quello del basso, dichiarando la loro incompetenza per quel che riguarda ruoli più specialistici. Questa è una conferma - sessanta anni dopo - di cose che i musicologi sanno per averle lette e per averle verificate in molte occasioni... ma qui è trasparente e sono gli stessi esecutori a dirlo. Secondo me è una cosa molto interessante e molto efficace.

Solidarietà tenerezza e affetto

Si sente nei CD anche un gustoso scambio fra una lamentatrice - cui viene richiesto di fare il proprio brano fuori dal contesto funebre - e Carpitella che le racconta come lui stesso ha dovuto “fare il morto” in una situazione analoga.
Solo qualche mese prima Carpitella era impegnato in una lunga ricerca sulla minoranza linguistica Arbëreshë del Molise, ed era entrato in relazione con delle lamentatrici funebri un po' in disarmo, dunque per innescarne la reattività aveva dovuto ricostruire la scena, simulando una camera ardente in cui lui stesso faceva la parte del morto. In Salento invece si misura con lamentatrici professionali ancora in perfetta attività e del tutto capaci di fare le loro lamentazioni anche fuori contesto, per metterle a loro agio racconta questo aneddoto in modo piuttosto giocoso - e infatti quelle ridono compiaciute -, in realtà i testimoni ci raccontano che nella precedente occasione visse malissimo quella situazione, e si rialzò molto turbato.
Se ne evince che le lamentatrici salentine fossero delle professioniste perfettamente consapevoli del loro ruolo. Una signora a un certo punto - guardando il registratore - chiede «ave canti» («ci sono canti là dentro »), che può far pensare al cliché della fotografia come furto dell'anima, ma lei in realtà lo chiede perché è convinta di non aver cantato benissimo, e vorrebbe riascoltarsi per verificare la sua esecuzione. Il che significa una, magari rudimentale, consapevolezza estetica e professionale.
Pochi giorni fa ho presentato questo libro a Martano - proprio nel paese in cui fu registrata una parte consistente di questo materiale - era presente un'informatrice di Lomax - all'epoca appena sedicenne, oggi con sessant'anni in più - e lei stessa ha raccontato che avevano cantato «tutto il giorno»... ora magari “tutto il giorno” è un'esagerazione, ma ti fa capire come queste comunità rurali fossero ancora abbastanza compatte e condividessero un repertorio di canti bastevole a riempire molte ore. Questa campagna è stata un'esperienza fortunata anche perché “i nostri eroi” sono stati in grado di intercettare l'espressione di una comunità ancora sostanzialmente integra e compatta, coerente, attiva e dinamica. Non c'era ancora stata la disgregazione delle comunità rurali del Mezzogiorno d'Italia, effetto della grande migrazione verso il Nord che cominciava proprio allora. Nel giro di pochi anni molti di quei paesi si sarebbero spopolati, e questo genere di musiche, una volta che le famiglie si disperdono, tendono a sgretolarsi.

Non ti risulta che i gruppi di cantori si riformino nei paesi di arrivo, perpetuando la tradizione?
I repertori che si conservano con più facilità sono quelli strumentali, perché gli strumentisti hanno una competenza più profonda, una consapevolezza di sé maggiore, hanno una vera e propria “memoria delle dita”. Le voci sono invece più intime e più profonde, hanno bisogno di rapporti di solidarietà di gruppo, di fiducia, di amicizia, di vicinato, che non sono trasferibili. Verso l'esterno i repertori vocali tendono a disarticolarsi, per conservarli bisogna essere insieme, bisogna condividere molto altro oltre la musica. La musica vocale, nelle polifonie tradizionali inclusive, non è in sé ragione di incontro, è piuttosto il modo di verificare processi che avvengono in altri momenti di solidarietà, tenerezza e affetto.

Fra le molte cose che mi hanno stupito c'è la sezione dedicata alle canzoni di un gruppo di spaccapietre. Fra le più celebri precedenti raccolte di Lomax ci sono le “Prison songs”, le canzoni dei detenuti neri nei penitenziari, registrate una decina d'anni prima della campagna italiana. Ci sono davvero delle analogie impressionanti, e credo che anche Lomax ne sia rimasto colpito.
Senza dubbio, il trasporto di Lomax per questo gruppo di cantanti-lavoratori è evidentissimo anche nella particolare cura che ha dedicato alla documentazione fotografica (oltre a registrare Lomax documentava anche fotograficamente) che trovi nel libro. Guarda per esempio le teste in questa foto: sono tutte prive di cappello. Considera che siamo in agosto, mattina avanzata, temperatura stimabile 35 gradi, sole a picco, rischio di insolazione dopo tre minuti di esposizione... nessuno usciva senza cappello. Aggiungi che più in generale nelle società patriarcali tutti i maschi andavano a capo coperto, anche nelle fotografie degli scioperi del primo Novecento avrai notato che tutti sono a capo coperto, gli operai col berretto, i leader e gli avvocati socialisti con il cappello di feltro.
Il fatto che nelle foto non lo abbiano è perché senza dubbio Lomax gli aveva chiesto di toglierselo per il tempo della foto, perché il cappello fa ombra a tre quarti della faccia. Lui aveva un particolare interesse per questo gruppo qua, al punto di arrivare ad edulcorare il suo ritratto per ottenere l'immagine migliore. Molto probabile che questo trasporto nascesse dal fatto che gli evocavano qualcosa che lui aveva già riscontrato in un contesto che forse non era poi così differente, fatto salvo che quelli erano detenuti neri e questi spaccapietre dei “liberi lavoratori” bianchi.

Alessio Lega