Paesaggi 
                  insorgenti 
                “Quanti siamo figli di contadini? 
                  Figli pochi, nipoti tutti.” 
                Sarà stata casualità, sta di fatto comunque che 
                  Genuino clandestino, viaggio tra le agri-culture resistenti 
                  ai tempi delle grandi opere (Michela Potito, Robert Borghesi, 
                  Sara Casna, Michele Lapini, Firenze, 2015, pp. 280 € 18,00), 
                  è uscito per quelli di Terra Nuova Edizioni tre mesi 
                  prima dell'inaugurazione di Expo Milano e che io mi sia trovata 
                  a leggerlo proprio mentre era in corso tutto quel gran parlare 
                  del “grande evento”, di quanto sia una presa in 
                  giro per allocchi sprovveduti pensare che lì dentro si 
                  tratterà seriamente di agricoltura/cibo/alimentazione, 
                  delle reazioni mediatiche alla manifestazione No-expo dove la 
                  rabbia di pochi ha cancellato gli argomenti di molti, compreso 
                  “Genuino clandestino” che, in quell'occasione, manifestava 
                  tranquillamente dietro il suo striscione. 
                  Bisogna prendere atto (cito Guido Viale da un articolo su “Il 
                  Manifesto” del 12 maggio 2015) – e far prendere 
                  atto – che contro quella miseria infinita di cui l'Expo 
                  è solo il simbolo più vistoso ed esaustivo, si 
                  può aggregare una pluralità di forze ed iniziative 
                  ancora assai eterogenee: uno schieramento potenzialmente maggioritario, 
                  in barba a tutti i sondaggi e ai media di regime che ci raccontano 
                  di una popolazione planetaria che non desidera altro che immedesimarsi 
                  con quella simbologia fasulla. 
                   “Genuino 
                  clandestino” fa parte di quella pluralità di forze. 
                  Dietro quelle due parole ci sono persone che hanno fatto delle 
                  scelte di lavoro e di vita in rapporto alla terra e al lavoro 
                  della terra, cioè alla coltivazione di prodotti in maniera 
                  rispettosa, che significa buona per la terra, per gli animali 
                  e per noi umani. 
                  Per collocare meglio questa realtà, per capire, bisognerebbe 
                  guardare un po' alla storia del nostro paese perché, 
                  parlando d'Italia, si parla di un territorio che è stato 
                  sostanzialmente agricolo fino a poco prima dell'ultima guerra 
                  mondiale (settant'anni fa) e che dalla fine del conflitto bellico 
                  ha subito uno scriteriato processo di industrializzazione che, 
                  in senso sia chimico che meccanico, ha coinvolto anche il lavoro 
                  agricolo. Ciò ha significato l'introduzione progressiva 
                  delle monocolture intensive in stile americano (che significano 
                  anche grande quantità di mano d'opera per periodi brevi), 
                  conseguenti consistenti modifiche nell'industria agroalimentare, 
                  accentramento della proprietà terriera e addirittura 
                  del patrimonio genetico delle piante. Poi c'è stata la 
                  competizione col mercato mondiale e – per farla breve 
                  – come si sa, sono sempre i piccoli a soccombere, quindi 
                  molte piccole e medie imprese agricole a conduzione familiare 
                  hanno chiuso e nel nostro paese c'è tantissima terra 
                  abbandonata, soprattutto nelle zone collinari e montuose che 
                  sono la parte più vasta della nostra penisola. 
                  La situazione oggi è insostenibile e proseguire secondo 
                  i criteri che impone il neoliberismo – ormai lo si sa 
                  – è suicida. “Un fronte comune contro lo 
                  strapotere della grande distribuzione e delle multinazionali 
                  è necessario perché si rovescino i rapporti di 
                  forza. Le pratiche di contrasto devono necessariamente diversificarsi: 
                  il recupero delle terre (secondo un modello che superi la gerarchia 
                  tra padroni e lavoratori), la riorganizzazione dal basso della 
                  produzione e della distribuzione (l'accorciamento della filiera) 
                  e il consumo critico devono andare di pari passo con pratiche 
                  di mutualismo, che permettano ai lavoratori iper-precari della 
                  terra di uscire dall'indigenza, dall'isolamento e dalla disinformazione 
                  cui sono costretti.” 
                  “Genuino clandestino” – che ufficialmente 
                  nasce nel 2010 – sta dentro questa volontà di sovvertire 
                  lo stato delle cose ma il fatto più bello e interessante 
                  del libro è che oltre a raccontarlo ce lo fa toccare 
                  con mano attraverso le storie dei loro protagonisti e le tante 
                  fotografie che, a volte, dicono più delle parole. Molte 
                  anche le analisi e le riflessioni teorico-politiche che si intercalano 
                  in un volume di oltre duecentocinquanta pagine che, grazie al 
                  bel lavoro delle curatrici, riesce in maniera sincera a renderci 
                  compartecipi di quanto si sta muovendo nelle campagne italiane. 
                  Sono dieci tappe per dieci realtà differenti: dalla riappropriazione 
                  collettiva dei terreni del comune di Firenze di Mondeggi/fattoria 
                  senza padroni in custodia popolare, a chi coltiva da solo 
                  cinque ettari nei dintorni di Roma, nelle campagne della Sabina; 
                  c'è la storica comune libertaria di Urupia nelle 
                  Puglie e la coppia con podere di loro proprietà sulle 
                  colline modenesi che ha scelto la campagna come stile di vita 
                  per sé e i propri figli. Il panorama e le storie che 
                  incontriamo sono quindi molto diversificati ma uno è 
                  il fattore che accomuna tutti, quello di appartenere a un movimento 
                  di comunità in lotta per l'autodeterminazione alimentare. 
                  “Genuino clandestino” è nato da comunità 
                  locali di cittadini e contadini che si autorganizzano insieme, 
                  creano mercati di vendita diretta, sistemi di garanzia partecipata, 
                  momenti di scambio di saperi e informazioni. Non è solo 
                  le dieci realtà raccontate nel libro ma un intero movimento, 
                  senza strutture gerarchiche, che negli anni ha creato forme 
                  di resistenza quotidiana alla logica del profitto che, sfruttando 
                  la terra e le persone, distrugge relazioni sociali ed equilibri 
                  ecologici. 
                  Il libro non cerca di mostrare la realtà più rosea 
                  di quanto sia, le difficoltà di chi si ostina a vivere 
                  di agricoltura senza grandi investimenti non sono nascoste, 
                  però si vedono anche scorci nuovi su paesaggi insorgenti, 
                  dove si sperimentano modi buoni di stare in relazione tra le 
                  persone e con la terra. Resistere oggi è una necessità 
                  per sopravvivere, per tutti, tanto più in agricoltura 
                  e le comunità rurali che lo stanno facendo ci mostrano 
                  qualcosa che è nuovo e antico allo stesso tempo, un modo 
                  di stare sulla terra per nutrirla e nutrirsi che, secondo me, 
                  va guardato con grande rispetto e attenzione per non farsi prendere 
                  nelle trappole retoriche – Expo docet – e 
                  nelle mode superficiali che si appropriano di tutto a loro uso 
                  e consumo, anche del linguaggio di chi lotta per costruire la 
                  sovranità alimentare. 
                  Il “viaggio tra le agri-culture resistenti” ci aiuta 
                  in questo, a vedere l'autenticità dei volti di chi con 
                  le mani rivendica il diritto di produrre cibo buono per tutti 
                  noi. 
                 Silvia Papi 
                     Giulio Questi, 
                  poeta delle immagini 
                 Protagonista 
                  di “Se sei vivo spara”, Thomas Milian dichiarò 
                  in un'intervista: “con lui [Giulio Questi] era come lavorare 
                  con Antonioni, perché in fondo era un intellettuale rivoluzionario”. 
                  Per lo scrittore e giornalista Oreste Del Buono era “il 
                  Polanski orobico, il Bunel della Val Brembana”. Di certo 
                  Giulio Questi è stato uno degli irregolari del cinema 
                  italiano, un maledetto in attrito con tutte le conformità 
                  e il glamour dell'universo della celluloide. Sceneggiatore, 
                  attore e, innanzitutto, regista, ma le etichette professionali, 
                  in fondo, lo disturbavano, specie quella del “metteur 
                  en scène”: “Ho evitato di qualificarmi come 
                  regista, mi avrebbe conferito uno status sociale dal quale mi 
                  sono sempre tenuto alla larga per salvaguardare la mia libertà”. 
                  Bergamasco di nascita, Giulio Questi è morto lo scorso 
                  3 dicembre a novant'anni conservando una proverbiale ironia 
                  e schiettezza, nonché una lucidità di pensiero 
                  impressionante. Solo qualche mese prima della scomparsa, Rubbettino 
                  aveva dato alle stampe Se non ricordo male (Rubbettino, 
                  Soveria Mannelli - Cz, 2014, pp. 160, € 14,00), un'autobiografia 
                  scaturita da una lunghissima discussione del regista con Domenico 
                  Monetti e Luca Pallanch. 
                  Definire l'opera di piacevole lettura potrebbe essere riduttivo, 
                  visto la notevole varietà di storie, avventure, situazioni 
                  narrate da uno dei protagonisti (seppur molto appartato) del 
                  cinema italiano degli ultimi settant'anni. “Se non ricordo 
                  male” si potrebbe definire il romanzo-vita di Giulio Questi, 
                  di un libertario che poco meno che ventenne decise di prendere 
                  la strada della montagna ed arruolarsi in una brigata partigiana 
                  (esperienza già fatta conoscere in “Uomini e comandanti” 
                  pubblicato da Einaudi nel 2014). Finita la guerra a Questi si 
                  prospettò la scelta di emigrare in Svezia o in Venezuela, 
                  ma alla fine rimase nella sua amata Bergamo e iniziò 
                  a scrivere sulle pagine culturali de “La cittadella”, 
                  una rivista a cui collaboravano intellettuali affermati ed emergenti 
                  e che - anche per volontà dello stesso Questi - scartò 
                  di Pasolini le poesie in dialetto friulano. Alcuni racconti 
                  di Questi uscirono sul Politecnico di Elio Vittorini il quale 
                  si arrabbiò tanto con lui quando gli comunicò 
                  che sarebbe andato a Roma per inseguire le muse della settima 
                  arte. “Il cinema – lo liquidò Vittorini – 
                  è una cosa effimera, che passa e scompare, lo scrivere 
                  resta, è importante”. 
                  Una volta a Roma, Questi conobbe Visconti, ma le prime serie 
                  offerte di lavoro gli furono fatte da Valerio Zurlini che lo 
                  volle come aiuto regia per alcuni documentari e il lungometraggio 
                  “Le ragazze di San Frediano” (1954) tratto da un 
                  romanzo di Vasco Pratolini. Con lo scrittore fiorentino incorrerà 
                  in un incidente stradale mentre andavano in lambretta per le 
                  strade di Roma. Questi ricorda che divenne conosciuto tra i 
                  cinematografi della capitale proprio grazie a all'incidente 
                  che procurò qualche frattura a Pratolini: “Quando 
                  alla sera arrivavo al bar Rosati, in piazza del Popolo, dove 
                  stazionava l'intellighenzia del momento, tutti dicevano: guarda 
                  quello stronzo che ha rotto le costole a Pratolini. Ero diventato 
                  famoso: ero uscito dall'anonimato!”. Le pagine del libro 
                  sono rimorchianti anche per la lunga collana di aneddoti esposti 
                  con disincanto e senza peli sulla lingua. 
                  Ricorda Questi di quel provino in cui bocciò sia Silvia 
                  Koscina che Sophia Loren (che poi una volta, a New York, se 
                  la ritroverà nel suo letto), di quando fu scritturato 
                  per caso come attore nella “Dolce vita” di Fellini; 
                  delle vacanze al mare che faceva con Citto Maselli e la sua 
                  compagna Goliarda Sapienza; del rigetto che continuò 
                  ad avere per Pasolini e tutta la sua opera letteraria e cinematografica; 
                  dell'incontro con il suo sosia Pietro Germi che lo volle tra 
                  gli interpreti di “Signore i signori”; della militanza 
                  nel Partito Comunista che poi abbandonerà; della cocaina 
                  sniffata per puro godimento senza diventare mai un cocainomane 
                  (”per me è sempre stato un momento di allegria, 
                  l'esecuzione di un inno alla gloria nei momenti più felici 
                  di comunanza”). 
                  Il Giulio Questi regista, dopo aver lavorato in una serie di 
                  film ad episodi, nel 1967 affiancato nella sceneggiatura e nel 
                  montaggio dall'inseparabile Franco Kim Arcalli, firma la sua 
                  prima vera regia con “Se sei vivo spara”, “il 
                  western più violento, e pop che sia stato prodotto in 
                  Italia”, una pellicola che segna una rivoluzione nel “cinema 
                  nostrum” ma viene martoriata da sequestri e forbiciate 
                  della censura. Con il successivo “La morte ha fatto l'uovo” 
                  (1968), Questi “pigia il piede sul pedale del grottesco 
                  e del nero” mentre con “Arcana” (1972) porta 
                  a termine un “film rituale sul disordine urbano e i suoi 
                  misteri, difficile da decifrare e catalogare”, tra gli 
                  interpreti Lucia Bosè nei panni di una fattucchiera lucana 
                  emigrata al nord”. Dopo “Arcana” tutte le 
                  porte del cinema si chiuderanno per Questi, ma si apriranno 
                  quelle della televisione dove realizza tantissimi spot e delle 
                  fiction (“Quando arriva il giudice”, “Non 
                  aprite all'uomo nero”, “Il segno del comando”). 
                  Per quanto il suo cinema venga definito bizzarro, barocco, impudente, 
                  Giulio Questi nella sua autobiografia confessa: “Io non 
                  mi vergogno a dirlo, ho sempre cercato la poesia, cioè 
                  qualcosa di inafferrabile, talmente inafferrabile da lasciarmi 
                  a terra come poeta mancato. Ma non ci ho mai rinunciato e l'ho 
                  sempre inseguita, sì, la poesia, distruttrice della logica 
                  sintattica della normalità e del conformismo”. 
                  Insomma, Giulio Questi un poeta delle immagini, il marchio del 
                  “Polanski italiano” non sarebbe assolutamente disdicevole 
                  o fuori posto... È azzeccatissimo. 
                 Mimmo Mastrangelo 
                     Pirati dove meno te l'aspetti: 
                  quei ribelli del FC St. Pauli 
                “Danzano sulla storia di giorni conquistati 
                  Figli della memoria, pirati a St. Pauli 
                  Danzano sulla gloria di giorni conquistati 
                  Figli della memoria, banditi a St. Pauli” 
                  Talco, St. Pauli 
                  (dall'albo Mazel Tov, 2008) 
                  
                 Il FC St. Pauli, di cui “A” rivista già 
                  si occupò nel 
                  n. 383 (ottobre 2013), è la squadra dell'omonimo 
                  quartiere di Amburgo. I suoi risultati agonistici non sono esaltanti, 
                  eppure conta sostenitori in ogni parte del mondo. Il Jolly Roger 
                  (il teschio con le ossa incrociate, emblema tradizionale dei 
                  pirati), simbolo della tifoseria sicuramente più diffuso 
                  del logo originale della squadra, viene sfoggiato con orgoglio 
                  su magliette, toppe e cappellini in tutta Europa, e non solo, 
                  anche da chi di calcio ne sa ben poco. 
                   Dichiaratamente 
                  antifascista e antirazzista, la curva de FC St. Pauli si è 
                  messa spesso in luce per l'esposizione nel corso delle partite 
                  di striscioni con messaggi solidali nei confronti di lotte in 
                  corso nei confini tedeschi o all'estero, come accadde per i 
                  No Tav nell'estate 2011 (lo striscione recitava in italiano: 
                  “St Pauli sta con le montagne. No Tav!!!). Quest'anno, 
                  con la propria squadra a rischio di retrocessione, i tifosi 
                  hanno lanciato nuovamente la parola d'ordine: Nie wieder 
                  Krieg, nie wieder Faschismus, nie wieder 3. Liga [Mai più 
                  guerra, mai più fascismo, mai più Terza Lega]- 
                  e si noti l'ordine d'importanza delle cose. Il FC St. Pauli 
                  nel corso degli anni è diventato un vero e proprio Kultclub, 
                  dietro al quale tuttavia c'è una complessa realtà 
                  che spesso viene lasciata in ombra. Ad ovviare a ciò 
                  è uscito pochi mesi fa il corposo volume di Nicolò 
                  Rondinelli intitolato Ribelli, sociali e romantici. FC St. 
                  Pauli tra calcio e resistenza (Edizioni Bepress, Lecce, 
                  2015, pp. 361, € 15,00). 
                  Rielaborazione della sua tesi magistrale in pedagogia, il libro 
                  di Rondinelli non si concentra soltanto sull'aspetto calcistico, 
                  che pure è ampiamente presente com'è ovvio, ma 
                  narra anche tutto quello che si mosse e si muove intorno al 
                  club. In primo luogo spicca Amburgo e più in particolare 
                  il quartiere di St. Pauli, con la sua storia di contraddizioni 
                  e lotte che portarono, per certi versi in modo sorprendente, 
                  la scena della sinistra radicale ad incrociare il cammino del 
                  FC St. Pauli. Ma il volume si concentra anche sulla concreta 
                  organizzazione che si sono dati i tifosi nel corso degli anni, 
                  sulle loro interazioni con il quartiere (e con la città) 
                  e sul rapporto (spesso conflittuale) con la dirigenza della 
                  squadra. Sostanzialmente mi pare che il merito del libro sia 
                  quello di far interagire piano calcistico e piano storico-culturale 
                  per così dire, mischiando in modo complessivamente convincente 
                  saggi di natura accademica, testi di fanzine provenienti 
                  dall'ambiente della tifoseria del FC St Pauli e interviste orali, 
                  il tutto tenuto insieme da una scrittura appassionata, entusiasta 
                  e coinvolta ma puntuale. Tuttavia c'è un ulteriore aspetto 
                  che emerge dal mio punto di vista dal libro di Rondinelli. Senza 
                  cedere alla facile mitizzazione, dal suo volume risulta come 
                  il FC St. Pauli, con il suo percorso che parla la lingua della 
                  libertà, dell'autodeterminazione e della solidarietà, 
                  non sia una realtà data una volta per tutte, ma il prodotto 
                  di una decennale storia fatta di conflitti, contraddizioni, 
                  che ancora oggi è minacciata da numerosi pericoli, tra 
                  cui quello che l'autore definisce efficacemente “lo spettro 
                  della gentrification”. Insomma, il libro ha il 
                  merito di mostrare come il FC St. Pauli non sia caduto dal cielo, 
                  non sia perfetto e come la sua indubbia alterità deve 
                  continuamente affrontare nuove sfide- con intelligenza, dal 
                  basso e a stretto contatto con la comunità del quartiere, 
                  rimanendo fedele a quei valori che l'hanno reso famoso al di 
                  là e forse nonostante i suoi risultati agonistici. Ribelli, 
                  sociali e romantici è dunque uno strumento per conoscere 
                  meglio questo frammento di realtà calcistica e culturale 
                  nei suoi diversi aspetti. Una realtà di cui sapere l'esistenza 
                  fa senza dubbio stare meglio. 
                 David Bernardini 
                     Goliarda Sapienza, 
                  l'arte di Essere 
                “Lei aveva cercato la sua morte affrontando Mattia quella 
                  notte, ormai lo sapeva, e forse solo chi è stato così 
                  vicino alla morte può dimenticare e poi rinascere come 
                  Modesta rinasce giorno per giorno... 
                  Che importavano gli anni quando si cominciava a capire? Quella 
                  cicatrice che divide la fronte sta ora a dimostrare la saldatura 
                  del suo essere prima diviso. Rinasce Modesta partorita dal suo 
                  corpo, sradicata da quella di prima che tutto voleva, e il dubbio 
                  di sé e degli altri non sapeva sostenere. Rinasce nella 
                  coscienza d'essere sola”. 
                   
                   L'arte 
                  della Gioia (Einaudi editore, collana Super ET, Torino, 
                  2014, pp. 552, € 15,00) è un libro scomodo come 
                  solo la vita riesce ad essere. Scuote, lacera, pungola, indica, 
                  denuda. È uno specchio impietoso e proprio per questo 
                  merita di essere letto e poi riletto, a distanza di anni. Come 
                  un monito. Non a caso si tratta di un libro postumo: scritto 
                  da Goliarda Sapienza tra il 1967 e il 1976, venne rifiutato 
                  dai principali editori italiani e fu stampato in pochissime 
                  copie solo nel 1998, due anni dopo la morte dell'autrice. Una 
                  scrittura anarchica nel contenuto e nello stile: componenti 
                  inscindibili, interdipendenti, mente e corpo di un'individualità 
                  complessa e a tratti contraddittoria. La prosa ha la spontaneità 
                  della scrittura libera e al tempo stesso la solenne gravità 
                  di un testamento. Materica, carnale, ossuta nelle digressioni 
                  del pensiero, lirica nella rappresentazione di paesaggi interiori. 
                  Modesta, protagonista e motore propulsivo del romanzo, è 
                  una siciliana di origini povere nata il primo gennaio del 1900. 
                  Una ribelle, un'indisciplinata. Una donna che mai si piega a 
                  percorrere strade già tracciate: non cede alle sue origini, 
                  alle circostanze che continuamente la mettono alla prova, ai 
                  ricatti dell'amore, al terrore della solitudine. Sceglie, invece, 
                  sempre. Si edifica un destino su misura, a lei rispondente, 
                  senza timore di abbattere – con amorale spietatezza – 
                  gli ostacoli in cui inciampa lungo la strada: convenzioni, regole, 
                  imposizioni, nemici. Modesta asseconda la propria indole con 
                  coraggio – e quanto ce ne vuole per vedersi senza filtri 
                  e sovrastrutture – orientando le proprie scelte ad un'onestà 
                  radicale, passando di azione in azione, combattendo sistematicamente 
                  quell'immobilismo che “anche se confortevole, alla lunga 
                  si risolve sempre in un pantano”. Dalla povertà 
                  della campagna agli studi in convento, dalla nobiltà 
                  conquistata con machiavellica astuzia alla prigione, dall'attività 
                  politica ai viaggi in giro per il mondo. E poi amicizie viscerali, 
                  amanti, figli, compagni, amori. Terra e mare, carne e poesia, 
                  visceralità e pensiero raffinato. 
                  “Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto 
                  assolute, nei significati snaturati che le parole continuano 
                  a rivestire. Mentiva la parola amore, esattamente come la parola 
                  morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco cosa 
                  dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano 
                  le piante, gli animali... E poi, ripulirle dalla muffa, liberarle 
                  dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle 
                  nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di 
                  quelle che l'uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, 
                  le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, 
                  umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, 
                  sacrificio, rassegnazione”. 
                  L'arte della gioia è un libro sulla libertà, del 
                  corpo e della mente (del tutto inscindibili, nella visione di 
                  Goliarda Sapienza), e sui suoi più acerrimi quanto celati 
                  nemici: autocommiserazione, pietismo, senso di predestinazione, 
                  paura della solitudine, scarsa consapevolezza di sé. 
                  Tutto ciò che relega nella rigidità asfittica 
                  di un ruolo o di un percorso predefinito, impedendo l'affermazione 
                  gioiosa dei propri desideri, la ricerca del piacere, la relazione 
                  paritaria e costruttiva con l'altro. Quella propensione a spostare 
                  il nemico fuori di sé, lamentando una schiavitù 
                  che spesso è auto imposta e conducendo una vita da tristi 
                  e ciechi detenuti, anziché da gioiosi protagonisti. La 
                  vita di Modesta sembra suggerire che solo attraverso un faticoso 
                  percorso di conoscenza di sé, di accettazione della propria 
                  natura, delle spinte vitali che ci animano e delle paure che 
                  ci frenano, è possibile uscire dal ruolo di personaggi 
                  e renderci autori della nostra storia. Scegliendo, rifiutando 
                  e – se necessario – opponendoci in modo effettivamente 
                  consapevole e libero. Per farlo, occorre una buona dose di lucida 
                  spietatezza, specialmente nei propri confronti. 
                  Modesta si oppone alle ingiustizie sociali, ai dogmi religiosi, 
                  alla cultura patriarcale e fascista in cui vive, ma la sua resistenza 
                  è innanzitutto espressione vitale e creativa del sé 
                  profondo. Non è un'eroina. A muoverla non c'è 
                  quella “malcelata aspirazione alla santità o vocazione 
                  al martirio” che intravede invece nell'atteggiamento del 
                  pensiero di molti compagni antifascisti. Non si arrende alla 
                  ferocia del dogma, dell'ideale monolitico che nasconde la paura 
                  dell'errore, della ricerca, della sperimentazione, della fluidità 
                  della vita. Non cede al dogma religioso così come a quello 
                  del materialismo dialettico, in cui intravede la stessa tendenza 
                  assolutista. Non soccombe all'ideale dell'amore come miracolo 
                  silenzioso, come “venerazione di statue”, ma preferisce 
                  immergersi nella complessità dei sentimenti, nella loro 
                  caducità e insicurezza, nelle contraddizioni che rendono 
                  vitale ogni incontro. 
                  Amante sensuale di uomini e donne, Modesta agisce la volontà 
                  del corpo senza opporre resistenze ideologiche o intellettuali. 
                  Non tollera il vittimismo di chi continuamente lamenta di essere 
                  discriminato dalla società in quanto diverso, 
                  sbandierando la propria sofferenza: “mostrano le loro 
                  ferite solo per chiedere clemenza alla società che anche 
                  loro, soprattutto loro, sentono santa e giusta invece di lottarla”. 
                  Rifiuta le dissezioni speculative dell'amore, il tentativo di 
                  categorizzare i motivi del desiderio, dell'affetto, della passione. 
                  Per giungere, ormai al termine della sua storia, ad ammettere 
                  l'incomunicabilità di “questa gioia piena dell'eccitazione 
                  vitale di sfidare il tempo in due, d'esser compagni nel dilatarlo, 
                  vivendolo il più intensamente possibile prima che scatti 
                  l'ora dell'ultima avventura”. Ritrovandosi a pensare che 
                  “la morte forse non sarà che un orgasmo pieno come 
                  questo”. La gioia di morire per il fatto di aver vissuto. 
                  Laddove vivere, sia chiaro, non è un eufemismo. 
                 Marta Becco 
                 Su “A” 399 (giugno 2015) abbiamo parlato di 
                  Goliarda Sapienza in un'intervista 
                  a Massimo La Torre di Domenico Bilotti dal titolo “Ma 
                  oggi la strada è vuota”. 
                
 
    Brasile, fine '800/ 
                  Quella Comune Cecilia ancora così attuale 
                 Un 
                  mio caro amico mi manda in regalo il romanzo di Afonso Schmidt 
                  Colonia Cecilia (Edizioni dell'Asino, Bologna, 2015, 
                  pp. 162, € 12,00) sulla colonia Cecilia, in traduzione 
                  italiana. Il libro, appena uscito, sfoggia una bella copertina, 
                  che ha per sfondo un disegno di Lorenzo Mattotti. Il simpatico 
                  disegno di un asinello accompagna l'indicazione dell'editore: 
                  le Edizioni dell'asino (e i libri de Lo straniero). La copertina 
                  contiene anche il nome della collana – “Le muse 
                  furiose” –, un cartouche verde sul davanti 
                  con l'indicazione del titolo e del sottotitolo, il nome dell'autore 
                  e di chi scrive la prefazione, Alice Rohrwacher. Sul retro della 
                  copertina si ritrova lo stesso cartouche verde con qualche 
                  riga di presentazione. Appena apro il libro, che piacere ritrovare 
                  l'asinello, in piedi, su questa pagina di solito desolatamente 
                  bianca! Poi qualche informazione sulla casa editrice, che mi 
                  permette di ritrovarla online, e in fondo l'elenco dei dieci 
                  titoli, su temi estremamente vari, già pubblicati in 
                  questa collana. Alla fine del libro, due paragrafi riportano 
                  l'uno la filmografia della giovane regista insieme a un simpatico 
                  commento e l'altro la presentazione del romanziere brasiliano, 
                  con elementi tratti, penso, dalla scheda in portoghese di una 
                  nota enciclopedia online. 
                  Ma niente sul romanzo stesso, sulle date di prima, seconda edizione, 
                  niente sulla traduzione, né sul traduttore né 
                  sulla prima edizione di questa traduzione. Grazie a degli estratti 
                  proposti su questa stessa rivista, nel 
                  numero di marzo 2008, Colonia Cecilia, Siena, Casa 
                  editrice Maia, 1958, ed. or. Colonia Cecilia. Uma aventura 
                  anarquista na America, São Paulo, 1942), posso verificare 
                  che si tratta dello stesso testo italiano. Devo cercare ancora 
                  per arrivare al catalogo della Nazionale di Firenze e scoprire 
                  il nome del traduttore, Italico Ancona Lopez. Ma perché 
                  si dimenticano sempre i traduttori? E infatti di questo traduttore, 
                  dal nome che suona come uno pseudonimo, non trovo traccia. Né 
                  riesco a sapere a chi fosse venuto in mente, nel 1958, di tradurre 
                  e pubblicare il romanzo di Schmidt. Forse al fondatore e direttore 
                  della casa editrice Maia, il poeta e scrittore Luigi Fiorentino 
                  (http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dove-i-motori-battono-alla-pesca-ricordando-luigi-fiorentino/)? 
                  Non si tratta qui di commentare questa traduzione né, 
                  come abbiamo fatto in altra sede, di evocare ancora l'impatto 
                  del romanzo di Schmidt sulla storia e la leggenda della colonia 
                  Cecilia, bensì di (tentare di) metterci nei panni di 
                  chi legge il romanzo così “nudo”, come ha 
                  fatto Alice Rohrwacher per scrivere questo testo e aiutare gli 
                  “asinelli” (con questo vezzeggiativo lei chiama 
                  gli editori) a “guadagnare in termini di lettori”. 
                  La prima osservazione è che nonostante il filtro romanzato 
                  attraverso il quale passa la Cecilia di Schmidt, che, ai suoi 
                  tempi, aveva fatto di tutto per raccogliere materiale storiografico 
                  e anche qualche “testimonianza”, restando con buchi 
                  enormi e ritrovandosi con realtà deformate dalla memoria 
                  (e anche dalla fantasia), il potere d'identificazione della 
                  colonia Cecilia resta fortissimo. 
                  La giovane regista mette infatti a confronto tre immagini tratte 
                  da sue esperienze personali – il ballatoio di un palazzo 
                  di Torino, una scuola alternativa sugli Appennini – e 
                  dalla mitologia, con la dea Temis che personifica la giustizia. 
                  Illustra così “l'eroismo fallimentare che ci piace 
                  tanto”, con un “noi” che include, ma chi? 
                  Il lettore, gli asini? Certo non Giovanni Rossi, il fondatore 
                  della colonia Cecilia, il cui profilo psicologico non corrisponde 
                  a quello creato da Schmidt, anche se, per tanti motivi, ha dovuto 
                  rientrare nella vita “normale”. Sarà questo 
                  il motivo per cui è venuto in mente agli asinelli (ci 
                  sia concesso usare anche noi il vezzeggiativo) di ripubblicare 
                  oggi la traduzione italiana del romanzo di Schmidt: ricordare 
                  che questo tipo di esperienza è destinato a fallire? 
                  Eppure la modernità di questa “vecchia” idea 
                  si percepisce nel termine comune, maschile all'epoca della Cecilia, 
                  diventato femminile da qualche anno in qua, e femminile anche 
                  nel nuovo titolo dato al romanzo dagli asinelli: Una comune 
                  di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento. 
                  Osserviamo, per finire, l'aggiunta, nel titolo, della parola 
                  giovani, che non corrisponde all'età dei personaggi del 
                  romanzo, né, tanto meno, all'età dei membri della 
                  vera colonia Cecilia. Non corrisponde neanche all'età 
                  di tante persone che oggi ancora scelgono, a volte per una breve 
                  parentesi, a volte per tutta la loro esistenza, di fare della 
                  vita in comunità la loro “normalità”. 
                 Isabelle Felici 
                     Con la speranza 
                  che il mondo cambi 
                 Alla 
                  fine della vita ciò che conta è aver amato.  
                  Parole lette, rimaste impresse nella mente di Licia Rognini 
                  Pinelli e poste in chiusura del suo bel libro, piccolo e toccante. 
                  Dopo ( Enciclopedia delle donne, Milano, 2014, pp. 80, 
                  € 10,00) è la scrittura intima e privata, sofferta 
                  e autentica di una donna, del suo coraggio di fronte allo sgomento, 
                  rabbia, dolore per la morte innocente del marito Pino, “il 
                  ferroviere anarchico”, “caduto” dal quarto 
                  piano nel cortile interno della Questura di Milano. Molti i 
                  dubbi sulla tesi del suicidio di Pinelli qualche giorno dopo, 
                  alla notizia che la strage alla banca dell'Agricoltura di piazza 
                  Fontana del 12 dicembre - diciassette morti, ottantotto feriti 
                  - fosse stata compiuta da suoi compagni anarchici. 
                  Quel dicembre 1969 segnerà una cesura tra un prima e 
                  un dopo, una ferita pubblica e un dolore privato, quello che 
                  non fa notizia. 
                  Per Licia Pinelli il “dopo” è il tempo della 
                  cura, della ricomposizione nella “normale quotidianità”, 
                  del riprendere in mano la vita, sua e delle sue figlie bambine. 
                  È anche il tempo in cui la fragilità inflitta 
                  dalla sofferenza diventa forza resiliente. Forse per questo, 
                  solo ora, il “dopo” può essere narrato lasciando 
                  dipanare il lento e aggrovigliato filo della memoria, dove i 
                  lembi del ricordo sono tribolati frammenti sparsi. 
                  Intanto il “mondo fuori” - ben documentato nella 
                  postfazione di Marino Livolsi - è uno spazio esterno 
                  minaccioso, con i suoi anni bui, le manifestazioni studentesche 
                  represse dalla polizia: a un anno di distanza da piazza Fontana, 
                  le morti dello studente Saverio Saltarelli e poi di Roberto 
                  Franceschi lasceranno tutti sgomenti. Licia condividerà 
                  la sofferenza combattiva di quelle madri che hanno perso i loro 
                  figli, e aumenterà il senso di protezione verso le proprie 
                  figlie bambine ancora da crescere. 
                  Ma è anche un “mondo fuori” accogliente che 
                  consente a Licia di trovare un lavoro esterno casa, una casa 
                  frequentata da studenti universitari, batteva a macchina le 
                  loro tesi. Un incarico all'Istituto di Biometria e Statistica 
                  Medica di Milano diretta dal professor Giulio Alfredo Maccacaro 
                  la inserirà in un ambiente accogliente. Come primo lavoro, 
                  la trascrizione a macchina di un “libro bianco”, 
                  La strage di Stato, un'inchiesta militante collettiva 
                  frutto di indagini e testimonianze di giovani studenti universitari 
                  e coraggiosi amici, spinti dal desiderio di accertare i fatti 
                  e risalire alla responsabilità politica. In seguito, 
                  e fino alla pensione, sarà segretaria all'Istituto di 
                  Psicologia della Facoltà di Medicina diretta dal professor 
                  Marcello Cesa-Bianchi. 
                  Non mancheranno bei gesti di generosità, come quello 
                  ricevuto dalla collega Pia che le cederà il suo posto 
                  di ruolo, perché scrive Licia: “lei e suo marito 
                  lavoravano entrambi e io avevo più bisogno di loro”. 
                  L'occasione di incontrare ancora gli studenti rinnoverà 
                  la sua disponibilità all'ascolto. Per loro, una presenza 
                  rassicurante, cui affidarsi per ricevere consigli. Licia convincerà 
                  uno studente allontanatosi da casa a farvi ritorno. Contento, 
                  per aver ricevuto dalla madre un'accoglienza inaspettata, le 
                  sarà molto riconoscente. 
                  In poco tempo, si tesse intorno a Licia e alla sua famiglia 
                  una rete solidale. La dedizione affettuosa di genitori, di studenti, 
                  di amici con i quali basta uno sguardo per capirsi. Il conforto 
                  della vicinanza di padre Davide Turoldo, Corrado Stajano con 
                  la moglie Giovanna Borgese, della Comunità di don Andrea 
                  Gallo, Camillo Dal Praz. Insieme a nuove conoscenze, Giovanni 
                  Testori, Cesare Musatti, la visita gradita di Enzo Jannacci 
                  e Beppe Viola. Anche la solidarietà di sconosciuti, con 
                  le loro lettere dal mondo dimostreranno sostegno e voglia di 
                  giustizia. Cara la presenza di persone amiche, compagni di Pino 
                  appassionati, coinvolgenti e dignitosi per quella loro semplicità 
                  di vivere la vita. 
                  Condividerà altresì con Marino Livolsi, Umberto 
                  Mazzocchi e tutti gli altri compagni una forte commozione quando 
                  trasporteranno le ceneri di Pino dal cimitero di Musocco al 
                  cimitero di Carrara. 
                  Licia condurrà una lunga lotta titanica per conoscere 
                  la verità e avere giustizia, insieme agli avvocati Renato 
                  Palmieri, Marcello Gentili, Domenico Contestabile e, in seguito, 
                  agli affezionati Carlo Smuraglia e l'avvocata Enrica Domeneghetti. 
                  Anche il linguaggio dell'arte sensibilizzerà l'opinione 
                  pubblica. Come I funerali dell'anarchico Pinelli, dipinto 
                  del pittore Enrico Bay esposto a Milano, a Palazzo Reale nel 
                  2012. Oppure Morte accidentale di un anarchico, testo 
                  di Dario Fo scritto per il teatro. 
                  Sarà Piero Scaramucci, aggirando la riservatezza di Licia, 
                  a raccogliere una lunga e travagliata intervista riportata nel 
                  libro Una storia quasi soltanto mia pubblicato prima 
                  nel 1982 e ripubblicato nel 2009 da Feltrinelli, con l'integrazione 
                  di testimonianze di Carlo Smuraglia, Corrado Stajano, Giorgio 
                  Bocca, Dario Fo, Franca Rame, Giuseppe Gozzini, Marino Livolsi, 
                  Bruno Manghi, Luigi (Gigi) Ruggiu, Goffredo Fofi, Lella Costa. 
                  Insieme al libro di Camilla Cederna Pinelli. Una finestra 
                  sulla strage, contribuirà a dare fondamento ai dubbi 
                  su quella morte ingiusta. 
                  Interviste per testimoniare, per non dimenticare e tenere alta 
                  l'attenzione. Incontri pubblici soprattutto dibattiti con gli 
                  studenti fiduciosi di sapere. E ogni volta riaperta, la ferita 
                  stillerà tenace fermezza di reagire, rialzarsi, resistere. 
                  Ne uscirà fortificata, Licia, per la cura dedicata al 
                  legame sincero e affettuoso fino ad oggi con le colleghe di 
                  lavoro di un tempo, e quello amicale con donne sensibili e determinate 
                  come Camilla Cederna e Franca Rame. L'amicizia con una donna 
                  incontrata sul tram, Emilietta, vecchia socialista e staffetta 
                  partigiana, sempre vicina e solidale a Licia e alla famiglia, 
                  la condurrà ad intraprendere viaggi alla scoperta di 
                  un nuovo “mondo fuori”, ancora più lontano. 
                  Insieme ad altre persone guida, invece, si lascerà accompagnare 
                  lungo un cammino personale di ricerca interiore, per un germe 
                  di risposta alla domanda sul senso profondo della vita, alimento 
                  di possibile serenità. 
                  Poi il gesto gratuito e disinteressato del volontariato, a disposizione 
                  di quanti hanno conosciuto il dolore. E il Coro “Città 
                  di Milano” diretto dal maestro Mino Bordignon, con quei 
                  canti “a cappella” così intensi e vibranti 
                  e capaci di liberare la mente facendo fuggir via, almeno per 
                  qualche ora timori e inquietudini. 
                  Un personale rimedio ai momenti di malinconia, l'abitudine di 
                  catalogare, ordinare libri, fotografie, ritagli di giornale, 
                  rivedere istantanee e cartoline riportando indietro la memoria 
                  senza lasciarsi troppo coinvolgere. 
                  Forse proprio dopo l'udienza del 9 maggio 2009, giorno della 
                  memoria per le vittime del terrorismo e delle stragi, Licia 
                  ammetterà: “Mi sono in parte riconciliata con il 
                  mondo”. In quell'occasione, il presidente Napolitano riconobbe 
                  a Giuseppe Pinelli “rispetto e omaggio” per essere 
                  stato “vittima due volte: prima, di pesantissimi e infondati 
                  sospetti, e poi di un'improvvisa, assurda fine”. 
                  Dopo quarantasei anni travagliati: “Ho ancora la speranza 
                  che il mondo cambi”. E ora che spetta alle figlie Claudia 
                  e Silvia partecipare agli eventi pubblici per testimoniare, 
                  conclude, difendendosi da quanti le imputerebbero una chiusura 
                  in se stessa, nella quale non si riconosce: “Preferisco 
                  vedermi come il padre di Bambi che, alla fine di quello splendido 
                  film di Walt Disney, guarda dall'alto di un colle con la serenità 
                  datagli dalla saggezza dell'età, suo figlio e i suoi 
                  compagni avviarsi verso il loro futuro”. 
                 Claudia Piccinelli 
                 
                   
                
                   
                    Cos'è l'Enciclopedia delle donne 
                        
                      L'Enciclopedia 
                        delle donne (che ha appena pubblicato il libro Dopo 
                        di Licia Pinelli, recensito in queste pagine) è 
                        un sito (www.enciclopediadelledonne.it) che raccoglie 
                        le storie e le biografie di donne di tutti i tempi e di 
                        tutti i paesi; è nata l'8 marzo 2010. 
                        Le fondatrici sono Margherita Marcheselli e Rossana Di 
                        Fazio. Insieme a Dafne Calgaro, che ha creato il primo 
                        sito e il primo sistema per la pubblicazione e la gestione. 
                        Il progetto nasce dalla volontà di dare voce e 
                        visibilità a donne reali del passato o del presente 
                        le cui storie possano costituire dei modelli vari, multiformi, 
                        ricchi di complessità. Come diciamo nella presentazione 
                        dell'Enciclopedia, alla voce “L'impresa” (http://www.enciclopediadelledonne.it/limpresa/): 
                        “Ogni nome e cognome fa una storia, e ogni storia 
                        singola va in un paesaggio pieno di storie, e tutto diventa 
                        la Storia. Ma senza la storia delle donne - di tutte le 
                        donne - non si fa una bella Storia: si fanno degli schemi, 
                        delle approssimazioni, dei riassunti che non somigliano 
                        più a niente. E che fan danno.” 
                        Quindi questo è il compito che ci siamo date, nel 
                        solco di una tradizione antica; tante donne nel passato 
                        hanno fatto questo: hanno raccolto e organizzato le storie 
                        di altre donne per dimostrare che la libertà di 
                        pensiero e di azione è possibile oltre che auspicabile 
                        e che altre donne prima di noi, tra le mille difficoltà 
                        che la società, le convenzioni e le situazioni 
                        imponevano loro, hanno trovato i modi per esprimere le 
                        proprie energie, per realizzarsi e per essere felici. 
                        Un compito che esprime anche gratitudine, che ricorda 
                        e rende merito a coloro che con il loro coraggio e il 
                        loro esempio hanno ottenuto risultati di cui tutte noi 
                        ora godiamo: il diritto di votare, il diritto di vestirci 
                        con abiti comodi, il diritto di non sposarsi, il diritto 
                        di mantenersi economicamente, il diritto di muoverci e 
                        fare lo sport che ci piace, il diritto di decidere se 
                        e quando avere un figlio e tutte le mille altre piccole 
                        e grandi libertà che abbiamo conquistato. 
                        Questo lavoro si può fare solo sul web. È 
                        un lavoro che non avrà mai fine ed è un 
                        lavoro collaborativo. Nessun altra forma di comunicazione 
                        avrebbe potuto supportare questa impresa. Il nostro è 
                        un lavoro collettivo e collaborativo un po' particolare. 
                        Funziona così: chiunque abbia studiato o approfondito 
                        o conosca direttamente la storia di una donna che ritiene 
                        interessante per l'Enciclopedia, scrive una mail alla 
                        redazione (redazione@enciclopediadelledonne.it) proponendo 
                        la voce, con una motivazione e una breve presentazione 
                        di sé e del proprio percorso. Se la redazione accetta 
                        la candidatura, “prenota” la voce all'autrice 
                        o all'autore (anche gli uomini possono essere autori, 
                        e ce ne sono: pochi ma veramente molto buoni). L'autrice 
                        ha circa sei mesi per scrivere la voce. 
                        Il testo viene inviato alla redazione che lo valuta, eventualmente 
                        propone modifiche e aggiustamenti e, infine, dopo uno 
                        scambio tra autrice e redazione, la voce viene approvata 
                        e pubblicata online. Alla voce “Lavori in corso” 
                        vengono pubblicate tutte le voci che sono state richieste 
                        o affidate. Poi ci sono le “voci in corso di assegnazione” 
                        che sono voci che ci piacerebbe che qualcuno scrivesse, 
                        ma che sono tuttora “in cerca di autrice”. 
                        Non ci sono delle categorie fisse, chiunque può 
                        diventare una voce: ci sono scienziate, ballerine, scrittrici, 
                        partigiane, balie, gelsominaie, attrici, cantanti, operaie, 
                        contadine, maestre, pittrici, sportive, ricamatrici, cortigiane, 
                        musiciste, compositrici... la storia di ciascuna donna 
                        dà un suo contributo. Nessuna gerarchia. Nessuna 
                        priorità. 
                        Abbiamo cominciato con un nucleo di 100 voci, nel marzo 
                        del 2010, ora siamo quasi a 1000 e, quel che più 
                        conta, abbiamo cominciato con un gruppo ristretto di autrici 
                        “madrine” che hanno creduto nel progetto fin 
                        dall'inizio e ora abbiamo, oltre a loro, che continuano 
                        a seguirci con impegno e affetto, più di 300 autrici 
                        e autori (vedi la lista delle autrici e degli autori sul 
                        sito). 
                        Abbiamo una mailing list di oltre 1200 indirizzi, 30mila 
                        visitatori unici e 120mila pagine viste mensili. 
                        L'Enciclopedia delle donne è di chi la scrive. 
                        I testi sono pubblicati sotto una licenza Creative Commons: 
                        possono essere ridistribuiti liberamente soltanto se vengono 
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                        Dal 2012 l'Enciclopedia ha dato vita ad un catalogo di 
                        ebook: romanzi, ricerche documenti (consultabile qui: 
                        http://www.enciclopediadelledonne.it/e-book/). Dopo, 
                        di Licia Pinelli, è il nostro primo libro di carta. 
                        Per ogni informazione scrivere a: redazione@enciclopediadelledonne.it.  
                       
                        Margherita Marcheselli 
                        Rossana Di Fazio 
                       | 
                   
                 
                 
                 
                     Anarchici italiani in Nord America/ 
                  Una resistenza quotidiana 
                 Il 
                  merito principale di Ribelli in paradiso – Sacco, Vanzetti 
                  e il movimento anarchico negli Stati Uniti, di Paul Avrich 
                  (a cura di Antonio Senta, ed. Nova Delphi, Roma, 2015, pp. 382, 
                  € 15,00) è l'aver reso fruibile in lingua italiana 
                  le peculiarità, contenute in documenti conservati in 
                  archivi statunitensi, sulle quali Avrich ha potuto compiere 
                  le proprie ricerche. Di conseguenza dobbiamo ringraziare Toni 
                  Senta per la corretta traduzione e per la prefazione all'edizione 
                  italiana nella quale possiamo leggere: “Con questa traduzione, 
                  oltre a rendere un doveroso omaggio alla figura dello storico 
                  newyorkese, colmiamo finalmente una lacuna nella storiografia 
                  di lingua italiana, offrendo al pubblico un tassello, a nostro 
                  avviso fondamentale, per la ricostruzione della storia dell'anarchismo 
                  di lingua italiana.” 
                  Avrich ha qui focalizzato il proprio interesse su una parte 
                  del movimento anarchico, quella “antiorganizzatrice” 
                  che, nel periodo a cavallo della prima guerra mondiale, vide 
                  protagonisti molti militanti di origine italiana migrati negli 
                  Stati Uniti d'America. Quest'ultima precisazione va anteposta 
                  a quella prettamente politica innanzitutto perché questa 
                  analisi storiografica, prima di soffermarsi su scelte e azioni, 
                  sia singole che collettive, è molto rigorosa nel dettagliarne 
                  il contesto: nel tentativo di non dare giudizi, bisogna cercare 
                  di comprendere motivazioni razionali e idealità. 
                  Leggendo aneddoti e ricostruzioni storiche sulle origini italiane, 
                  scopriamo che si partì per bisogno (l'estrema povertà 
                  fu basilare per chi cercò nel Nuovo Mondo una possibilità 
                  di riscatto) ma in alcuni casi, e proprio fra questi troviamo 
                  sia Sacco che Vanzetti, fu decisiva la spinta giovanile verso 
                  l'avventura e il desiderio di indipendenza. Gran parte dei migranti 
                  anarchici conobbero l'ideale di libertà proprio in quella 
                  terra d'oltreoceano che si rivelò deludente sotto molti 
                  aspetti: le scarse opportunità lavorative e d'alloggio 
                  li costringeva a spostamenti continui da una città all'altra 
                  mentre i pregiudizi verso gli stranieri producevano pesanti 
                  discriminazioni, controlli assillanti e totale mancanza di diritti. 
                  La parola freedom, nella dura quotidianità, veniva 
                  trasformata nel suo concetto opposto: diventò indispensabile 
                  farla propria, traducendola in esistenze dignitose e nella volontà 
                  di abbattere ogni privilegio. 
                  Fra le righe dello scorrevole testo di Avrich si scopre quanto 
                  il riferimento alla “libertà” concretizzò 
                  una solidarietà decisiva non soltanto al fine di una 
                  mera sopravvivenza in una terra ostile: instaurare relazioni 
                  soddisfacenti e significative è un'esigenza primaria 
                  ma, affinché possa essere condivisa come un valore imprescindibile, 
                  bisogna che nasca da stimoli maturati culturalmente. 
                  Scrive Avrich: “Erano tutti giovani orgogliosi della propria 
                  ostinazione e audacia, devoti all'azione diretta senza compromessi, 
                  tanto per temperamento quanto per convinzione. Inoltre avevano 
                  tutti origini contadine, nati e cresciuti in piccoli paesi e 
                  villaggi. Dei contadini conservavano la tenacia, una profonda 
                  mancanza di fiducia nel governo (la legge lavora contro il popolo, 
                  dice il proverbio), la cieca lealtà alla comunità 
                  e al gruppo, il rifiuto del potere e del privilegio, il desiderio 
                  di vendetta contro gli oppressori.” 
                  Ecco che la comunità degli anarchici sperimentò 
                  forme di condivisione quali “i picnic”, le colonie, 
                  le rappresentazioni teatrali dalle quali sorse spontanea la 
                  solidarietà umana e politica verso chi fosse vittima 
                  di soprusi da parte del potere; ecco che il tema della suddivisione 
                  fra “galleanisti” e “antigalleanisti” 
                  fu sicuramente presente nel dibattito militante, ma nella realtà 
                  produsse meno conflitti relazionali di quanto oggi tenderemmo 
                  a valutare. 
                  Certamente la “propaganda del fatto” segnò 
                  l'anarchismo e il giudizio superficiale che la storia ha cementificato 
                  su di esso; i pareri contrastanti su Luigi Galleani, su altri 
                  (e altre!) militanti, sulla rivista Cronaca sovversiva 
                  e numerose altre pubblicazioni, sull'opportunità di alcune 
                  scelte e sulla speculazione che la polizia statunitense riuscì 
                  a edificare, su infiltrazioni e ambigue frequentazioni, sulla 
                  differente interpretazione di concetti come “coerenza” 
                  o “verità”... argomenti sui quali sarebbe 
                  scorretto calare il sipario. 
                  Il libro di Avrich toglie a Sacco e a Vanzetti quell'alone mitico 
                  che li aveva dipinti “innocenti sognatori”, ma comunque 
                  la “verità” giudiziaria ha, paradossalmente, 
                  evidenziato la gigantesca montatura che li portò ad essere 
                  assassinati per mano dello stato. Se sono diventati simbolo 
                  dell'ingiustizia istituzionale lo si deve alla solidarietà 
                  di un movimento antagonista che seppe superare le dicotomie 
                  ideologiche; si capì che lo stato dovette pianificare 
                  il caso eclatante per giustificare una repressione di ben più 
                  alta portata. 
                  I primi provvedimenti legislativi approvati allo scopo di colpire 
                  gli stranieri riluttanti all'omologazione, prevista per chi 
                  venisse accolto nel Nuovo Mondo, suscitarono polemiche e applicazioni 
                  non del tutto condivise dalla stratificazione istituzionale 
                  americana. Già dal 1918 si tentò di espellere 
                  gli ospiti indesiderati, ma evidentemente servirono leggi più 
                  definitive affinché si eliminassero polemiche su “presunti 
                  abusi” o “violazioni dei diritti costituzionali”. 
                  Vinse la strategia di quanti si fecero scudo della “sicurezza 
                  nazionale” per imporre sospetti, arresti, infiltrazioni, 
                  deportazioni: un clima di ostilità che peggiorò 
                  ulteriormente la considerazione per ogni persona straniera nella 
                  “terra della libertà” per antonomasia. Evidentemente 
                  una libertà che non avrebbe dovuto coincidere con le 
                  istanze sociali abbracciate da operai in grado di scioperare 
                  e attuare il mutuo appoggio... e questa fu la “terribile 
                  minaccia” dalla quale i governi decisero di “liberarsi”! 
                  La repressione nelle piazze fu giudicata insufficiente per eliminare 
                  le istanze di giustizia sociale. Vanzetti e Sacco, accusati 
                  di rapina e omicidio, conobbero il carcere per sette anni, prima 
                  di morire sulla sedia elettrica nel 1927. Si tentò così 
                  di uccidere anche le loro idee. 
                  Il testo di Avrich ritrae le differenti origini e motivazioni 
                  a lasciare la terra natia; l'indole e il diverso approccio nel 
                  concepire la propria esistenza; l'avvicinamento agli ideali 
                  libertari; la militanza che li fece conoscere e li portò 
                  a condividere alcune scelte, non ultima quella di andare in 
                  Messico per evitare l'arruolamento quando gli USA decisero di 
                  entrare in guerra. A giudizio di alcuni storici la repressione, 
                  scatenatasi contro chi si oppose alla guerra e alla coscrizione 
                  obbligatoria, segnò un salto di qualità sul concetto 
                  stesso di militanza. 
                  Il merito di questo libro è di aver analizzato la corposa 
                  produzione editoriale dell'epoca insieme a episodi e protagonisti, 
                  ricordi e dettagli raccontati da singole soggettività, 
                  memorie e testimonianze: l'insieme di una resistenza quotidiana 
                  che si sviluppò nonostante la carenza di supporti logistici 
                  e strumentali. 
                 Chiara Gazzola 
                     Catalogna/ 
                  L'altra memoria di un'Italia criminale 
                 In 
                  un'epoca in cui la storia tende ad essere presa in considerazione 
                  solo quando si tratta di anniversari o commemorazioni, è 
                  bene soffermarsi a pensare quale storia ci fanno ricordare. 
                  Sul tema della costruzione di un immaginario collettivo è 
                  recentemente uscito un libro di Filippo Focardi Il cattivo 
                  tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della 
                  seconda guerra mondiale (Edizioni Laterza, Roma, 2014, pp. 
                  308, € 24,00). 
                  Il discorso di Focardi si centra sugli stereotipi che un popolo 
                  crea di sè stesso ed in particolare su quelli creati 
                  dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fa riferimento alle tesi dello 
                  storico Tony Judt, che parla di memoria comune della seconda 
                  guerra mondiale nei paesi che hanno subito l'aggressione tedesca, 
                  basata su: la creazione del mito della Resistenza; l'attribuzione 
                  solo alla Germania dei crimini di guerra. 
                  Questo non per sminuire la Resistenza, ma per evidenziare come 
                  in ogni paese ci sono stati gruppi collaboratori che si ricordano 
                  molto meno. In Italia in particolare parlare di collaborazione 
                  con il regime nazista è quasi un eufemismo, dato che 
                  il modello dello stato fascista nasce proprio qui, con la relativa 
                  aggressività/bellicismo intrinseca/o. Quella che portó 
                  avanti l'Italia fu una guerra con obiettivi propri che aspirava 
                  a un nuovo ordine europeo e non semplicemente una collaborazione; 
                  gli esempi chiari possono essere i 70.000 uomini inviati in 
                  Spagna durante la guerra civile (chiamati volontari!), e l'occupazione 
                  di Grecia, Slovenia e Croazia, tutti luoghi dove sono stati 
                  perpetrati crimini di guerra. 
                  Oltre al cattivo tedesco e al mito della Resistenza troviamo 
                  un modello autoassolutorio dell'italiano che non voleva la guerra 
                  contrapponendo lo straniero invasore e sadico all'italiano fondamentalmente 
                  contro la guerra, difensore degli oppressi e intriso di umana 
                  pietas (contro la furor teutonica). 
                  Focardi sostiene che gli stereotipi vengono istituzionalizzati 
                  tra il '43 e il '47 ovvero tra la firma dell'armistizio dell'8 
                  settembre 1943 e la firma del trattato di pace del 10 febbraio 
                  1947 con cui l'Italia perde l'Istria e paga danni a Grecia e 
                  ad altri paesi. 
                  Tanti soggetti convergenti hanno lavorato a quest'immagine, 
                  ma soprattutto la propaganda alleata. 
                  Ad esempio cita il peso della famosissima Radio Londra, utilizzata 
                  per far crollare il fronte interno italiano (dove si era individuato 
                  l'anello debole della catena) togliendo il consenso alla guerra. 
                  La propaganda insisteva sul fatto che gli italiani non volevano 
                  una guerra con un falso alleato che aveva altri obiettivi, dipingendo 
                  i tedeschi come barbari che prima o poi avrebbero girato la 
                  faccia. 
                  Monarchia e forze antifasciste fino ad un certo punto remano 
                  nella stessa direzione affinchè gli italiani prendano 
                  le armi contro i tedeschi; il governo Badoglio, (generale che 
                  aveva guidato l'aggressione in Etiopia con l'esercito di Mussolini) 
                  dopo un veloce cambio di bandiera riutilizzerá gli slogans 
                  di Radio Londra per non ricevere il castigo delle potenze vincitrici, 
                  annunciato come minimo se si combattono i tedeschi. Da qui l'impulso 
                  alla glorificazione della Resistenza. 
                  In questo contesto di evidente costruzione di un immaginario 
                  collettivo si situa la rivendicazione dell'associazione Altraitalia 
                  a Barcellona, affinchè lo stato italiano ammetta i bombardamenti 
                  portati a termine a Barcellona nel 1937 e perchè vengano 
                  riconosciuti come crimini di guerra. 
                  Della massima strage di popolazione civile, tramite l'aeronautica 
                  militare, avvenuta in Europa nel periodo tra le due guerre mondiali 
                  aveva già parlato su queste colonne Claudio Venza (“Barcellona 
                  martellata” in “A” 381, giugno 2013); poi 
                  la denuncia è stata presentata all'Audiencia Nacional 
                  (tribunale politico eredità del franchismo) da Altraitalia 
                  con la firma di due persone che hanno vissuto in prima persona 
                  i bombardamenti. Nonostante la lentezza del processo burocratico 
                  e i rimpalli da un organismo all'altro che negano l'argomento 
                  sia di loro competenza, si tratta del primo caso in cui si portano 
                  in tribunale dei crimini della guerra civile spagnola, cosa 
                  che ha permesso una grande ripercussione mediatica. La proposta 
                  di Altramemoria è che per le vittime non è 
                  mai tardi almeno riconoscere i crimini commessi e soprattutto 
                  per la creazione di una memoria condivisa. 
                 Valeria Giacomoni 
                     Contro 
                  la servitù volontaria 
                 Né 
                  dio né stato, né servi e padroni... così 
                  dicevamo un tempo, ma oggi che l'unico dio è il consumo, 
                  lo stato è ormai un fantoccio e i padroni, il 
                  potere, sono diventati un'entità pervasiva, ma indistinta, 
                  lontana e inafferrabile rimangono, paradossalmente, solo i servi? 
                  Quel né servi del famoso detto è in effetti 
                  un invito meno indagato e meno praticato, forse perché 
                  spesso inteso come naturale conseguenza del né padroni. 
                  Niente padroni niente servi. Sembra un equazione, quasi una 
                  tautologia, ma non è affatto così: abbattere i 
                  padroni non è lo stesso che divenire uomini e donne liberi. 
                  Abbattere il padrone ha significato troppo spesso cambiarlo 
                  con un altro padrone, sostituire un potere vecchio con un nuovo 
                  potere. Tante volte così è stato nella storia, 
                  da quella più antica ai giorni nostri, che viene un dubbio: 
                  ma gli uomini vogliono o non vogliono essere liberi? Vogliono 
                  o no un padrone? 
                  Questo il dilemma: se gli uomini vogliono la libertà, 
                  perché c'è il potere? E se gli uomini vogliono 
                  il potere, perché anelano alla liberta? È una 
                  domanda cruciale, perché solo la libertà individuale 
                  sarebbe inattaccabile da quel potere oscuro e multiforme, svuotandolo 
                  e annullandolo. 
                  Gustavo Zagrebelsky, in un recente saggio, ha definito quel 
                  dilemma l'enigma del potere. 
                  Liberi servi. Il Grande Inquisitore e l'enigma del potere 
                  (Einaudi, Torino, 2015, pp. 298, € 30,00) è un testo 
                  intrigante, complesso ed antinomico, scritto da uno spirito 
                  aperto e profondo, che non teme di addentrarsi nei sotterranei 
                  della mente umana e delle sue contraddizioni. 
                  Il titolo si riferisce a Il Grande Inquisitore, un capitolo 
                  centrale de I Fratelli Karamazov, l'ultimo romanzo di 
                  Fëdor Dostoievskij, pubblicato nel 1879, capitolo noto 
                  anche come La leggenda del Grande Inquisitore. La leggenda 
                  è un testo magnifico, poche pagine di profondità 
                  abissale, per molti il vertice della produzione letteraria del 
                  romanziere e pensatore russo. 
                  La leggenda è ambientata nella Siviglia cinquecentesca, 
                  nella Spagna dell'Inquisizione, all'indomani di un immenso rogo 
                  ove più di cento eretici sono stati bruciati, di fronte 
                  al re e alla sua corte, tra la folla esultante. Improvvisamente, 
                  nella piazza antistante la Cattedrale, brulicante di uomini 
                  e donne, appare il Cristo, dopo quindici secoli tornato sulla 
                  terra, che è subito riconosciuto dal popolo che lo circonda 
                  e si prostra in festosa adorazione. La stessa folla ammutolisce 
                  però e tace quando, poco dopo, il Cristo viene fatto 
                  arrestare per ordine del Cardinale Grande Inquisitore un vecchio 
                  di quasi novant'anni, alto e diritto, dal viso scarno, che da 
                  lontano ha assistito alla scena. La folla, come un solo uomo, 
                  si inchina davanti al Cardinale, che la benedice con un gesto 
                  e passa oltre. Il prigioniero viene condotto dalle guardie nei 
                  sotterranei della Cattedrale e rinchiuso nella cella più 
                  profonda e buia. 
                  Quella stessa notte il Grande Inquisitore si reca, da solo, 
                  con una lanterna in mano, nell'oscura prigione, per comunicare 
                  al prigioniero la condanna al rogo, decisa per il mattino seguente, 
                  ma non solo questo. Alla luce fioca della lanterna, dopo un 
                  lungo silenzio, l'Inquisitore comincia a parlare, mentre il 
                  Cristo lo fissa attento. L'inquisitore parla a lungo, nel silenzio 
                  della cripta. Nessuno deve assistere a quell'incontro, è 
                  un incontro tra due esseri che hanno accesso alle cose ultime, 
                  segrete e forse oscene, per questo avviene di notte tra le mura 
                  di una cella nei sotterranei della cattedrale di Siviglia. È 
                  solo qui, in un luogo celato agli occhi del mondo, che l'Inquisitore 
                  può non mentire e tratta il Cristo non come l'eretico 
                  da mandare al rogo, ma come l'unico suo pari, il solo all'altezza 
                  di un confronto, quasi il suo confessore. 
                  L'Inquisitore accusa il Cristo di essere per gli uomini fonte 
                  di dolore e sofferenza, causa i suoi insegnamenti sulle libertà 
                  interiori e afferma che gli uomini, contrariamente a quanto 
                  crede il Cristo, non anelano alla libertà, ma alla sottomissione, 
                  che toglie loro l'angoscia di essere padroni del loro destino, 
                  di essere consapevoli di ciò che li circonda, di dover 
                  compiere delle scelte. La libertà, nelle parole del Cardinale, 
                  è la massima causa di inquietudine per l'uomo, l'obbedienza 
                  e la sottomissione, liberano da questa inquietudine, questa 
                  la ragione del loro volontario e benefico trasferimento ad una 
                  autorità superiore, sovrana. 
                  L'Inquisitore vanta il merito di aver assunto su di sé 
                  l'onere di quella libertà che gli uomini temono: Noi 
                  li convinceremo che soltanto allora diverranno liberi: quando 
                  rinunceranno alla loro libertà per noi e a noi si sottometteranno. 
                  E ancora: Sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono 
                  più che mai convinti di essere perfettamente liberi, 
                  e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, 
                  e l'hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati 
                  noi ad ottenerlo. Ove il “noi” si riferisce 
                  alla Chiesa Cattolica e alle sue alte gerarchie. 
                  L'Inquisitore è anche il vero difensore dei deboli, giacché: 
                  ...a noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, 
                  ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno 
                  in conto di dei per avere acconsentito, mettendoci alla loro 
                  testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li 
                  aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine 
                  di esser liberi! 
                  E ancora l'accusa al Cristo: Invece di impadronirti della 
                  libertà degli uomini. Tu l'hai ancora accresciuta! 
                  L'Inquisitore continua così a lungo, e aggiunge infine: 
                  domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere 
                  sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo 
                  che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un 
                  mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Sì, forse 
                  Tu lo sai, dice ancora, profondamente pensoso, senza staccare 
                  lo sguardo dal suo Prigioniero. 
                  Per tutta risposta, il Cristo non parla, lo sguardo è 
                  penetrante, ma rimane muto, sembra non voler obiettare nulla. 
                  Poi si avvicina lentamente, continuando a fissare quegli occhi 
                  incavati e sfiora con un bacio le labbra secche e grinzose del 
                  vecchio. L'inquisitore rimane immobile, stupito. Dopo un lungo 
                  silenzio, apre una porta della cella che porta all'esterno e 
                  dice al Cristo: Vattene e non venir più... non venire 
                  mai più... mai più! Il Prigioniero si allontana. 
                  Così termina la leggenda. 
                  Nella metafora il Grande Inquisitore rappresenta il potere, 
                  il male assoluto, nelle vesti del potere ecclesiastico che si 
                  è impadronito nei secoli dell'insegnamento del Cristo: 
                  la libertà, il bene massimo. 
                  Alle esternazioni dell'inquisitore, il prigioniero oppone silenzio. 
                  Il silenzio come risposta: cosa può significare? Il dilemma 
                  che si pone tra il Cristo e l'Inquisitore non ha una soluzione, 
                  non ha una risposta. Nella leggenda, come spesso accade, la 
                  forza sta nelle domande, non nelle risposte. Tu mi guardi 
                  con dolcezza e non mi degni neppure del tuo risentimento 
                  dice il Cardinale, ma alla fine lascia andare il suo prigioniero, 
                  rinuncia a mandarlo al rogo, gli chiede solo di non venire 
                  mai più. Forse il Grande Inquisitore ha capito che 
                  il suo potere ha bisogno della libertà, perché 
                  è solo sulla libertà che il suo potere si esercita 
                  e senza quella non può esservi questo. 
                  Ma allora, verrebbe da dire, se la libertà è il 
                  presupposto del potere, è vero anche il contrario? La 
                  libertà ha bisogno del potere per inverarsi? E senza 
                  potere non vi può allora essere libertà? 
                  Il lieve bacio del Cristo, l'unica sua risposta, significa forse 
                  che solo attraverso l'amore la libertà può fare 
                  a meno del potere? 
                  Nel libro, la leggenda è il filo conduttore per 
                  profonde riflessioni sull'enigma del conflitto fra potere 
                  e libertà, sulla natura ultima di questo e di quella 
                  e su tutto ciò che vi si collega e ne discende. Un argomento 
                  le cui implicazioni sono, a parere di chi scrive, il cuore stesso 
                  dell'anarchismo. 
                  Dopo il lungo percorso nei meandri dell'enigma, l'autore 
                  tocca da ultimo il tempo nostro e quel sistema di dominio indistinto 
                  e totalizzante, tale che: l'Inquisitore non avrebbe potuto 
                  immaginare di meglio, nel suo proposito di assoggettamento delle 
                  menti e delle coscienze. Le mille forme di quel dominio 
                  sono sintetizzate in una parola: “frastuono”, un 
                  rumore di fondo, un qualcosa che sempre ci avvolge e stordisce, 
                  tanto da aver generato in molti una sorta di “horror vacui” 
                  sonoro e visivo, una insofferenza per il vuoto e per il silenzio, 
                  che deve essere riempito continuamente con cose, aggeggi, oggetti, 
                  musica quale che sia, rumori, messaggi, parole far crescere 
                  parole con e su altre parole, non importa se volte non a 
                  chiarire ma a stravolgere i significati: le parole, devono 
                  rispettare il concetto, non lo devono corrompere, [...] 
                  così che la guerra diventi pace, la libertà 
                  schiavitù, l' ignoranza forza. 
                  Contro questo mondo di luci e rumori, evocando il Cristo muto 
                  nell'oscura cella della Cattedrale, viene proposta un altra 
                  parola: silenzio. Al contrario del rumore, il silenzio 
                  è pericoloso, può mettere ciascuno di fronte a 
                  se stesso, può generare introspezione ed essere creativo 
                  e libero, può essere eversivo. Nel silenzio possiamo 
                  ritrovare noi stessi e scegliere se essere servi o essere liberi. 
                  Diversamente dal frastuono, il silenzio non è corrompibile 
                  ne controllabile dal potere, non si vede e non si sente, non 
                  ha parole. 
                  In una breve nota finale, l'autore si dice ben conscio che in 
                  altre parti del mondo il dominio ha ben altri metodi: violenza, 
                  fame, ricatto, povertà... Ma si chiede anche se quella 
                  condizione e il suo perdurare non siano un indotto della vittoria 
                  dell'Inquisitore nel mondo che chiamiamo “sviluppato”. 
                  Su questa rivista, Andrea Papi propone di non combattere frontalmente 
                  il potere, cosa ormai vana, ma di “sottrarvisi” 
                  in collettività autonome, libere e libertarie. Papi ha 
                  ragione, ma prima ancora, ci vorrebbe forse un lungo, lunghissimo 
                  se necessario, minuto di silenzio... per essere certi della 
                  “nostra” libertà. 
                  Una collettività è tale solo se composta di individui 
                  liberi, e diviene un entità politica, un progetto, quando 
                  è in grado di trasmettere il gusto e il valore per scelte 
                  intimamente libere, libere dalle trappole del sistema ma anche 
                  da dogmi politici e rigori ideologici. 
                   
                  Post scriptum. Vorrei dedicare queste parole ad un uomo 
                  libero che ci ha lasciati da poco: Gianni Bertolo, che nel 1966 
                  disegnò materialmente la A cerchiata, ripresa 
                  allora dalla “Gioventù Libertaria” di Milano 
                  e che ispirerà poi il titolo e il simbolo di questa rivista 
                  di cui, dal marzo 1972 al febbraio 1973, fu anche direttore 
                  responsabile. 
                 Enrico Maltini 
                   
                 
                L'anarchico e il commissario/ 
                  Ma quel Pinelli è un contenitore vuoto 
                 Il 
                  carnevale dei truffati (di Piero Colaprico, regia di Renato 
                  Sarti) è lo spettacolo andato in scena al teatro della 
                  Coperativa di Milano lo scorso giugno e che verrà replicato 
                  a dicembre 2015, su un testo di Piero Colaprico, con la collaborazione 
                  di Renato Sarti, direttore del teatro della Coperativa, in veste 
                  anche di regista e attore. Quest'ultimo impersona Giuseppe Pinelli, 
                  l'anarchico, a cui un dio grottesco, amante dei paradossi, interpretato 
                  in video da Paolo Rossi, che con la sua interpretazione surreale 
                  strappa facili risate, impone di camminare per l'eternità 
                  a fianco del commissario Luigi Calabresi, Gigi, a cui dà 
                  sembianze un Bebo Storti che lo rende un romano simpatico e 
                  gigione. In un contesto in cui il “coro delle voci morte” 
                  accomuna tutte le vittime di quegli anni in un unico lamento 
                  (da Fausto e Iaio a Ramelli, dall'agente Annarumma alle vittime 
                  delle stragi, Tobagi e il giudice Galli), il brillante commissario 
                  e l'anarchico depresso che gli fa da spalla, vengono rimandati 
                  sulla terra da dio e vi rimarranno 8 giorni ripercorrendo, sfogliando 
                  e leggendo giornali, gli ultimi 45 anni della nostra storia 
                  e trovando in Berlusconi, chiamato Plasticoni, e nelle sue olgettine, 
                  motivo di sconforto tale da voler tornare nel limbo da cui provengono 
                  rimpiangendo i “bei tempi” in cui c'erano degli 
                  ideali. Rimane l'ulteriore perplessità che si scandalizzino 
                  per il linguaggio scurrile e per delle donne nude e non per 
                  le bombe o le stragi o le ecatombi di migranti. Diciamo che 
                  l'argomento non sembra dei più attuali pur comprendendo 
                  come sia stato importante per l'autore. 
                  È uno spettacolo che vede modifiche in corso d'opera, 
                  da una prima pesante, per contenuto e messa in scena, una replica 
                  successiva da me vista aveva portato a una recitazione più 
                  convinta e a tagli nel testo che lo rendevano meno greve. 
                  Resta il dubbio su che cosa esattamente dovrebbe essere questa 
                  rappresentazione che risulta sospesa tra il serio e il faceto 
                  senza che una delle due tendenze riesca a prevalere in maniera 
                  significativa dando spessore. Si è fatta una scelta, 
                  quella di mettere insieme come voci narranti due persone nella 
                  realtà contrapposte e che nello spettacolo mostrano una 
                  irritante complicità quasi goliardica che forse è 
                  quella che gli attori hanno nella vita, non quella dei protagonisti 
                  presi a pretesto, uno sicuramente vittima innocente, l'altro 
                  anche lui vittima, ma sulla cui innocenza c'è molto da 
                  discutere. 
                  Perplessità anche sul perché si è voluto 
                  prendere Pinelli per renderlo un contenitore vuoto di propri 
                  contenuti e riempito di pensieri e parole altrui, in un azzardato 
                  accostamento che abbiamo già visto e che sempre stride 
                  con una realtà che è ancora una ferita aperta 
                  nella vita di molte persone. 
                  L'idea di fondo, trattata in maniera più coraggiosa, 
                  poteva essere valida, rimane la sensazione di superficialità 
                  con cui vengono affrontati questi temi e che una simile operazione 
                  alle persone più giovani non insegni nulla, ma che porti, 
                  ancora una volta, a mettere insieme tutto e tutti in un calderone, 
                  una “memoria condivisa” molto discutibile che suscita 
                  ancora più dubbi venendo da persone che tanto hanno dato 
                  e continuano a dare per il rispetto della storia e della verità. 
                 Claudia Pinelli 
                     Jasmina: apolide, 
                  esule, clandestina 
                 “Credo 
                  che il mio successo dipenda dalle circostanze, mentre considero 
                  normali i miei fallimenti. È perchè sono nata 
                  donna”. 
                  Niente di più desolante di questa constatazione? Macchè. 
                  La consapevolezza di Jasmina diventa energia, l'energia a sua 
                  volta si trasforma in una vita ribelle e poco incline alle regole; 
                  la vita acquista la bellezza del gioco, che non dipende dal 
                  contesto, dall'età o dalle variabili sociali; la ribellione 
                  diviene a suo modo equilibrio, pensiero libero, ma anche comprensione 
                  e accoglienza, per se stessa e per gli altri. Saggezza, addirittura. 
                  L'autobiografia di Jasmina (Jasmina Tesanovic, La mia vita 
                  senza di me, Infinito edizioni, Formigine - Mo, 2014, pp. 
                  201, € 14,00) non è dato sapere quanto romanzata 
                  (l'autrice dice molte verità, ma quasi tutte sono inventate), 
                  parte da un assunto fondamentale: poiché prima o dopo, 
                  nella vita, chiunque di noi è costretto a fare qualcosa 
                  che proprio non gli va, tanto vale risolvere il problema alla 
                  radice. Perciò, quando opporsi alle situazioni sgradite 
                  diventa inutile o peggio dannoso, l'importante è imparare 
                  ad affrontarle “senza di sé”. 
                  Questa filosofia di vita – geniale e semplice al tempo 
                  stesso – nasce da un piatto di zuppa, che Jasmina ragazzina 
                  non vuole a nessun costo mangiare e che invece i genitori si 
                  ostinano a propinarle; così, per mettere fine a lacrime 
                  e rimproveri, decide semplicemente che la mangerà, ma 
                  lo farà “come se non fosse lei a mangiarla”. 
                  Lo stratagemma le tornerà più volte utile nella 
                  vita, in situazioni ben più complesse di una zuppa sgradita. 
                  Jasmina attraversa il comunismo, la guerra, svariati paesi, 
                  tre matrimoni, la malattia senza mai perdere ritmo e ironia, 
                  e nemmeno la capacità di uscire da sé e fare come 
                  se il problema, la disgrazia, la seccatura, la complicazione 
                  del momento fossero vissute da qualcun altro. 
                  La condizione della donna, il femminile raccontato attraverso 
                  le figure forti della famiglia – la mamma, la nonna – 
                  è certamente un motivo portante del libro; così 
                  come lo sono il comunismo prima e la guerra dopo, con le loro 
                  conseguenze difficili o tragiche che svelano però, tratteggiate 
                  dalla penna di chi scrive, piccoli e insoliti aspetti ironici, 
                  di un efficacissimo umorismo nero. 
                  Nel comunismo di Jasmina i ricchi ostentano la loro povertà, 
                  il maresciallo Tito diventa un quasi-parente, la tomba l'unica 
                  possibile proprietà privata (e poi, volete mettere? un 
                  appartamento è per una vita, ma una tomba è per 
                  sempre). 
                  La guerra – quella che non troppi anni fa ridisegnò 
                  i confini di intere regioni vicino a casa nostra, soffocando 
                  molte vite umane e l'idea che l'Europa fosse un continente maturo 
                  e libero da certe contraddizioni – diventa l'occasione 
                  per sperimentare condizioni estreme, senza perdere la fantasia. 
                  Jasmina non ha nulla da insegnare, forse per questo da lei si 
                  può imparare molto. 
                  Se vi capita di incontrarla di persona, guardatela negli occhi: 
                  sono chiari e profondi come la sua intelligenza, e l'irrequietezza 
                  che vi regna ricorda i paesaggi Balcani. 
                  Apolide esule e clandestina da una vita, al momento ha deciso 
                  di mettere radici. Per farlo ha scelto Torino, perché 
                  – dice lei – in questa città certe volte 
                  c'è una luce straordinaria. 
                  E meno male che c'è Jasmina a farcelo notare. 
                 Claudia Ceretto 
                     Ma Taranto è lontana 
                  (dalla Svizzera) 
                Taranto è lontana. Lontana dalla Svizzera, lontana anche 
                  dall’angolo più meridionale della Svizzera. E non 
                  solo geograficamente: lontana dalla realtà, lontana dalla 
                  coscienza, dalla solidarietà. Un malaffare altrui che 
                  ci scandalizza, che eventualmente ci coinvolge come giudici, 
                  non come coimputati. Perché mai? 
                  Eppure, almeno per una sera di fine maggio, almeno emotivamente, 
                  siamo stati molto vicini a Taranto. L’occasione è 
                  stata offerta dalla rassegna cinematografica “Di terra 
                  e di cielo. Cinema. Ambiente. Natura. Esplorazione” promossa 
                  dall’associazione “Filmstudio 90” di Varese 
                  ed estesa all’area transfrontaliera grazie alla collaborazione 
                  con l’Associazione cultura popolare di Balerna (Canton 
                  Ticino). 
                  Buongiorno Taranto è il film documentario presentato 
                  e poi discusso con il regista Paolo Pisanelli, presente alla 
                  serata; è una delle trenta proposte della manifestazione 
                  tenutasi tra l’8 maggio e il 18 giugno 2015. Un film delicato, 
                  dedicato ai protagonisti veri di questa tragica vicenda territoriale, 
                  economica, sociale, ambientale, sanitaria: uomini e donne, bambini, 
                  ragazzi, anziani che a Taranto vivono, che lì devono 
                  vivere, o che lì avrebbero voluto vivere. 
                
                   
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                    |   Taranto - Il pirata sulla strada dell'Ilva  | 
                   
                 
                 Delicato perché l’occhio della telecamera si 
                  è appostato con discrezione ad osservare e a farsi raccontare 
                  la quotidianità di una terra martoriata e in continuo 
                  martirio. “Di che morte volete morire? Di fame o di cancro?”. 
                  Suona così il cinico e inaccettabile dilemma che i politici 
                  continuano a porre ai tarantini. Senza vergogna, anzi, quasi 
                  atteggiandosi a salvatori che a colpi di “decreti salva 
                  Ilva” annientano le norme ambientali e sanitarie a tutela 
                  della popolazione con la giustificazione di dover salvare oltre 
                  diecimila posti di lavoro. “Non vi lasceremo morire di 
                  fame…”. 
                
                   
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                    |   Taranto - Il tuffo nel Mar Piccolo  | 
                   
                 
                 Delicato perché racconta la tragedia senza morbosità, 
                  rispettando il dolore, l’intimità che richiede, 
                  senza negargli la solidarietà, senza rinunciare a denunciare 
                  chi fugge dalle sue responsabilità. 
                  Delicato perché mette in luce anche le numerose iniziative 
                  dei cittadini che autonomamente, senza più nemmeno dialogare 
                  con un’amministrazione priva di potere reale, cercano 
                  di riappropriarsi del loro territorio, delle loro coscienze, 
                  delle loro capacità di dialogare, ribellarsi al ricatto, 
                  alla rassegnazione, di lottare per un bene comune: la loro terra, 
                  la loro Taranto. Davanti all’enormità dei problemi, 
                  questo risveglio ha il sapore dell’eroismo: “Buongiorno 
                  Taranto” non è solo un fi lm indipendente, è 
                  un progetto per un nuovo giorno ma… il respiro dev’essere 
                  davvero molto lungo. 
                  
                 Noi ricchi, noi settentrionali, noi imprenditori, noi che 
                  abbiamo avuto la fortuna (finora!) di poter esportare le nostre 
                  pattumiere e le attività con maggiore impatto ambientale, 
                  di fronte a queste tragedie non possiamo nasconderci. 
                  Saremo sempre coimputati perché beneficiari e dunque 
                  complici e corresponsabili di un modello malato. Taranto non 
                  è poi così lontana. 
                 Paola Pronini 
                
                   
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                       “Buongiorno 
                        Taranto” un film di Paolo Pisanelli realizzato 
                        insieme agli abitanti della città più avvelenata 
                        d'Europa con la partecipazione di Michele Riondino / Big 
                        Sur Cinema, 2014 - Durata 85'40” / www.buongiornotaranto.it 
                        Buongiorno Taranto è una produzione dal basso fondata 
                        sul crowd founding. Per sostenere, promuovere, proporre, 
                        condividere scrivi a: info@buongiornotaranto.it. 
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