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                Il tempo dei padri 
				 
                La metà dei figli dei miei amici è all'estero. 
                  Qualcuno, alla fine del liceo, ha deciso di prendersi un “gap 
                  year” per riflettere, qualcun altro aveva bisogno di dimostrare 
                  di sapersela cavare da solo, e un manipolo crescente di intellettuali 
                  del futuro ha scelto atenei stranieri per perfezionare o iniziare 
                  la sua formazione accademica. Non tutti, s'intende, sono stati 
                  accettati a Cambridge o in qualche corso esclusivo dell'Ecole 
                  Superieure di Parigi. E tuttavia sono andati lo stesso, spesso 
                  con informazioni insufficienti e basandosi sull'adagio che l'università 
                  all'estero è comunque meglio che in Italia. 
                  Questa convinzione ha messo radici profonde in un paese intensamente 
                  esterofilo, e ha le sue ragioni, ma come tutte le generalizzazioni, 
                  tende facilmente a trasformarsi in un anestetico, che neutralizza 
                  ogni forma di resistenza e lascia sguarnita di giovani una istituzione 
                  abitata da cialtroni, ma ancora ricca di potenzialità 
                  inutilizzate. Siamo, per esempio, uno dei pochi paesi che forniscono 
                  ancora, almeno nei primi 3 anni di università, una formazione 
                  ampia, con un orizzonte culturale articolato e la richiesta 
                  di una contestualizzazione dei problemi attraverso le connessioni 
                  interdisciplinari che una formazione troppo specialistica – 
                  quella di norma più spesso attuata in atenei esteri – 
                  inevitabilmente cancella. Abbiamo ancora un forte legame con 
                  la storia e con la nostra tradizione più nobile, forse 
                  anche perché la condizione presente non offre grandi 
                  possibilità di vanto. Non siamo minimamente in grado 
                  di proteggere e conservare il nostro patrimonio artistico, ma 
                  lo studiamo con cura e offriamo ancora percorsi di studio efficaci. 
                  Abbiamo – nei corsi di laurea umanistici e soprattutto 
                  nelle lingue classiche – un percorso formativo del triennio 
                  che non ha rivali in Europa. Eppure, i ragazzi scappano. Cos'è 
                  che ci manca? Esistono una risposta fattuale e una risposta 
                  ideale. 
                  La risposta fattuale comprende una serie di ragioni pragmatiche 
                  difficilmente controvertibili. Gli studenti pagano tasse altissime 
                  per avere servizi insufficienti, docenti pur bravissimi e che 
                  tuttavia non hanno alcun interesse per la didattica, che considerano 
                  uno scomodo accessorio del loro mestiere, biblioteche che fanno 
                  acqua da tutte le parti, spesso in senso materiale, e la burocrazia 
                  implicata in ogni piccola operazione amministrativa trasforma 
                  a volte il percorso accademico in un viaggio nel Castello di 
                  Kafka. Se a questo aggiungiamo il costante discredito cui sono 
                  sottoposte in Italia le humanities e i tagli pesanti 
                  che governi recenti di ogni colore hanno ritenuto opportuno 
                  fare alla formazione di ogni ordine e grado, direi che di ragioni 
                  di sconforto ve ne è a sufficienza. Aggiungiamo l'assenza 
                  di qualsiasi possibilità di carriera in accademia per 
                  giovani dotati e tuttavia patologicamente incapaci di strisciare 
                  appresso a un professore et voilà, il gioco è 
                  fatto. Abbiamo uno spettro di ragioni necessarie e sufficienti 
                  per fuggire. 
                  Io però penso che vi sia anche un altro percorso di decodifica 
                  di questa fuga, forse meno afferrabile nella sua idealità, 
                  ma per ciò stesso all'origine dei fatti. Esiste cioè 
                  l'atto di coraggio. Ora, il coraggio è una cosa strana. 
                  Non va confuso con l'incoscienza, che è destituita di 
                  ragionamento e di consapevolezza. E neanche va fraintesa con 
                  l'opposizione tout court, che è una fase della 
                  vita senz'altro necessaria ma superabile. Il coraggio – 
                  quello che abbiamo perso collettivamente – è resistenza 
                  al pensare bovino dei tanti. E discende dalla conoscenza, di 
                  se stessi e del mondo, e dalla convinzione che, appunto, i fatti 
                  si possano cambiare. 
                  Diventare grandi è scegliere, non accodarsi. Resistere 
                  invece di derogare al conflitto. Questo cerco di dire ai miei 
                  studenti, con quali risultati non so. 
                  Dei molti ragazzi che ho visto andar via, solo pochi sono tornati. 
                  Ho perso, nella mia ormai lunga carriera professionale, molte 
                  intelligenze promettenti che sono andate a spendersi altrove. 
                  Non posso biasimare chi ha fatto questa scelta, e in molti casi 
                  l'ho sollecitata e voluta io. Ho sempre pensato di averlo fatto 
                  perché non potevo garantire alcun futuro agli studenti 
                  più brillanti. Però alla fine il punto è 
                  che ciascuno deve costruirsi il suo futuro, non aspettarsi che 
                  glielo garantiscano altri. Perciò eccomi qui a dire qualcosa 
                  di diverso da quello che ho sempre detto. Restate, ragazzi, 
                  e formatevi. Continuate a credere che si possano cambiare le 
                  cose, e agite per farlo. Ragionate. Osservate il mondo. Non 
                  scappate. Provate a considerare la possibilità di usare 
                  la vostra intelligenza per il coraggio che vi serve qui, non 
                  altrove. Perché questo contesto non costruisce noi, ma 
                  proprio il contrario. 
                  Siamo quello che scegliamo. E la fuga, qualunque fuga, è 
                  una deroga alla scelta e riconduce alla fine al punto di partenza, 
                  solo con qualche anno di più, e meno tempo a disposizione 
                  per cambiare il mondo. Nessuno lo cambierà per voi, questo 
                  mondo. Perciò, qualunque cosa facciate, dovete farla 
                  da soli. Il tempo dei padri è finito.
                  Nicoletta Vallorani
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