rivista anarchica
anno 47 n. 418
estate 2017


migranti

Marchio di fuoco

di Renzo Sabatini


Ziko, Kobu, Juan, Judith, Carmen, Ramon, Alicia, Marina e Paolo, Rajida, Wun-Chi: alcune persone in carne e ossa incontrate nei consolati e negli uffici stranieri. La loro sorte dipende dai funzionari che presidiano quei muri chiamati frontiere. Uno di loro, sconvolto dal proprio ruolo, ha cambiato mestiere. Per dignità umana. Forse c'è speranza.


Entrando nell'ascensore di un grattacielo senz'anima del centro di Accra, Ziko é nervoso, ma determinato. Non è la prima volta che si presenta in un posto così ed è pronto alle sottili umiliazioni che lo attendono. Ci ha fatto l'abitudine quando, più giovane, è stato un po' in Europa, grazie a una borsa di studio. Anche allora aveva dovuto affrontare file e interrogatori per ottenere visti e permessi e ce l'aveva fatta. Oggi non gliene importa delle domande che gli faranno, delle allusioni, di quella sottile cattiveria che sembra nascere spontanea negli uomini quando hanno il potere di decidere del tuo futuro. L'importante è riuscire a partire. Per l'occasione ha indossato i vestiti migliori, la camicia coi ricami, una cravatta a tinta unita, le scarpe lucide e una giacca, prestata da un amico, più o meno della sua misura. L'accostamento di colori è un po' ardito, ma pensa che gli addetti non ci troveranno nulla di strano: gli europei vedono la gente del posto attraverso la lente dei loro stereotipi, folklore locale su cui scherzare alla sera, nei loro club privati. Le mani stringono al petto una cartellina zeppa di documenti e la lettera di suo fratello Kobu, quello che da qualche anno fa l'operaio nel freddo boia di una città del nord Italia e manda i soldi a casa, ma non ha piú voglia di starsene da solo in quel mare di nebbia e solitudine e gli ha chiesto di raggiungerlo. L'ascensore spalanca le porte su una stanza spoglia, già affollata; una guardia privata affetta da noia e pinguedine lo scruta con sguardo pigro e assonnato. Ziko saluta educatamente e raggiunge lo sportello. Dietro al vetro l'impiegato lo classifica in una frazione di secondo, ma lui non si perde d'animo e sfodera il suo miglior sorriso. Poggia la cartellina sul banco, tanto per poggiare anche la mano e superare una lieve vertigine e prega Dio che oggi sia la sua giornata fortunata.

Melbourne, Buenos Aires, Città del Messico...

Ziko è già nel suo letto quando Juan varca la soglia di un elegante palazzo nel cuore di Melbourne. Il grande ingresso di marmo lo lascia smarrito e l'odore di caffé e toast che aleggia nell'aria gli dà la nausea, ma deve farsi forza. Oggi la sua compagna non è con lui, niente salvagente per galleggiare nel mare della severa burocrazia dell'immigrazione. La scena la conosce già e conosce bene anche l'impiegato che, da tempo, segue il suo caso. Capelli corti, cravatta grigia, sorriso stampato sulle labbra e frasi di circostanza, prima di cominciare. Poi il via all'ennesimo interrogatorio. Sono tre anni che vive con Judith, ragazza australiana conosciuta a Buenos Aires. La loro è una storia come tante: si sono innamorati e hanno cominciato a vivere assieme, prima in Argentina, poi in Australia, dove si trova lavoro e ti pagano dignitosamente. Da subito Juan è rimasto piacevolmente colpito da quella gente informale, tranquilla e simpatica che non sembra mai affannata dalla vita. Si è presto innamorato dei tram che sferragliano al centro e dei tramonti languidi sul lungomare. Ma poi è cominciato un inaspettato calvario burocratico. Fin da bambina Judith aveva conosciuto tanti stranieri; a scuola le avevano insegnato che la sua è una nazione cresciuta grazie ai migranti ed aveva assicurato a Juan che tutti sono benvenuti nel suo paese. Un sogno, da cui entrambi si sono risvegliati bruscamente quando hanno ricevuto la prima convocazione e hanno imparato che non basta condividere le gioie del letto e le amarezze della vita: bisogna anche convincere del proprio amore impiegati e agenti dell'immigrazione che si impicciano della tua vita privata, ti entrano in casa, mettono a nudo la tua intimità, perché devono accertarsi che la tua storia non sia un pretesto. È iniziato così un cammino doloroso, costellato di lunghi colloqui e domande trabocchetto.
Stamattina Juan stringe sotto al braccio un pacchetto con lettere, fotografie, conti correnti e cartoline. Tutto quello che è riuscito a tirar fuori dal garage dove lui e Judith, un po' disordinatamente, parcheggiano i ricordi. Qualcuno leggerà le sue parole d'amore un po' roboanti, le intimità più asciutte nelle righe di lei, le poesie che lui le aveva dedicato per sedurla e che l'avevano fatta ridere fragorosamente. Al solo pensiero una rabbia sorda lo assale. Ma quando arriva il momento anche lui si dipinge un sorriso sulle labbra e, come Ziko, si augura che oggi Dio sia dalla sua parte.
In un altro mondo Carmen, coi figli aggrappati alle gambe, se ne sta da ore in fila, rassegnata e triste, mentre Città del Messico, indifferente, le corre attorno. È la terza volta che si presenta, ma fino ad oggi non è riuscita a farsi ricevere. Cinque anni fa, quando lei era incinta per la terza volta, Ramon ha passato il confine con le pallottole che gli fischiavano nelle orecchie e da allora si è spaccato la schiena lavorando per i gringos. Ha riempito le tasche di un avvocato ed è riuscito a mettere le carte in regola, assicurarsi la terra promessa. Poi ha pagato ancora l'avvocato per mettere assieme carte vere e carte false e fare arrivare la famiglia. Infine ha scritto a Carmen due righe incerte, le ha detto che finalmente poteva venire, che il futuro era lì. Ma la fila, interminabile, è controllata da guardie armate e cani ringhiosi e Carmen, con la lettera di Ramon e i passaporti luridi fra le mani, non sa se questa volta le riuscirà perlomeno di farsi ascoltare.

...Roma, Ottawa, Chicago

Alicia, giovane, bella, elegante e profumata, entra in un bel palazzo rinascimentale del centro di Roma, accompagnata da un ometto avanti negli anni, con pochi capelli bianchi, occhiali da sole e pancia sporgente, che la tiene per mano. I due percorrono l'androne buio e fresco fino alla porta di legno massiccio con la targa di ottone lucidata di fresco. L'impiegato mellifluo che li accoglie rigira fra le mani il passaporto tailandese di Alicia e getta lo sguardo ostentatamente nella generosa scollatura. Poi osserva con disgusto e invidia il marito e sospira, pensando che il mondo non gira per il verso giusto.
Marina e Paolo, cinquantenni italiani, sono in attesa nell'anticamera di un avvocato, esperto di immigrazione a trecento dollari l'ora. Dopo nove anni e sei mesi di vita e lavoro a Sydney, hanno ricevuto la temuta lettera dal Dipartimento per l'Immigrazione, quella che li informa che il loro visto è in scadenza e dovranno presto lasciare il paese. Attendevano quella missiva eppure si sentono traditi. Amano quella terra, ci hanno vissuto come fosse la loro, hanno lavorato, lottato e sognato assieme a tanti amici del posto, hanno fatto volontariato, aiutato a scuola. Nel quartiere sono conosciuti e apprezzati e i figli, che nulla conoscono di cittadinanze, passaporti e visti, sanno solo che quella è la loro vita. Conoscono la città, gli amici, il profumo dei giardini, i treni che portano al centro, il fragore dell'oceano, i mattoni rossi della scuola, il suono inquietante del didjeridoo, le cortecce degli eucalipti, il canto del cookaburra. Marina e Paolo in Australia ci vorrebbero restare per sempre e pensano che, in fondo, non c'è motivo di cacciarli.
Rajida è seduta sulla moquette di un corridoio. La gente diretta all'ascensore le passa accanto un po' imbarazzata. Lei piange sommessamente con la faccia fra le mani. Insegna meccanica quantistica a Ottawa e deve andare a Parigi per un convegno, ma è iraniana e ha bisogno del visto. L'impiegato che oggi l'ha ricevuta è stato gentile, ma l'ha mandata via con una lunga lista di altri documenti da portare. Dovrà incastrare un altro appuntamento in una vita già piena, perdere altro tempo. Uscendo per il pranzo un altro impiegato la vede buttata a terra, col bel visto rigato dalle lacrime e non può fare a meno di fermarsi. Finiscono in un locale nei pressi dove si mangia decentemente e Rajida, confusa, non sa bene perché si sfoga con lui: “è tutta la vita che devo dimostrare a qualcuno che sono una persona onesta, ho una vita normale, non sono una terrorista, ho un lavoro, una famiglia e non voglio far male a nessuno. Per voi e per tutti gli altri conta solo che sono iraniana e allora la mia vita viene indagata da gente spesso ignorante, quasi sempre arrogante, che però ha diritto di impicciarsi dei fatti miei, guarda le mie carte con sospetto, telefona alla mia banca, al mio rettore, alla polizia del mio quartiere. Per me ci vuole sempre il doppio del tempo e qualche volta il visto arriva troppo tardi, oppure non arriva affatto, senza nemmeno una spiegazione. Tu non puoi capire quanto sia umiliante perché col tuo passaporto, non devi mai dimostrare nulla”. Ricomincia a piangere e l'impiegato si guarda attorno a disagio senza capire perché si sia messo in quella strana situazione. È solo un onesto travet che a tutte queste cose non aveva mai pensato.
Wun-Chi studia danza a Chicago e oggi è felice: è uscita dal consolato italiano col visto appiccicato nel suo passaporto cinese. Domani sarà a Milano, dove l'aspetta il suo ragazzo, uno studente italiano. Sono due squattrinati, mantenuti dalle rispettive famiglie e, benché si amino teneramente, non hanno modo di vedersi spesso. Wun-Chi non ha un impiego, ha pochi soldi, per l'Europa è una persona a “rischio migratorio” che potrebbe andare ad ingrossare le fila dei clandestini. Ma la fortuna le ha fatto incontrare uno che nel lavoro ci mette il cuore e ha deciso di fidarsi di lei.
Ho mischiato un po' carte, paesi e nomi, ma le storie sono autentiche: gli Ziko e le Rajida hanno spesso attraversato la mia vita.
Ne ho conosciuta tanta di gente in attesa, con la speranza di partire o di restare, e ho conosciuto anche quelli dall'altra parte della barricata, che hanno il potere di concedere e negare. Solitamente persone oneste, che si applicano con dedizione nell'arte dell'interrogatorio. Uomini e donne di saldi principi, guidati da solide certezze, pronti al diniego con spiegazioni inappuntabili, perché sono dalla parte della legge e credono che applicare le regole equivalga a praticare la giustizia. Si sentono a volte come soldati mandati in trincea per combattere una guerra insidiosa, fatta di carte false e permessi negati, per distinguere i buoni dai cattivi, gli utili dagli inutili. Non possono fermarsi a riflettere se quello che fanno abbia davvero senso, se il mondo debba essere per forza questo, se davvero le regole valgano più delle persone.

Non c'è stato nulla da fare

In un diario di De André, destinato a restare privato ma pubblicato postumo,1 ho trovato queste parole, che condivido: “l'aspetto più inumano della nostra società è che gli uomini valgono meno delle monete. Infatti il mercato del denaro è libero: schiacci un pulsante e trasporti patacas da Macao a Madrid, ne schiacci un altro e le obbligazioni della Repubblica Ceca finiscono a New York. Gli uomini, invece, prima di presentarsi ai punti di imbarco e sbarco devono attraversare oceani di folla e di carte bollate. Va già bene che non abbiano ancora istituito il marchio di fuoco”. In altra occasione il cantautore aveva detto: “abbiamo scoperto di essere una sola razza umana, cerchiamo di frequentarci e conoscerci il più possibile”.
Ma non è facile.
Qualche giorno dopo la sua prima visita, Ziko è stato visto uscire dallo stesso grattacielo con gli occhi bassi e la cartellina coi documenti sotto il braccio. Nel passaporto un grosso timbro rosso. Una scritta evidente, indelebile, un marchio di fuoco, chiaro monito per tutti quelli che, in futuro, avrebbero visto quel documento. Gettare il passaporto e ottenerne uno nuovo sarebbe inutile: il suo nome è ormai in banca dati, un diniego è un marchio quasi indelebile. Dovrà mettere da parte i soldi e organizzare un viaggio diverso, molto più pericoloso. Arriverà solo se le stelle saranno con lui.
Juan sarà più fortunato: ancora due anni di assurdi colloqui e intimità violate e, se sarà stato bravo a rispondere, se non finirà l'amore, il suo sogno sarà coronato. Per allora sarà stanco, amareggiato e quel magnifico paese si sarà un po' appannato ai suoi occhi.
Alicia è partita per la sua vacanza di sogno, perché l'uomo con la pancia che alla sera le presenta il conto del suo benessere ha potuto garantire per lei. È suo marito, dunque le carte sono in regola. Lui è forse americano, o canadese, inglese, italiano, svizzero o francese, non importa. Ciò che conta è che sia occidentale e benestante.
Carmen non rivedrà più Ramon. Dopo attese estenuanti è riuscita a farsi ricevere, ma nel frattempo la legge è cambiata e le sue carte non andavano più bene. Ramon ha perso il diritto di far arrivare la sua famiglia. Le manderà un po' di soldi, ogni tanto, sempre di meno, perché nel frattempo si troverà un'altra donna e Carmen comincerà ad essere il ricordo sbiadito di una vita passata.
Per Marina e Paolo non c'è stato nulla da fare. Si sono mossi anche gli amici, convinti, come Judith, che nel loro paese ci fosse posto per tutti, ma anche loro hanno scoperto, con amarezza, certe regole assurde. Dopo tutti quegli anni hanno venduto tutto, organizzato un discreto farewell party e fatto le valige. I ragazzi non hanno mai capito perché non potessero restare nel paese dove sono cresciuti.
Dopo il terzo appuntamento Rajida ha ottenuto il visto, con l'obbligo di ripresentarsi al rientro, per dimostrare di avere effettivamente lasciato la Francia. È stata una corsa contro il tempo. Il visto è arrivato all'ultimo momento e Rajida è atterrata a Parigi ed è corsa al convegno senza neanche il tempo di una rinfrescata in albergo, stanca e con varie ore di fuso da smaltire. Allo Charles de Gaulle ha dovuto subire altre umiliazioni ma il suo intervento alla Sorbona è stato applaudito. Di Parigi non ha visto nulla, il visto era di soli tre giorni, la durata della conferenza. Un tassista di buon cuore, andando verso l'aeroporto, ha allungato la corsa per farle vedere la città dalla collina di Montmartre.
Così va la vita per tanti e in genere nemmeno ce ne accorgiamo, perché abbiamo in tasca un passaporto buono per andare dappertutto e non ci fermiamo a osservare i milioni e milioni che devono fare carte bollate, che hanno sui documenti timbri a inchiostro indelebile, che si debbono giustificare, devono pietire e si trovano spesso di fronte un onesto burocrate qualsiasi che ha il potere di negare un sogno, il futuro, una semplice aspirazione, un viaggio.
Una sola razza umana ma migliaia di frontiere e regole a non finire e bisogna essere marchiati a fuoco per rendersene davvero conto.
Ero straniero e mi avete accolto, è scritto in un libro che ho letto spesso e non è specificato che lo straniero debba essere ricco e avere possibilmente la pelle bianca.

Perché un passaporto...? E si dimise

Due anni e sei visti dopo averlo incontrato per la prima volta Wun-Chi è andata a trovare di nuovo quell'impiegato, che nel frattempo aveva continuato ad aiutarla. Lei lo considerava ormai come uno di famiglia. È andata con un regalino per ringraziarlo di tutto e, sorridendo, gli ha mostrato il suo nuovo passaporto blu con l'aquila dorata: “Non ho più bisogno del visto” gli ha detto, con un po' di commozione, “ora sono americana”.
Per diventare statunitense ha dovuto rinunciare alla cittadinanza cinese, tagliare i ponti col suo paese. L'ha fatto con dolore per assicurare un futuro al suo amore e alla sua vita.
Quella storia fece riflettere l'impiegato, perché in fondo qualcosa non quadrava. Da cinese Wun-Chi doveva pietire visti anche per un solo giorno oltre quella e altre frontiere. Da americana era libera di andare, non aveva più bisogno della sua pietà. Eppure era sempre la stessa Wun-Chi, le stesse aspirazioni, la stessa vita. Solo il passaporto era cambiato. Come era possibile che fosse quel documento a stabilire ciò che la stessa persona potesse o non potesse fare? Perché un passaporto poteva decidere un destino e dividere il mondo in teorici buoni e cattivi?
L'impiegato decise di cambiare lavoro e fu una scelta di coscienza, sicuramente giusta ma forse anche un po' sbagliata, perché quelle come Wun-Chi non hanno poi trovato sulla loro strada quel po' di umanità che può cambiarti la vita ed è ancora molto lontano il tempo in cui ci renderemo conto che tutto questo è assurdo ed il marchio di fuoco non sarà che il ricordo di una barbarie del passato.

Renzo Sabatini

1. Una goccia di splendore, Rizzoli 2007.

Foto di Paolo Poce