rivista anarchica
anno 47 n. 418
estate 2017






Sul gommone del Capitano
Daniele Sepe e la sua ciurma


Una barca si aggira per il golfo...

Una barca si aggira per il golfo di Napoli come lo spettro che si aggirava per l'Europa. È una barca pirata eminentemente musicale, ma non è di certo l'Olandese volante (anche perché - come scherzava mestamente Woody Allen - “ogni volta che ascolto Wagner mi viene voglia di invadere la Polonia”).
Si tratta di un vascello, anzi nello specifico del grosso gommone di un musicista italiano, napoletano, proletario, buffone e incazzato, insomma di un pirata moderno: si tratta del “Capitan Capitone” e della sua ciurma “I fratelli della costa”. L'apparenza - quando suonano dal vivo - è scalcagnata, rappezzata, caotica: un palco invaso da cantori e strumentisti... ogni tanto trionfa una voce per un minuto, abbozza una romanza, ma subito un coro viene a sovrastarla, un motto di spirito la schernisce, una presa per il culo, una “jastemma” la ridicolizza. Non c'è modo si star seri su quella barca, anche se il gioco di fondo è serissimo: qui si gioca alla rivoluzione, e lo si fa suonandola.
Il pubblico si diverte, si sbraccia, si sporge, il palco è così affollato e ribollente che c'è l'impressione che si perda il confine fra musicanti e pubblico. E in effetti si perde, perché il pubblico canta assieme ai musicisti, che invece a volte si perdono per un (calcolato?) gioco teatrale. È evidente che sul palco ci siano dei professionisti che conoscono il loro mestiere, ma è anche evidente che in quel momento tirino a dimenticarselo e farsi prendere dal gioco. Si sfiora qualche momento di pura goliardia, si intonano cori e facezie - “Lota, lota” che pare a Napoli sia il non plus ultra dell'insulto, per il fonico che comprensibilmente, in tutto quel bordello, si è perso un'entrata e non ha aperto un microfono - ma è proprio allora che il Capitano in persona, che era seminascosto nel mezzo, si affaccia sul proscenio e tira un pistolotto iper-politicizzato da vero “cattivo maestro” del “bel tempo andato” sulle lotte operaie perse fra la movida e lo spritz... Chi lo direbbe che quel pazzo con bandana e Ray Ban a goccia è un genio, un ormai maturo enfant prodige della musica italiana? Chi lo direbbe che questa è la più recente personificazione di Daniele Sepe?
Daniele Sepe (il Capitano) mi dice: il pretesto è quello di raccontare una storia buffa che però è una specie di “ritratto di lotta di classe”. Il problema è che, fino a quando io ho fatto dischi para-militanti - perché non vanno mai letti solo sotto il profilo della militanza - parlavo sempre allo stesso pubblico: un pubblico in qualche misura già acquisito, con cui non è necessario usare l'escamotage della buffoneria, di certa cialtronaggine, però correvo anche il rischio di diventare retorico. Invece per riuscire a mascherare le questioni serie e importanti, devi ricorrere innanzi tutto alla commedia, infatti la prima persona che a me viene in mente quando penso a questi due dischi è il regista Mario Monicelli, che nei suoi film parlava di argomenti importanti e arrivava a tutti, al contrario di quei pallettoni di Antonioni, che se li andava a vedere solo l'intellettuale di sinistra...

Daniele Sepe

Come il sassofonista divenne prima autore e poi capitano

Dovremmo dare per scontato che in Italia non c'è bisogno di parlare di Daniele Sepe... ma mo' faccia finta di niente e in tre righe vi rinfresco la memoria. Daniele, classe 1960 e diploma in flauto al conservatorio, ha esordito a soli sedici anni partecipando a uno dei dischi più importanti degli anni '70 “Tamurriata dell'Alfa Sud” degli 'E Zezi: che nel catalogo “sacro” dei Dischi del Sole e per il folk italiano fu una rivoluzione che comportava che anche parlando di morti sul lavoro e storie operaie si potesse (e forse si dovesse) ridere e ballare.
Turnista di pregio per la pagnotta e autore di album ambiziosi, fra il progressive e il jazz, la sua creatività è un marchio che s'imprime su tutta la fucina napoletana degli anni '90, a metà dei quali comincia a non essere più solo un artista rispettato, ma diventa ambito da registi cinematografici e teatrali, mentre generosamente si spende per ogni dove. I suoi album cominciano ad alternare una facondia compositiva degna di Frank Zappa (da sempre suo ispiratore) con una sorta di riproposizione ragionata del canzoniere ribelle internazionale, ricomposto con gusto, ironia e follia. Con questi repertori torrenziali gira concentricamente per l'Italia, suona ovunque, partecipa e appoggia lotte e rivendicazioni.
Il suo talento nessuno osa discuterlo, ma la radicalità dei suoi discorsi gli attira più di una noia e gli fa rompere qualche rapporto: celebre a un certo punto una diatriba violenta contro Roberto Saviano e i suoi sostenitori. Daniele è tanto creativo quanto virulento e, trascinato dalla foga, ha la polemica facile, tanto che - nel mio piccolo - anch'io mi sono guadagnato più d'una stoccata da lui.
Pazienza, da un genio questo ed altro... così, quando qualcuno m'ha fatto presente che sarebbe stato importante prima o poi parlare dei suoi dischi su questa rubrica non mi sono tirato indietro, ma ho detto «sicuro che a lui faccia piacere?», «questo è il numero, telefonagli».
«Ale', come stai, sei a Napoli?» rispose lo sciagurato come se nulla fosse «ci mangiamo qualcosa assieme? se vuoi domani io suono, vieni a trovarci!»

Dai “Fratelli della costa” a “I parenti della sposa”

Daniele Sepe - Io penso che parlo sempre delle stesse cose, racconto sempre le stesse storie che riguardano la distanza fra la giustizia e la legge, che guarda caso è anche l'argomento della pirateria o quello di Robin Hood. Gli eroi popolari son sempre stati dei fuorilegge, nessuna canzone popolare è dedicata allo Sceriffo di Nottingham. L'argomento mi sta a cuore, come sta a cuore a qualunque anarchico, perché la bandiera nostra deriva, almeno simbolicamente, dal Jolly Roger, quindi per me è la metafora di una sorta di Primissima Internazionale della Storia, fatta da gente di razze diverse e religioni diverse, la prima bandiera che ha sventolato sulle lotte operaie e anche la prima occupazione di fabbrica, perché occupare la nave è occupare la fabbrica. Però, per la loro connotazione grottesca, quella dei pirati è anche una storia divertente.

Alessio - E anche questo è un tuo marchio compositivo, però sia il primo disco del Capitone che questo secondo non sono più opera tua e di un gruppo di collaboratori fissi, ma piuttosto di una più trasversale banda di artisti dell'area napoletana, tutti attivi in proprio, che, coordinati da te, collaborano a questo progetto. Dalle copertine è sparito il tuo nome e campeggia solo quello di “Capitan Capitone”.
Daniele - Il primo disco è nato per gioco. Ho mollato il gommone a novembre, non avevo un cazzo da fare, e così ci siamo chiusi dieci giorni in studio senza avere nulla di pronto, per scrivere le canzoni là, tutti insieme. Tutti noi facciamo musica da una vita - chi da diec'anni, chi come me da più di quaranta - e mi ero reso conto che molti di loro avevano una presa enorme sulla città: i Foja o La Maschera sono gruppi fortissimi, che magari fanno anche 5.000 persone a serata, Claudio Gnut ha un pubblico che lo segue e lo ama... Il problema è che in tutto questo spappolamento, in cui la questione territoriale si è chiusa in se stessa, queste realtà al di fuori della città non hanno riscontro, siamo in una situazione un po' medievale: fra le mura della città sei il re, fuori dalle mura sei uno straccione qualsiasi. Noi abbiamo approfittato del fatto che io, venendo da un'altra generazione, ho un nome spendibile a livello nazionale e ci siamo messi assieme per vedere di fare una cosa che provasse a rappresentare unitariamente una buona parte di ciò che viene fatto a Napoli.

[A questo punto mi sono rivolto al resto della “ciurma” che gozzovigliava fra le prove e il concerto]: e dunque pensate di aver prodotto una buona sinfonia dei rumori della città?
Tutti - «Sì, la cosa esiste!»
Alessio Sollo - [Onestamente io non lo conoscevo, ma sono rimasto colpito dalle sue poesie ironiche e malinconiche che, con grande musicalità, sposano “l'aria 'mbarsamata” di Di Giacomo a un mondo popolato di reietti della società e dell'amore... poi però sul palco con la ciurma questo delicato poeta si trasforma in un emulo del punk e sbraita senza maniche, invasato dallo spirito dei Clash, nda]. Anche dal punto di vista dei rapporti umani, negli ultimi anni tutte le situazioni musicali si erano un po' isolate. Questo progetto multiforme ci ha dato molto di più della musica, ci ha dato il senso dello stare insieme, del preoccuparci reciprocamente. Domani esce il disco di Tartaglia? Siamo tutti dietro a lui, a preoccuparci, darci una mano. Questa cosa era impensabile qualche tempo fa, si è interrotta la sensazione che la musica fosse stare ognuno nel suo orticello.

Daniele - Una volta fatto 'sto disco quello che ci ha stupito è che, in brevissimo tempo, alcuni pezzi come “Le range fellon” sono entrati nell'immaginario dei bambini. Io mi son ritrovato, ai primi concerti del Capitan Capitone, con torme di bambini che venivano vestiti da pirati a cantare le canzoni a memoria, compresi i vari turpiloqui! Mi ha fatto proprio piacere, perché con questo progetto pensavo di raccogliere le tante cose che avevo fatto, invece mi sono trovato a seminare. L'altro giorno poi siamo andati a fare un'intervista in TV, e una giornalista - che credo avesse letto il comunicato stampa dove c'è scritto che il matrimonio del Capitano si trasforma in una sorta di esproprio proletario - forse senza rendersi conto, ha ripetuto “esproprio proletario”: chissà da quanto tempo questi termini non venivano detti in televisione. Di nuovo m'ha fatto piacere.

Dal Capitone a Sepe e ritorno

Nel frattempo mi pare che tu, Daniele, abbia ripreso anche a fare il jazzista, con un importante progetto con Stefano Bollani?
Daniele - Il jazz l'aggia sunà pe' forza perché suono 'stu cazz 'e sassofono: se avessi suonato la chitarra elettrica avrei fatto l'heavy metal e mi sarei divertito molto di più! Mo' è un anno che collaboro con Bollani, ed è una bellissima esperienza, con onestà devo anche dirti che era un po' di tempo che collaboravo con collettivi musicali in cui, per estrazione, studi ed età, ero il più preparato, invece in questa esperienza mi sono ritrovato con gente che suona meglio di me, quindi ho dovuto ricominciare a studiare lo strumento: niente di meglio per ringiovanire a 57 anni.

Ma quel linguaggio, il primo amore della tua formazione, possiede ancora dei codici almeno linguisticamente rivoluzionari? E il pubblico che lo ascolta con quale spirito viene?
Daniele - No, no, quella è una battaglia persa, ormai il jazz è totalmente istituzionalizzato, è cambiato totalmente il mondo, dagli anni di Archie Sheepp, di Mingus, delle black panthers, di quello che mi appassionava da ragazzino... Oggi non è proprio più così: il jazz è diventata una musica “perbene”. Però con Bollani, che è una persona che condivide con me molte visioni non solo musicali, ci fermiamo e, a metà del concerto, io faccio per 10 minuti un comizio su quella che è la storia del jazz, quindi mi trovo di fronte un pubblico borghese e gli racconto che quelli che sono i loro eroi - Bessie Smith, Dizzy Gillespie, Billie Holiday, Lester Young - erano ricottari [magnaccia], puttane, drogati, alcolizzati «noi stiamo suonando musica magnifica creata dal sottoproletariato urbano» dico «così, quando oggi viene Keith Jarrett e vi dice che non dovete accendere una sigaretta o fotografare, dovete ricordarvi che quella musica è nata nei bordelli e, per quanto lui sia un grande, dargli fuoco al pianoforte!».

Alessio Lega