rivista anarchica
anno 47 n. 418
estate 2017


lotta anarchica

La bussola nel caos

di Massimo Varengo


Di fronte a un mondo che appare sempre più complesso, dobbiamo impegnarci nella ripresa di un confronto collettivo che sappia definire forme e contenuti di una critica condivisa dell'esistente e che sappia raccogliere intorno a sé le espressioni più avanzate del radicalismo.
E sulla mitizzazione della scienza e della tecnologia osserva che...


Scrivo avendo gli occhi ancora pieni delle immagini di piazza Statuto a Torino; una distesa di bottiglie rotte, zaini abbandonati, scarpe spaiate e poi persone ferite, sanguinanti, piangenti.
Da tempo i media ci hanno abituato ai tragici scenari che caratterizzano i momenti dopo gli attentati, ma qui c'è qualcosa di nuovo, c'è il terrore continuo e persistente che per una decina di minuti percuote gli astanti, li fa correre all'impazzata, gli uni contro gli altri, nell'urto e nel calpestio: trentamila persone che danno vita ad una rappresentazione concreta del nostro stato attuale di esseri viventi, alla ricerca del “si salvi chi può”. A tanto ci hanno ridotto i continui martellamenti sul pericolo del “terrorismo” cui siamo sottoposti quotidianamente da anni.
Piazza Statuto ha dimostrato che le politiche basate sull'enfatizzazione del terrore funzionano e sono assolutamente coerenti con la volontà di crescente sottomissione delle classi subordinate. Se basta un urlo, un petardo, per scatenare quanto abbiamo visto, vuol dire che la paura si è impadronita di noi fino a renderci individui folli in balia degli eventi. Prendersela con i venditori di birra in bottigliette di vetro è un ulteriore escamotage per non cogliere quanto queste situazioni sono funzionali all'instaurarsi di un sistema statale totalizzante e totalitario che – forte dell'offerta di massicce dosi di sicurezza, della garanzia che un aumento della presenza poliziesca e militare nelle strade sostenuta da una rete tentacolare di controlli e di telesorveglianza sia la chiave di volta per garantirsi una vita più o meno tranquilla – tende in realtà all'annichilimento di ogni volontà di opposizione e di rivolta. In preda ad una continua insicurezza, rotto ogni legame di solidarietà, ci vogliono soli ed inermi contro il potere, ma pronti alla lotta contro ogni “altro” che si profila all'orizzonte, soprattutto se povero e/o immigrato.

La scienza al servizio del potere

Nella consapevolezza che la politica, intesa come corpo di teorie e di proposte, non riesce più a rappresentare un elemento di coesione per l'intera società i ceti dominanti ricorrono ad ogni sistema per mantenere e rafforzare il proprio sistema di dominio, dato che il ricorso a pratiche clientelari, mezzi corruttivi, privilegi corporativi, sta mostrando la corda. Non a caso meccanismi elettorali messi a punto solo per consentire la loro possibilità di governo sono all'ordine del giorno nel panorama italiano, mentre su scala mondiale sempre più forte è il richiamo alla scienza e alla tecnologia come elementi fondamentali in grado di dare soluzioni ai problemi dell'umanità.
Nuove illusioni tranquillizzanti che contribuiscono a spostare ancora quello che è l'orizzonte di riferimento. Ormai è evidente che tutte le innovazioni sono piegate alle volontà del capitalismo e dei suoi gestori; l'automazione, la robotizzazione, l'informatizzazione, sono tutti elementi che lungi dal provocare un avanzamento reale delle popolazioni sono utilizzate per un maggior controllo della produzione e del consumo, quindi dei lavoratori e dei consumatori.
Affermazioni generiche come quelle che vedono nella scienza la possibilità per l'umano di impadronirsi dei meccanismi dell'universo e della vita stessa, sono smentite quotidianamente allorché la scienza dimostra oggi di essere al servizio del potere, per le ingenti risorse di cui ha bisogno, per le reti collaborative sulle quali deve potere contare, per gli obiettivi che si pone. Una scienza serva del potere non può liberarci dal potere, così come non può farlo una tecnologia sua diretta espressione.
Scienza e tecnologia, tra l'altro, oggi sempre più intrecciate con l'industria e la politica di guerra che respiriamo quotidianamente. Una guerra infinita, come ebbe a dire Bush, che rimane infinita perché essa stessa – nel suo protrarsi e trasformarsi – è funzionale al rigenerarsi del potere, al rafforzamento delle gerarchie, al ridisegnarsi dei mercati. Nella destabilizzazione del mondo il capitalismo trova sempre nuovi elementi di crescita e di sviluppo.
Ma trova anche qualche intoppo: i processi di migrazioni in corso, ad esempio. L'enorme flusso dei migranti spinto da vari motivi, guerre, siccità, crisi alimentari, dittature, e che si va riversando ormai quasi ovunque, sfugge di fatto alle classificazioni ordinarie dei fenomeni migratori causati generalmente da richieste di manodopera, più o meno a basso costo. Nella storia ci sono stati più esempi di questo tipo sollecitati e organizzati da governi e padronato.
Dalla tratta degli schiavi, alle grandi migrazioni di fine ottocento fino a quelle del secondo dopoguerra le necessità del capitalismo di avere disponibilità di lavoratori in base alle proprie esigenze di sfruttamento ha fatto sì che ogni spostamento ingente di massa fosse comunque riconducibile ad una politica d'assieme governabile e governata.

Verso un immaginario di liberazione

Oggi non è più così. Le donne e gli uomini, ragazze e bambini, che si sottopongono a viaggi faticosissimi e spesso tragici, oltreché costosi in termini economici per loro e le loro famiglie, non lo fanno per rispondere ad una chiamata di lavoro, ma solo per fuggire da una condizione di oppressione e di indigenza non più sopportabile. Gli sterminati campi profughi che li raccolgono e spesso li brutalizzano con condizioni di vita inaccettabili, con violenze e sevizie, in Libia come in Turchia e in tanti altri paesi del Medio Oriente e del nord Africa, non sono punti di raccolta di un esercito di riserva pronto a servire per un'industria in pieno sviluppo, ma concentrati di un'umanità dolente senza grandi speranze. Un'umanità che il capitalismo avrebbe voluto relegata nei propri paesi di origine, a disposizione, così come lo è stata nel passato, ma che oggi dimostra con la sua evasione/emigrazione di non volere restare rinchiusa nei recinti designati dall'imperialismo, ma di marciare verso un immaginario di liberazione.
Un grosso problema per governo e padroni: ospiti indesiderati bussano alla porta ponendo un problema che non è solo umanitario, così come vorrebbero che fosse le anime belle della civiltà del cristianesimo universalista, ma politico e sociale.

Che fare?

Progettano e costruiscono muri, barriere di filo spinato elettrificato, improvvisano campi di concentramento ai confini dell'Africa sub-sahariana, armano navi costiere, sparano a vista quando se ne dà l'occasione, modificano leggi e tribunali, s'inventano reati per metterli in carcere, spargono fango sulle organizzazioni non governative che soccorrono in mare i naufraghi e le persone in difficoltà fino a dirottarne le navi, terrorizzano le popolazioni che dovrebbero e potrebbero ospitarli; insomma le provano tutte per arginare questo flusso di umanità in movimento.
Non fanno solo quello che potrebbe servire: finirla con le guerre e le aggressioni militari, le crescenti spese per armi a scapito di quelle sociali, con lo sfruttamento economico, l'oppressione politica, con le politiche di rapina neocoloniali nei confronti di intere aree del pianeta, con un inquinamento che sta provocando siccità e desertificazione, con l'accaparramento delle risorse fondamentali, come l'acqua. Non lo fanno perché non è nelle corde del capitalismo e della volontà di potenza degli Stati.
Ma il “che fare?” si ripropone per chi pensa che la causa di tanta sofferenza e di tanta ingiustizia risieda nell'organizzazione sociale così come si presenta e che essa vada modificata a partire da un immaginario di ben altro tipo. Un immaginario che parta dai bisogni di libertà e di giustizia insiti in ogni individuo e che, se pure a volte manipolati e mistificati da seduzioni ideologiche e/o religiose, albergano nel profondo di ognuno di noi.
Ma anche l'identificazione dell'immaginario, i suoi contenuti ed i suoi contorni; non è cosa da poco ed è per questo che il movimento anarchico odierno, nonostante gli sforzi, stenta a trovare una condivisione di fondo su quali sono obiettivi e strategie da praticare. Non è un mistero per alcuno che oggi sul tavolo dei libertari siano apparecchiati molti piatti, con tante gradazioni e tante varietà: basta leggere la copiosa stampa a disposizione, i testi degli autori anarchici contemporanei, seguire i dibattiti all'interno e all'esterno delle organizzazioni esistenti, verificare nella pratica le forme concrete di espressione, sia sul piano nazionale che internazionale. Se una volta questo sarebbe stato definito “ricchezza”, in presenza però di un movimento qualitativamente e quantitativamente significativo, oggi non ce ne possiamo sicuramente accontentare.

Azione diretta, autogestione, orizzontalità

Nel caos sistemico che stiamo attraversando, nella trasformazione dei soggetti tradizionali di riferimento, nell'emergere di figure ed energie nuove, dobbiamo impegnarci nella ripresa di un confronto collettivo che sappia definire forme e contenuti di una critica condivisa all'esistente e che sappia raccogliere intorno a sé le espressioni più avanzate del radicalismo, per dare vita ad una comunità vitale di individui, motore di trasformazione e di riorganizzazione sociale.
Rispetto ad un sistema di potere che affina le sue armi per meglio opprimere e sfruttare, forme di risposta già si danno con l'utilizzo – anche non consapevole – delle metodologie classiche anarchiche: azione diretta, autogestione, orizzontalità, rifiuto o controllo della delega e del funzionariato, da parte di gruppi di cittadini, di movimenti, di associazioni.
Dopo anni, troppi anni di centralizzazione, di vertici, di partiti gerarchici, chi si muove adotta, in tutto o in parte, metodi di azione e di organizzazione libertaria. È un buon viatico per chi come noi crede che questa sia la strada per un'effettiva riorganizzazione della società in chiave socialista e libertaria. L'importante, come sempre, è avere una bussola per non smarrire il cammino.

Massimo Varengo