rivista anarchica
anno 48 n. 423
marzo 2018




Chi vince e chi perde

Ho parlato con un giovane amico, di recente. In partenza, non era un amico, ma solo un trentenne, più o meno, che avevo conosciuto come giallista (ma solo superficialmente) e che poi mi ha scritto presentandosi come un ex studente di Lingue e Letterature Straniere, e dunque, tangenzialmente, con una qualche familiarità con la mia funzione docente. Mi aveva inviato un messaggio molto bello, nel quale diceva di aver avuto per caso in mano il mio più recente volumetto di critica e di esserne rimasto ammaliato. Sicché, dal momento che non mi capita di frequente che i lettori rimangano ammaliati da un mio testo critico, ci siamo visti. Perché ero curiosa, e questa per me è una pulsione irresistibile, come dovrebbe esserlo per chiunque ambisca a far cultura.
Così è successo che siamo incontrati al tavolino di un caffè dentro una libreria, e abbiamo parlato. Mi son trovata di fronte un ragazzo giovane, ma non giovanissimo, disilluso sulla vita, ma non sconfitto, impegnato nel sociale, ma consapevole del limite del suo lavoro, un limite che sta alla fine in istituzioni che si combattono a vicenda. Mi ha detto di lavorare in un centro sociale a Corvetto, periferia non facile di Milano, e di lavorarci dal servizio civile: un tempo lungo, che avrebbe potuto cambiare qualcosa, per esempio, per i ragazzini che frequentano il centro per salvarsi da famiglie disfunzionali, padri spacciatori, madri incapaci di darsi verso e un tessuto sociale disastrato. Il mio amico però mi ha detto che è una battaglia contro i mulini a vento.
Ai due lati del centro, ci sono due cantieri aperti, che sono Territori Comanche di spaccio e piccola criminalità. I cantieri sono della Regione, il progetto in corso al centro è del Comune. I cantieri aperti (della Regione: istituzione 1) ostacolano e rendono inutile il lavoro del Centro (del Comune: istituzione 2). I soldi del volenteroso contribuente vengono utilizzati per mettere in competizione, assurdamente, due strutture in qualche modo riferite entrambe al settore del pubblico. Il mio amico era appassionato e disperato, furioso per l'inanità di questa situazione, ma, come già dicevo, incapace di arrendersi. Mi ha parlato di incontri e battaglie, del modo in cui tutto questo si trasforma in scrittura, della volontà di far funzionare un lavoro che gli piace. E poi a un certo punto ha detto questa cosa che mi ha colpita: “I ragazzini che noi cerchiamo di educare alla cultura e alle risorse della conoscenza mi guardano faticare ad arrivare alla fine del mese, me, che son laureato e che scrivo, e poi escono dal Centro e trovano lo spacciatore col macchinone. Secondo te, qual è il modello vincente?”
Vero. Aggiungo un altro mattone alla costruzione di questo piccolo albergo di possibilità che è la formazione culturale. Il punto sollevato dal mio amico non è per nulla esiziale, e temo sia parte di una strategia. Lo svilimento progressivo e in apparenza inarrestabile della figura dell'intellettuale ha come conseguenza la sua costruzione come modello socialmente fallimentare. E questo dimostra l'inutilità della cultura, e la ben maggiore efficacia di una scelta di vita che dalla cultura si allontani il più possibile. È stata, questa, un'operazione istituzionalizzata, resa evidente dal primo governo Berlusconi, e dal modello di “uomo vincente” (ed entrambi i termini sono importanti) proposta come un marchio elettorale e abbracciata dal patriarcato più ingenuo e ignorante di questo paese, e sostanzialmente avviata dall'alto, con una strategia precisa, e neanche troppo raffinata.

Formazione culturale come educazione alla libertà

Occorre però precisare anche che a questa operazione non mi pare che gli “intellettuali” abbiano opposto alcuna resistenza. Banalmente, la maggior parte di essi ha cercato strategie per restare vincente. Che queste strategie abbiano significato una deroga al senso vero della formazione culturale come educazione alla libertà, beh, non credo che sia mai stato ritenuto, da costoro, rilevante.
Il risultato è che ora le uniche forme di “cultura” (e le virgolette sono del tutto deliberate) esistente è quella che riesce a vendersi come un prodotto. L'artista è un guscio. Che abbia un pensiero non conta, perché lo si vuole arrendevole e pigro. E forse anche l'artista desidera esserlo. Per certo, non si potrebbe ridurlo com'è ora a prescindere dalla sua volontà, che da tempo ha smesso di essere libera.

Nicoletta Vallorani