rivista anarchica
anno 48 n. 423
marzo 2018




Quasi incontri (III)

Con le mani addosso ai libri

Ancora a proposito di quasi incontri (ma poi basta). L'ho riabbracciato solo qualche giorno prima di natale a distanza di chissà quanti anni, il Marco Sommariva, caro compagno scrittore genovese. L'occasione è stata offerta dal circolo Underground di Bergamo che ha organizzato alla locale Kascina Autogestita Popolare un bookfair anarchico, invitando lui e me fra gli altri. Poi ci si è messo di mezzo il volo in ritardo di Pippo Gurrieri, così mi sono improvvisato intervistatore: sembrava quasi di aver interrotto un discorso fra noi due solo la sera prima, ci veniva da ridere ed è stato un po' come accorgersi una volta ancora che le radici delle amicizie profonde non hanno bisogno di essere annaffiate tutti i giorni.
Se guardo indietro mi accorgo che negli anni ho infilato tra queste pagine parecchie segnalazioni dei suoi libri, libri che ho letto tutti e più volte. L'ho sempre fatto volentieri, e senza che mi fosse stata richiesta una sola volta una qualche recensione di convenienza. Riflettendoci sopra adesso, direi che passa sottotraccia un misto di ammirazione e di invidia perché certe cose mi sarebbe proprio piaciuto fossero uscite dalla mia penna invece che dalla sua.
Parecchi dei libri di Marco mi hanno lasciato qualcosa dentro a cui ripenso con piacere, un paio mi hanno lasciato addosso una sensazione sgradevole - anzi, per dire meglio: un livido, ma non per questo sono state letture meno importanti, né meno gradite. Lui ha un modo tutto suo di richiedere attenzione. Lontano dall'essere uno scrittore di genere prevedibile, Sommariva scrive spostando sulla pagina delle fotografie della sua vita, scattate con quel che gli capita a tiro sia una reflex costosa che una vecchia Leica o il telefonino o la polaroid, segnandoci attorno le parole. Parole come rumore, intendo, come colonna sonora. Mica gli importa se quelle sue foto vengono fuori sfocate: lui le ritaglia e le incolla comunque, ne fa delle fotocopie mosse, ci disegna sopra e ne scombina i contorni, le strappa, le graffia.
Spesso nei libri di Marco Sommariva si sente musica, ma si sente anche gridare, imprecare, si sente piangere. Dietro alle parole dentro ai libri c'è un ragazzo perso e arrabbiato, che per andare avanti nella vita - per crescere, in tutti i sens i- è costretto a sporcarsi le mani con le cose del mondo - e pensandoci questa è anche un po' la mia storia, e pure quella di chissà quanti tra voi che state leggendo, mica tutti si nasce ricchi, belli e/o fortunati. Certi giorni certe settimane certi mesi il nostro cielo è solo grigio di nuvole, poco sole, freddo - viene voglia di chiamarsi fuori da tutto e tutti. Ma tante volte non è così, ci si ritrova a seguire il vento innamorati di un raggio di sole, di una canzone che esce dalla radio, da un profumo, da una lei o un lui mescolato tra la gente che passa. Queste onde dell'esistenza, alte e basse che siano, Marco il genovese le cattura e le porta dentro alle sue pagine: ci ho ritrovato dentro granelli della mia sabbia, la pioggia che si è mescolata alle mie lacrime e al mio sputo, cose che ho detto e pensato e fatto e confessato, e cose che invece avrei voluto dire e pensare e fare e confessare. Ci ho ritrovato dentro il mio rumore.
Poi voi penserete che oltre al nome e all'essere nati vicino al mare abbiamo in comune molto altro, io invece mi sono accorto di recente che tra noi c'è una differenza bella grossa: mentre li leggo da maniaco tenendoli in punta di dita come oggetti sacri, attento a non aprirli troppo per non segnarne il dorso, invece lui dentro ai libri (quelli non suoi, beninteso) ci scrive delle note, degli appunti. Si segna le cose scrivendole dentro i contorni bianchi, fa le orecchie all'angolo delle pagine, ci attacca dentro post-it e foglietti, evidenziatore o matita che sia prende nota di una frase o magari di una sola parola che lo colpisce - in una parola li usa, i libri, li adopera a fondo, gli mette le mani addosso.
Da questa sua abitudine sono originati i suoi due lavori più recenti, simili nell'impianto e senz'altro nelle intenzioni: “Written in the USA” e “Italian graffiti” (ed. Antonio Tombolini, tutt'e due 2017) sono due guide storte ed inconsuete alla lettura di libri di autori rispettivamente nordamericani ed italiani, scelte di titoli fra le migliaia di migliaia in altalena tra l'essere ovvie ed a volte invece stupefacenti. Non mi presterò adesso al gioco delle liste alternative, cosa avrei scelto io invece, anche perché non ne avrei diritto alcuno, né motivi.
Una volta presa addosso la responsabilità di ciascuna scelta, Marco Sommariva fa parlare il libro attraverso quelle sue frasi sottolineate, quei ritagli evidenziati fluo gialli verdi azzurri, quelle scintille che ciascun appunto gli ha acceso dentro in testa. Una maniera curiosa di mettersi da parte mandando un passo avanti gli autori a vedere cosa c'è dietro il muro, ma senza farlo per davvero: ci si sorprende spesso a trovare racchiuse fra le pieghe del discorso delle illuminazioni cui non si aveva fatto caso prima, pietre preziose che erano rimaste nascoste sotto il velo di polvere della fretta vorace della lettura. Nel confrontare le impressioni a fronte delle letture comuni spesso mi sono sorpreso di condividere con il genovese certe battute d'arresto del cuore che immaginavo fossero solo cosa mia, e questo mi ha fatto capire bene anzi meglio quanto e perché la sua amicizia mi sia cara.

Contatti: www.antoniotombolini.com

Stefano Meli

Un blues nato nel posto giusto

Dalla visita alla sede degli anarchici ragusani, su consiglio dei compagni, ho portato a casa non uno ma quattro cd di un chitarrista che sbagliando credevo mi fosse sconosciuto - roba che da noi al nord mica arriva facilmente, mi dicevo. Sbagliavo, appunto, perché andando ad annusare in giro spinto da un sospetto nato al primo ascolto ho poi capito che avevo già segnalato qui (“A” 258, novembre 1999) un lavoro dei Casbah, e lui c'era dentro. Come passa il tempo, e come restano dentro certe sensazioni mi sono detto. Pare quasi che ogni suono lasci addosso il segno.
Mi sarebbe piaciuto riportare a casa una qualche eco del suono della Sicilia, così ho messo in valigia un incontro troppo breve con Cesare Basile complice Daniele Scalia che non ringrazierò mai abbastanza, e un incontro mancato con Stefano Meli (Lucia ed io abbiamo saputo troppo tardi di un suo concerto a Marina di Ragusa). Certo, non va a modificare quello complessivo del bagaglio a mano, ma il peso della distanza si fa sentire, eccome: in Sicilia ci si deve tornare, appena possibile, a stringere mani, a incontrare, a scambiare voci e abbracci.
Immerso nel freddo e nella nebbia dell'inverno di qui, ho trovato nei lavori di Stefano Meli una via di fuga che ho percorso con rinnovato piacere (devo senz'altro affondare le orecchie negli altri suoi cd). Volevo segnalarveli già uno/due mesi fa, ma non riuscivo a trovare parole giuste. Ancora oggi è complicato per me mettere in forma di frase il vento e il caldo che li abitano: prendendola alla larga posso raccontarveli come dischi solitari fatti di chitarra e di blues, ma sarebbe come raccontare solo una parte piccola della storia, e neanche forse la più importante.
Intanto: oh, come suona Stefano. Rubacchiando una frase a voi-sapete-chi viene da dire che è bello che dove finiscono le sue dita debba in qualche modo incominciare una chitarra. Dentro a quel “bello” c'è racchiuso tutto un mondo di solitudini conficcate dentro a stanze senza pareti, e periferie del cuore, lontananze, rasoiate di malinconia e polvere - un mondo che Stefano sa tradurre in suono.
Quello che mi ha sorpreso, e la sorpresa si è ripetuta per tutt'e quattro i cd, è stato ritrovare e ritrovare ancora certe inusuali geografie del suono, in ogni opera dei panorami inattesi: quasi un deserto messo lì in riva al mare, un'America della mente che però ha il colore mediterraneo della sabbia mossa dal vento come fossimo sul bagnasciuga di Vendicari. Un posto dove i pensieri si accendono. Un posto dove ti accorgi delle radici. Un posto dove fai incontri strani, dove nel silenzio ti vengono a parlare gli spettri, dove ci si sporca di sangue.
È un blues nato nel posto sbagliato, verrebbe da pensare. E invece no: questo è nato in Sicilia. Proprio nel posto giusto, dove la musica non muore mai.

Contatti: cercatelo su Bandcamp, scrivete a stefano.meli73@gmail.com.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it