rivista anarchica
anno 47 n. 418
estate 2017


terremoto

Lo scuotimento dell'antico

di Francesca Palazzi Arduini


Terremoto e spopolamento dei territori. Un'analisi di lungo periodo sulle conseguenze delle recenti scosse sismiche. E del modo in cui lo Stato ha affrontato problematiche vecchie e nuove.


Il sisma che ha colpito l'Abruzzo e L'Aquila nel 2009 e poi le scosse del 2016, che hanno profondamente lesionato molti paesi rurali degli Appennini di Lazio e Marche, sono eventi spesso presentati dai mass media come cause di “svuotamento” dei piccoli centri abitati di quelle zone. In realtà, purtroppo, l'evidenza delle condizioni di scarsa manutenzione degli abitati, proprio per questo pesantemente colpiti, sottolinea una situazione di spopolamento dei territori come fenomeno già da tempo presente, che ha radici antiche, e del quale il terremoto è l'ultimo atto.
Spopolamento che inizia con le migrazioni dei contadini e proletari italiani di un tempo, e prosegue col migrare dei disoccupati di oggi verso le coste, i grandi centri urbani, italiani e non.
Proprio per questa onda lunga, la parola d'ordine in bocca a tecnici e politici, “ricostruzione”, se non ripensata come atto di coscienza delle cause dello spopolamento, difficilmente può portare ad un arrestarsi delle partenze.

Amatrice (Ri), 30 settembre 2016 - Gaetano, pompiere casertano,
passeggia tra le viuzze secondarie del paese (Foto di Matthias Canapini)

“Svuotare le coste e riportare le persone sulle montagne”, scrive Franco Arminio1, “la genesi delle nuove comunità” c'è chi titola sulla stampa per celebrare l'arrivo dei boscaioli rumeni e delle pastore etiopi sulle montagne del Casentino e del Trentino. Riflessioni e articoli che vogliono confrontarsi con la parola “comunità”, come fosse possibile ricrearla, mentre il panorama politico pianifica un sempre minor peso delle periferie rurali. Prova ne è la montagna (appunto) di complicazioni burocratiche creata agli stessi abitanti delle zone terremotate, che hanno patito un inverno di impotenza organizzativa disastrosa per sé e le proprie piccole realtà contadine.
Rurale, dal latino rus: campagna. Se si guarda una mappatura delle aree rurali italiane, quelle più a rischio di estinzione sono proprio quelle situate sulla colonna dorsale del Paese.
“Qui parlo di Sud, ma il tema dello spopolamento non è il tema del Sud, è il tema delle montagne”, scrive Arminio. Eppure nel centro Italia è anche l'entroterra collinare a subire il colpo. Lo ha confermato sin dalla fine degli anni Novanta un dossier molto ricco di dati, il “Rapporto sull'Italia del disagio insediativo, 1996/2016” che indica i piccoli Comuni sotto i cinquemila abitanti come protagonisti del progressivo spopolamento: è vuota, come minimo, una casa su tre. In alcuni comuni sono vuote oltre la metà delle abitazioni. Nelle Marche sono 45, il 18,8% dei comuni a rischio spopolamento, ma in altre Regioni è anche peggio: Molise, Calabria, Sardegna, Basilicata, Abruzzo, e poi anche Campania, Umbria, Piemonte, Liguria. Una strage cui solo alcuni piccoli centri, turistici e fortemente caratterizzati, resistono.

Amatrice (Ri), 30 settembre 2016 - Veduta della strada principale del paese.
In piedi è rimasto solamente il campanile (Foto di Matthias Canapini)

Realtà e paesaggi bucolici (degli spot)

Eppure, ad esempio nella mia regione, le Marche, la superficie agricola utilizzata, SAU, nell'entroterra è altissima e offrirebbe molte possibilità di sussistenza locale, se non fosse che il modello agricolo è completamente cambiato a causa dell'industria alimentare.
Si tratta di un antico e ora tecnologico metodo di predazione. Nelle Marche la dimensione delle aziende agricole è perciò aumentata nel tempo da otto ettari a dieci ettari. Nella nostra provincia, Pesaro e Urbino, le piccole aziende familiari di dimensione sino a due ettari sono diminuite di quasi la metà in soli dieci anni, quelle di dimensione sino a dieci ettari sono diminuite di oltre il venti per cento, ed anche quelle da dieci a trenta ettari sono diminuite del quattordici per cento; un valore niente affatto trascurabile che segnala l'abbandono di pratiche colturali artigianali in favore della concentrazione in mano ad aziende più grandi in grado di creare un'economia di scala, e trarre utili anche se il prezzo della materia prima è bassissimo.
Sentirete parlare, in spot pubblicitari campagnoli, dei “nostri piselli”, dei “nostri pomodori”, delle “nostre mucche” ritratte come bestie felici, brade, con sfondo agreste. La realtà, invece, anche quella “cooperativa”, è molto meno vicina ai paesaggi bucolici degli spot. È la realtà di un'economia latifondista tecnologizzata, passata dai mezzadri ai “terzisti”, con l'eccezione dei presidi di agricoltura biologica che restano però uno spigolo e debbono confrontarsi con lo sfruttamento del territorio in forme industriali anche per altri aspetti: territori spopolati come siti ideali per localizzare discariche, inceneritori, cave e cementifici.
Che l'Italia sia “il giardino d'Europa” è un detto che si potrebbe trasferire alle realtà rurali come “giardino delle città”, un giardino che serve però ad appoggiare il pattume, far pisciare il cane, e solo saltuariamente scattare una foto e fare una grigliata.2
Anche la struttura di potere fiscale sui territori, col Patto di stabilità, si è modificata: oggi resta molto meno ai cittadini di quanto si paga in tasse, e ciò che arriva è pesantemente finalizzato ed indirizzato (come nel caso del ritorno in contributi per lo sviluppo dell'UE) a politiche preconfezionate, gestite in accordo col potentato amministrativo regionale.
In sostanza: solo il tre per cento delle entrate delle province resta sul territorio.3

Il rapporto sull'Italia del disagio insediativo lancia l'allarme sullo spopolamento
nei municipi sotto i 5mila abitanti: “In 25 anni un residente su sette
se n'è andato. Due anziani per ogni giovane. Vuota una casa su tre”

Dinamiche virtuose e clientelismi

Dalle province sono state trasferite alla regione molte attività per le quali la gestione sul territorio permetteva maggiore autonomia decisionale (strade ex Anas, formazione professionale e lavoro, trasporto pubblico locale, protezione civile, difesa del suolo, fiumi e torrenti minori, agricoltura, caccia e pesca nelle acque interne, edilizia pubblica, servizi sociali, beni e attività culturali, turismo) in settori politicamente strategici per il consenso. Alla provincia invece, nonostante il taglio netto dei finanziamenti, resta la responsabilità di provvedere a settori quali la rete e l'edilizia scolastica, le strade provinciali (gestione e manutenzione), l'ambiente (ma VIA e VAS passano in regione), l'urbanistica, l'assistenza tecnico amministrativa agli enti locali.
È stato da subito possibile notare un degrado dei servizi per la completa assenza di investimenti che sarebbero necessari proprio per scongiurare l'abbandono dei piccoli centri dell'entroterra: impossibilità di affrontare emergenze neve o dissesto idrogeologico, frane di cinte murarie prive di manutenzione, frane di strade (nella mia provincia, ad esempio, sono censiti oltre 628 chilometri quadrati di aree soggette a frana), emergenza freddo negli edifici scolastici, collegamenti bus medievali, crisi idriche estive, bracconaggio, scarsissimo controllo delle nocività ambientali.
Il volontariato e la sussidiarietà sociale sono per questo molto presenti sui territori già da prima dei terremoti, perché fare le cose “gratis” ormai è l'unica soluzione in comuni senza soldi; anche in questo caso si creano sia dinamiche virtuose che clientelismi, questi ultimi rendono la “comunità” ancora più chiusa e impermeabile a necessarie contaminazioni culturali.
“L'Italia interna ha bisogno di persone, deve trovare e incoraggiare le persone che contengono avvenire.” E invece sentite spesso parlare sulla stampa di piccoli paesi, le classiche quattro case, che inscenano proteste per l'arrivo di ospiti profughi: la paura del tracollo di un equilibrio già corroso dalla senilità, dall'isolamento, è altissima e tramanda xenofobia, e la xenofobia la creano le stesse scelte politiche di chi pubblicamente si fregia di combatterla.

Percentuale di comuni montani con meno di 10.000 abitanti con presenza
di disagio sul totale dei comuni montani con meno di 10.000 abitanti

Comunità ruscello e comunità pozzanghera

Ricordiamo anche che lo Stato ha proposto, mentre orchestra di privatizzare ogni servizio pubblico (in primis acqua, gestione rifiuti e sanità), un bonus per i piccoli comuni: più finanziamenti in cambio della fusione in agglomerati nei quali le spese amministrative siano ridotte all'osso. Ma meno burocrati non significa una visione meno burocratica delle politiche territoriali.
In Italia tra il 2009 e il 2017 si sono fusi o sono scomparsi 122 comuni. E molti altri spariranno. Sui comuni fusi cadranno contributi, re-immissioni di quelli della pedagogica UE, con una pedagogia basata sul grande sviluppo industriale al quale i progetti per l'Italia rurale fanno da contorno, con poco più dell'undici per cento di “agricoltura biologica” (di varia qualità) sul terreno rispetto a quella chimica.
Non è un caso che in molti piccoli comuni si viva ancora della vicinanza a imprese nocive alla salute; l'Italia rurale diventa terreno di accoglienza per ciò che alla città serve. I colonizzatori si presentano con specchietti e perline, per farci passare il tempo: il termoriscaldamento per gli inceneritori, i marciapiedi nuovi pagati dai cavatori, le sale multimediali coi video dei mulini bianchi.
Così, quando leggo nei forbiti Piani strategici di sviluppo che il comune si doterà di un'aula didattica per i giovani del paese “fornita di una stampante 3D”, penso di nuovo alle parole di Arminio sulla capacità di vivere la realtà: “Ci sono servizi inutili e lavori che non servono a niente. Bisogna partire da chi c'è in un certo luogo e da chi potrebbe arrivare. E allora ecco che si ragiona su certi servizi e su certi lavori. Magari in un paese serve un barbiere, non serve un centro di documentazione per lo sviluppo locale”.
C'è, anche secondo me, la necessità di capire cosa veramente ci appartiene come valore, in una sorta di basicità, di frugalità, di semplicità: “I paesi devono produrre cibo di altissima qualità, i paesi vanno concepiti come farmacie: aria buona, buon cibo, silenzio, luce”.
C'è l'importanza del riflettere sul valore principale, le relazioni. C'è il desiderio comune, ce ne accorgiamo perché seppur distanti pensiamo le stesse cose, di essere capaci di creare nuovi equilibri: “Ci vuole una comunità ruscello e non una comunità pozzanghera”, per andare verso una società diversa da quella in cui “un quintale di grano costa meno di un shampoo dal parrucchiere”.
Queste riflessioni segnano una linea del dubbio, un punto di domanda che segue per tutta la vita chi abita i territori spopolati o dello statistico “disagio insediativo”, una linea che percorre sotterranea le teorie sulla Decrescita come quelle della Transizione, le attività di Genuino clandestino di oggi come quelle del primo biologico e biodinamico italiano: come possiamo far stare assieme buone abitudini e tradizione al di fuori di un modello patriarcale, e sfuggire proficuamente alla retorica della politica?
Alle scosse da sotto terra possiamo rispondere con l'emersione di queste domande, alla frantumazione proviamo ad opporre una visione d'insieme.

Francesca Palazzi Arduini

  1. Franco Arminio, poeta e scrittore, vive a Bisaccia, un piccolo paese in provincia di Avellino; dal suo blog, comunità provvisorie, sono anche tratte le frasi che troverete in chiusura dell'articolo. In particolare del “paesologo” Arminio ho tratto frasi da “Appunti per chi si occupa di sviluppo locale”.
  2. La battuta è di Alessandra Daniele, che trovate con le sue “Schegge taglienti” su carmillaonline.com.
  3. Il dato proviene dalla Assemblea dei presidenti di Province, febbraio 2017.