  
                 
Due tipologie di conversione 
                 
                  1.  
                  Nel suo accurato tentativo di indagine sull'inquieta figura 
                  di Shaul, o Paolo, di Tarso, vissuto nel primo secolo (d. C.) 
                  e presumibilmente morto intorno all'anno 63, Riccardo Calimani 
                  mette innanzitutto in evidenza come, sia in quello che con una 
                  certa approssimatezza possiamo chiamare “medio oriente” 
                  che nella penisola italica – e segnatamente in Roma –, 
                  il cristianesimo ha trovato un brodo di cultura ideale per sorgere 
                  e, poi – piuttosto rapidamente – per imporsi. In 
                  particolare, Calimani pone l'accento sul culto del sovrano, 
                  su alcune caratteristiche delle religioni misteriche e sulla 
                  filosofia stoica. Il politeismo cominciò a perdere parte 
                  del suo fascino con l'affermazione, in età imperiale, 
                  di un “panteismo solare” che promuoveva l'idea di 
                  una “supremazia di una sola divinità astrale” 
                  – idea che, ovviamente, venne utilissima allorquando Augusto, 
                  per consolidare il proprio potere, cominciò a farsi chiamare, 
                  prima, divi filius (nel 40 a. C.) e, poi (nel 27 a. C.), 
                  Augustus, che, in pratica voleva dire più divino 
                  che umano. Nelle varie religioni misteriche orientali già 
                  si prevedeva pasti sacri, ovvero assunzioni di cibi elevati 
                  a simboli di Dio, nonché riti iniziatici che favorivano 
                  la “purificazione” di un “ corpo” all'interno 
                  del quale l'anima non poteva 
                  che essere sofferente. L'idea della “salvezza” di 
                  quest'anima una volta “liberatasi” del corpo prese 
                  così piede in alternativa a quella, più rassicurante 
                  ancora (almeno nei casi fortunati) che, con l'anima, sarebbe 
                  anche risorto il corpo. Un esempio portato da Calimani è 
                  quello del dio Attis, passibile di “essere sacrificato 
                  come offerta di propiziazione per la gente e per i suoi peccati 
                  e che sarebbe risorto per una vita eterna”. La stessa 
                  filosofia stoica, infine, cui si ispirarono Posidonio, il suo 
                  allievo Cicerone, Seneca, Plinio ed Epitteto contribuì 
                  a creare un clima etico in cui il premio alla virtù e 
                  il rifiuto del “piacere puramente edonistico” diventano 
                  il paradigma più idoneo per la convivenza sociale. Seneca, 
                  in particolare, nel De beneficiis, “si sforza di gettare 
                  le basi della fratellanza umana” e invita espressamente 
                  alle “buone azioni” come indispensabile complemento 
                  delle virtù. Insomma, tra l'a. C e il d. C, gli elementi 
                  di continuità non mancano e, volendo, ce n'è a 
                  iosa. 
                  Va da sé, allora, che, tra le tante affinità, 
                  non si possa ignorare quella tra ebraismo e cristianesimo – 
                  e non a caso il libro di Calimani si intitola Paolo l'ebreo 
                  che fondò il cristianesimo.  A 
                  pensare a quante vite sono state malamente stroncate in nome 
                  di una differenza tra queste due religioni si rimane sgomenti: 
                  fino a che punto può giungere l'idiozia umana e via rigirando 
                  il coltello della storia in una piaga collettiva. 
                   
                  2.  
                  Così, tanto per ricordare come sono andate le cose – 
                  fino all'“altro ieri”. Il “Corriere della 
                  Sera” dell'11 gennaio 1939 relaziona del discorso di padre 
                  Agostino Gemelli – l'omaggiatissimo fondatore dell'Università 
                  Cattolica di Milano –, il giorno prima, all'Università 
                  di Bologna, commemorando Guglielmo da Saliceto, e dice che “il 
                  pubblico presente aveva sottolineato con particolari applausi 
                  quando l'oratore aveva espresso il pensiero della Chiesa nei 
                  riguardi degli ebrei, ed aveva fustigato severamente coloro 
                  che, oltre frontiera, seguivano la politica della mano tesa”. 
                  Riportando, altresì, quella che Ernesto Rossi definì 
                  la “patetica conclusione del frate francescano”: 
                  “Tragica, senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro 
                  che non possono far parte, e per il loro sangue e per la loro 
                  religione, di questa magnifica Patria; tragica situazione in 
                  cui vediamo, una volta di più, come molte altre nei secoli, 
                  attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha 
                  chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, 
                  incapace di trovare la pace di una Patria, mentre le conseguenze 
                  dell'orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo”. 
                   
                  3.  
                  Roberto Carusi, noto attore teatrale ormai in pensione ma ugualmente 
                  attivo e partecipe del mondo, abita a Milano nei dintorni di 
                  via Padova, una zona ad alta concentrazione di immigrati che 
                  lo chiamano “zio” – che, come titolo di rispettoso 
                  merito, lo conosco perché è riservato anche a 
                  me, nel mio quartiere. In cerca di lapidi care, Carusi si attarda 
                  a Musocco, nel Cimitero Maggiore, e immagina di scrivere una 
                  lettera ai suoi genitori. Ne scaturisce un amabile libretto 
                  di sobrietà esistenziale, Cattolico di ventre ebreo, 
                  che, mentre sommessamente testimonia di un'epoca ormai trascorsa, 
                  è l'occasione per far emergere i nodi cruciali di quella 
                  riserva di dolorosa incertezza che l'autore definisce come “mitologia 
                  familiare”. Tutti quanti ne abbiamo una, con la quale 
                  dobbiamo fare i conti – non facili, come quelli che dobbiamo 
                  fare con qualsiasi mitologia. La lacuna – l'omesso, il 
                  mancante, il rimosso, il cancellato –, infatti, caratterizza 
                  la narrazione mitologica. Deputata a sedare le nostre ansie, 
                  a conferirci un passato affidabile alla meno peggio, ci richiede 
                  implicitamente di sospendere la nostra incredulità e 
                  ci trascina in avanti, sempre e comunque, accontentandosi di 
                  una coerenza minore, di un racconto dove numerosi restano gli 
                  spazi bianchi e dove non tutte le parole hanno davvero un significato. 
                  La mitologia familiare di Carusi deve sopportare, allora, i 
                  silenzi relativi alla “conversione” della nonna 
                  e della mamma – “fatte cattoliche” per sentirsi 
                  più a loro “agio” con “il resto della 
                  famiglia” –, il tacitato orrore di tre zie “ammazzate 
                  ad Auschwitz”, pianti improvvisi e non giustificati agli 
                  astanti, vaghezze in ordine a parenti dispersi, discorsi interrotti 
                  a danno tanto della logica quanto della relazione in atto. 
                  Fra il detto e il non detto della crescita dei figli, ci sono 
                  anche gli estremi della compatibilità tra una mamma “convertita” 
                  ed un padre, figlio di un anarchico di Carrara, poco incline 
                  ai rituali della religiosità esibita – un “babbo” 
                  con il suo “consueto sguardo arguto” solidalmente 
                  unito ad una “mamma” con il suo “inconfondibile 
                  sorriso”. Ci si chiede, dunque, cosa li abbia tenuti assieme 
                  e ci si risponde, ovviamente, che – a differenza di quanto 
                  accaduto nel rapporto tra cristiani ed ebrei – l'amore 
                  può far superare qualsiasi barriera culturale. Ma, intrufolandosi 
                  nei ricordi più e meno disordinati di Carusi, ci si imbatte 
                  in una figura demiurgica come quella di David Maria Turoldo 
                  (1916-1992), “il tormentato ed entusiasta frate poeta”, 
                  antifascista scomodo per la Chiesa ed orgogliosamente cosciente 
                  delle necessità della lotta di classe. Come nel Gesù 
                  ebreo zelota ipotizzato da Samuel Brandon, fede e ribellione 
                  in Turoldo vengono forzate ad una loro complementarità 
                  inducendo a pensare che, così come, a suo tempo, hanno 
                  costituito il rapporto tra un uomo e una donna, più tardi 
                  hanno informato di sé anche chi da questo loro rapporto 
                  è nato. 
                   
                  4.  
                  Mentre i motivi della “conversione” della mamma 
                  di Carusi sono chiari o comunque del tutto comprensibili nonostante 
                  quel minimo di opacità che sempre si deve concedere ad 
                  ogni comportamento umano, i motivi della “conversione” 
                  di Shaul Paolo – motivi che l'avrebbero fatto diventare 
                  poi “San Paolo” – lo sono molto meno. Il destro 
                  – a suo dire – glielo diede la famosa caduta da 
                  cavallo sulla via per Damasco: “Udii dal cielo una voce 
                  che mi diceva in ebraico” (si noti la lingua e, soprattutto, 
                  il fatto che lui la faccia notare) “Saulo, Saulo, perché 
                  mi perseguiti?”. Ma, come sottolinea Calimani insieme 
                  ad altri, “se Paolo si 'convertì' da qualcosa a 
                  qualcos'altro, certamente non fu dall'ebraismo al 
                  cristianesimo”, perché Paolo “continuò 
                  ad essere ebreo sino al giorno della sua morte” – 
                  constatazione di un fatto che “molti cristiani di oggi 
                  preferiscono trascurare e che molti studiosi ebrei trovano esasperante”. 
                  Rispolveratosi e rendendosi conto di essere ancora tutto intero, 
                  rispondendo alla “chiamata”, Shaul Paolo “non 
                  ebbe affatto la sensazione di cambiare religione, di convertirsi, 
                  ma piuttosto quella di servire Dio con lo stesso zelo su una 
                  sponda ebraica differente, magari attraverso un cambiamento 
                  di setta ma pur sempre nell'ambito di una fedeltà di 
                  fondo alla tradizione ebraica”. La seconda Lettera 
                  ai Corinzi (11,22) lo conferma. 
                  La rabbia indotta dalle contraddizioni, allora, cresce. Tanto 
                  sangue sparso, un conflitto che perdura nei secoli, originato 
                  da qualcosa che risulta inaccessibile – tradizioni narrative 
                  zeppe di lacune che, intangibili perché sacralizzate, 
                  provano a parlarci di persone che, mitologie per accondiscendenti 
                  complici e benevoli, della persona non hanno più addosso 
                  alcunché o, comunque, se mai l'hanno avuto, non hanno 
                  più quei requisiti minimi affinché noi le si possa 
                  considerali tali. 
Felice Accame 
                 Nota 
Paolo, l'ebreo che fondò il cristianesimo di Riccardo Calimani è stato pubblicato da Mondadori nel 1999 e riedito nel 2017. Le citazioni sono tratte dalle pagine 17, 30, 35-39, 141, 155-159. Cattolico di ventre ebreo di Roberto Carusi è stato pubblicato da Mursia, a Milano, nel 2017. Gesù e gli zeloti di Samuel Brandon, il cui sottotitolo è Il cristianesimo sovversivo prima di Paolo (e non è un caso se lo cito in questa circostanza), è stato pubblicato, da Rizzoli, a Milano nel 1983 e riedito da Pgreco, a Milano, nel 2014.               
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