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				 donne 
                  
                Ma oggi la strada è vuota 
                  
                intervista a Massimo La Torre di Domenico Bilotti 
                    
                Attrice di cinema e di teatro, scrittrice, poetessa, Goliarda Sapienza ha attraversato lo scorso secolo con grazia e spirito davvero rivoluzionario. 
La socialità dei quartieri “vissuti”, ormai scomparsa. 
                 
                  Troppo poco si è detto 
                  e scritto (e, forse, ancor meno si è letto) su Goliarda 
                  Sapienza (1924-1996), attrice di cinema e di teatro, scrittrice, 
                  non occasionalmente poetessa, che ha attraversato con grazia 
                  inaudita le rovine dell'Italia che aveva sognato il boom economico 
                  e, vent'anni dopo, le macerie dell'Italia che aveva sognato 
                  la rivoluzione. L'editore torinese Einaudi sta meritoriamente 
                  ripubblicando il suo intero catalogo, dando all'autrice siciliana 
                  finalmente la vetrina che avrebbe meritato già in vita. 
                  Ne parliamo col professore Massimo La Torre, docente di Filosofia 
                  del Diritto presso l'Università di Catanzaro, editorialista 
                  di Critica Liberale, per passione cultore delle arti 
                  cinematografiche e della letteratura siciliana (nonché 
                  per molti anni collaboratore di “A”, sin dalla sua 
                  militanza giovanile tra gli anarchici di Messina - ndr). 
                   
                  Vorrei iniziare con una provocazione. La cultura italiana 
                  ci ha dato tradizionalmente due modelli forti dell'impegno politico. 
                  Uno disperato, direi “pasoliniano”, che deve finire 
                  male, torbidamente; un altro radicale, solido, persino scontroso, 
                  come cattura l'estetica di certi film in cui l'attore protagonista 
                  è il compianto Volonté. Nel consapevole esilio 
                  ed auto-esilio di una personalità libera come quella 
                  di Goliarda Sapienza, che peso potrebbe avere avuto collocarsi 
                  sempre e comunque al di fuori di questi due modelli dominanti? 
                  Innanzitutto La ringrazio per l'occasione che mi offre di parlare 
                  di Goliarda Sapienza. È una scrittrice che amo con passione 
                  e che leggo e rileggo con immenso piacere, e con profitto anche, 
                  ché ritrovo nella sua opera motivi, idee, informazioni, 
                  sentimenti che mi nutrono, mi arricchiscono, mi stimolano, e 
                  – oso sperare – mi rendono migliore. Di questi motivi 
                  e “flussi” d'idee e sensazioni nel séguito 
                  cercherò di dire qualcosa di più preciso. E poi 
                  c'è la prosa (e la poesia) di Goliarda che trovo splendida. 
                  Il suo italiano è corposo, sanguigno, ma netto e chiaro. 
                  È barocco, ma non artificiale. Pensato e costruito, di 
                  sicuro, ma non di plastica, né álgido. È 
                  più vicina, e non tanto per le fortissime radici siciliane, 
                  quanto per la testura del suo scrivere, a Gesualdo Bufalino 
                  (a quello in particolare di “Dicerie dell'untore” 
                  e di “Argo il cieco”) che a Umberto Eco o Italo 
                  Calvino. Direi che ci sono tre periodi nella sua produzione. 
                  Il primo consiste di “Lettera aperta” e “Il 
                  filo di mezzogiorno”, il secondo di “Arte della 
                  gioia” e di “Io, Jean Gabin”, e il terzo di 
                  “L'Università di Rebibbia” e “Le certezze 
                  del dubbio”. La lingua si fa man mano meno densa, meno 
                  carnosa, il tono diventa più cartesiano. 
                  Come figura di “intellettuale” Goliarda sta in mezzo, 
                  per così dire, tra il “serio” e il “disperato”, 
                  o meglio rompe lo schema stesso di tale contrapposizione. Vi 
                  è un tono lieve nella sua scrittura; leggendo le sue 
                  pagine si ride anche. Devo dire che non mi è mai accaduto 
                  di ridere o sorridere leggendo Pasolini, e nemmeno vedendo i 
                  suoi film. Totò con Pasolini diventa maschera profetica, 
                  e triste. Anche il suo “Decamerone” è greve. 
                  La protagonista degli scritti di Goliarda è paradigmaticamente 
                  se stessa, da bambina. Modesta (la protagonista dell'“Arte 
                  della gioia”) è una monella. E monelle sono i personaggi 
                  di “L'università di Rebibbia” e di “Le 
                  certezze del dubbio” (Roberta in particolare). Il femminile 
                  è onnipresente, e rende la dimensione intellettuale “altra” 
                  rispetto alla seriosità tutta maschile di Volonté 
                  e Pasolini. E poi questi due furono comunisti, oscillando tra 
                  la “coscienza infelice” e la “Verstellung” 
                  hegeliana, che hanno contraddistinto la prospettiva etica e 
                  cognitiva del comunismo italiano. “Coscienza infelice”, 
                  perché consapevoli dell'inanità dell'utopia sovietica, 
                  e immersi nella “Verstellung”, perché proiettati 
                  in una rivoluzione che non si può veramente dare (né 
                  dunque, per le leggi ferree e “dialettiche” della 
                  storia, si può volere). 
                  Goliarda non è mai stata comunista, anche se è 
                  la compagna di Citto Maselli, e ci parla delle angosce prodottele 
                  dal XX Congresso del PCU del 1956 nel “Filo di mezzogiorno”. 
                  E la sua scrittura non è elitista; è a suo modo 
                  popolare. Le questioni che affronta sono quelle stesse su cui 
                  ha litigato nei vicoli malfamati di Catania o nelle celle del 
                  carcere. Parla a tutti e con tutti. 
                
                Emancipazione e perdizione 
                Qual è l'opera che, a suo avviso, meglio descrive 
                  il genio letterario dell'autrice? Personalmente, propenderei 
                  per “L'Università di Rebibbia” (il diario 
                  di una dura e avventurosa carcerazione): se la scrittura regge 
                  al racconto della marginalità sociale, senza piagnistei 
                  e senza falsi miti auto-identificativi, è davvero una 
                  scrittura del tempo presente. 
                  I libri che mi sembrano più belli e significativi sono 
                  “Lettera aperta”, che è il mio favorito, 
                  e “L'arte della gioia”. “L'università 
                  di Rebibbia” è ricco e importante, ma la sua prosa 
                  mi risulta più asciutta. Sarà forse che io propendo 
                  al barocco... Ma “L'università di Rebibbia” 
                  e “Le certezze del dubbio” ci raccontano la marginalità, 
                  rivendicandola. Ci mostrano il carcere come universo chiuso, 
                  concentrazionario, “istituzione totale”, che però 
                  si riempie anch'essa di socialità. E cartina tornasole 
                  di un intero sistema e di tutta una nazione. 
                  Quei due libri raccontano anche dell'Italia di fine anni Settanta, 
                  primi anni Ottanta, distante ormai anni luce da quella attuale. 
                  È sorprendente ritrovare quel clima di ostilità 
                  al conformismo borghese ed ai suoi riti e miti, oggi che alla 
                  televisione ci gingilliamo solo con preti e commissari e nonni, 
                  e meglio ancora se con preti nonni e poliziotti. Leggendo quei 
                  libri si ritorna a respirare l'aria d'antagonismo e di rivolta 
                  esistenziale e politica che non era il privilegio di pochi, 
                  ma un fatto di massa, d'ambienti sociali vasti e trasversali. 
                  Che da quelle donne, che Goliarda incontra a Rebibbia, d'una 
                  umanità disperata ma d'altro lato matura, autentica e 
                  compita, si sia passati a modelli quali quelli veicolati dalle 
                  “veline” o dalle ospiti delle “cene eleganti” 
                  ad Arcore dà il segno implacabile della decadenza d'un 
                  paese intero. Roberta – la vera protagonista di “L'università 
                  di Rebibbia” e di “Le certezze del dubbio” 
                  – è l'alternativa antropologica più estrema 
                  alle Pitonesse o Nicole che affollano i nostri rotocalchi. E 
                  i nostri sogni? 
                   
                  La Sapienza è stata una bella donna, dalla posa 
                  raffinata e non compiaciuta dei primi scatti giovanili, fino 
                  alla signora incupita e trapunta di rughe intorno agli occhi, 
                  come nelle ultime foto. Senza localismi, ovviamente, direi che 
                  è una bellezza tipicamente siciliana, una bellezza “austera”. 
                  Anche nei tragici anni Ottanta, dove più volte le rifiutano 
                  il magro conforto della Legge Bacchelli, chi la vede la chiama 
                  signora, la immagina nobile o duchessa. Direi, l'eleganza estrema 
                  della estrema dignità. 
                  Sì, Goliarda è una bellezza siciliana. A cominciare 
                  dagli occhi. Ed è una “signora”, nel senso 
                  d'una donna che sa stare al mondo, che ha cura di se stessa, 
                  che rimane elegante, anche nel carcere, anche in isolamento. 
                  È mossa dal senso della propria dignità. Da una 
                  morale quasi estetica, aristocratica, se si vuole. Non faccio 
                  questo – si dice –, perché non è da 
                  me, mi “abbasserebbe”, mi degraderebbe, mi renderebbe 
                  brutta. Per questo è rispettata (e protetta) dalle compagne 
                  di cella nell'“avventura” di Rebibbia. Ma è 
                  tutt'altro che una duchessa, una nobile, per esempio alla maniera 
                  di Simonetta Agnello Hornby. Goliarda rimane una plebea, ma 
                  colta, ma fine, ma emancipata. Modesta è una plebea, 
                  che pur diventando una “signora” non rinnega la 
                  propria storia ed è capace permanentemente di sberleffo 
                  e di empatia con gli “ultimi” e di antipatia, di 
                  disprezzo per i “primi”. “L'arte della gioia” 
                  è una specie di anti-“Gattopardo”, per quanto 
                  alcuni suoi temi si sovrappongano a quelli del romanzo di Tomasi 
                  di Lampedusa: nel libro della Sapienza non c'è nessuna 
                  idealizzazione possibile del mondo della nobiltà siciliana 
                  (come pure invece accade a Tomasi di Lampedusa). Né nostalgia 
                  (com'è il caso della Agnello Hornby). La “carusa 
                  tosta” (Modesta) che ascende la scala sociale lo fa con 
                  la consapevolezza che si tratta di un percorso allo stesso tempo 
                  di emancipazione e di perdizione. 
                   
                  Nella Sapienza che racconta anche le proprie esperienze 
                  con le terapie psicanalitiche vedo degli elementi spontanei 
                  e sinceri per un abbozzo di critica al ripiegamento borghese 
                  e costrittivo di certa psicanalisi in voga: condivide questa 
                  idea oppure ritiene che debba essere cercato altrove il senso 
                  del disagio, nei libri della scrittrice? 
                  Questa è la tematica di “Il filo di mezzogiorno”, 
                  un libro intelligente e sensibilissimo, dove si racconta la 
                  sua esperienza di psicanalisi con un medico messinese (ma residente 
                  a Roma). Alla fine è il medico ad entrare in crisi, e 
                  Goliarda si sottrae alla pratica psicoanalitica, con un migliore 
                  e più sano rapporto con se stessa. Lei si è rimessa, 
                  guarita, ma il medico si è ammalato... Il gioco delle 
                  parti e la lotta tra medico e paziente nella pratica psicanalitica 
                  è descritta con accuratezza, tanto che del libro si è 
                  fatto uso da parte degli psicanalisti per delucidare il proprio 
                  lavoro. Ma non direi che il libro è un elogio della psicanalisi. 
                  Il libro è la continuazione di “Lettera aperta”, 
                  la sua “Aufhebung”, il suo “superamento”; 
                  i grumi morali ed esistenziali presenti in quel primo scritto 
                  risaltano in maniera vivissima, e poi sembrano sciogliersi. 
                  Dipanarsi. Il disagio di Goliarda che la conduce a tentare il 
                  suicidio ed alla depressione (ed all'elettroshock) ha radici 
                  lontane. Nel rapporto con la madre, Maria Giudice, figura limpidissima 
                  ed integerrima di socialista, che però come madre dovette 
                  incombere come un macigno sul cuore di Goliarda, che la amò 
                  letteralmente fino alla follia. Ci sono altre cose, come l'ambiente 
                  della “Civita”, il quartiere catanese di poveri 
                  e disgraziati nel quale si trovavano la casa e lo studio di 
                  Giuseppe Sapienza, l'avvocato socialista e libertario padre 
                  di Goliarda, e nel quale si svolge tutta la sua infanzia. Un 
                  quartiere difficile, vulcanico, con vite intense e distrutte, 
                  con rapporti complessi e struggenti, e tutto ciò marca 
                  a fuoco i sentimenti della bambina siciliana. E c'è Nunzio, 
                  il fratello del padre, lo zio anarchico, col quale sviluppa 
                  un rapporto intenso di complicità e d'amicizia. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Goliarda fra la madre, Maria Giudice, e  il padre, l'avvocato 
                  Giuseppe Sapienza  | 
                   
                 
                “Ogni individuo ha il suo segreto” 
                Colpisce incredibilmente nella scrittura come i personaggi 
                  siano quasi sempre descritti con nitore espositivo: noi vediamo 
                  benissimo il personaggio che, volta per volta, introduce in 
                  scena la Sapienza. I luoghi, invece, risentono sempre della 
                  prospettiva di chi li osserva: dalle piazze alberate alle stazioni, 
                  dalle antichità alle galere. 
                  La scrittura di Goliarda è cinematografica, ha sempre 
                  una prospettiva ed un “fuoco”. Non per niente lavorò 
                  per anni col compagno, Maselli, che è uno dei più 
                  interessanti registi della stagione italiana del postrealismo. 
                  Ma non si indugia mai veramente sul paesaggio, questo è 
                  sempre lo sfondo di un'azione, di un ciak. Ciò che importa 
                  a Goliarda è l'azione, o l'introspezione. 
                   
                  Se volessimo strutturare la prosa e la poesia della Sapienza 
                  come una filosofia del diritto, meglio: una teoria del diritto, 
                  quale sarebbe il suo primo e giurato nemico? Il Panottico o 
                  il Leviatano? La spelonca o l'agorà? 
                  Certamente il Panottico, che però non esiste senza Leviatano. 
                  Il suo nemico è veramente lo Stato. E il suo amico l'intreccio 
                  di vicoli e di piazzette della Civita, il quartiere in cui – 
                  come dice in “Io, Jean Gabin” – nonostante 
                  il fascismo ciascuno faceva come voleva. L'agorà le è 
                  assai più congeniale della spelonca. Non c'è nulla 
                  di platonico nella sua concezione del mondo. 
                  Del diritto Goliarda ci racconta il lato affilato, tagliente, 
                  la sanzione insomma. E dunque ci ricorda che c'è sempre 
                  un residuo di ingiustizia in esso, per quanto ci si possa impegnare 
                  a renderlo “minimo” o “democratico”. 
                  Quello di Goliarda è il romanzo della microfisica del 
                  potere. Questo per quanto benevolo, e informale, fa male. E 
                  si insinua in tutti i recessi della realtà dell'uomo. 
                  È la Santamauro, la guardiana di Rebibbia. È anche 
                  lo psicanalista di “Il filo di mezzogiorno”. Per 
                  non parlare del marinaio, il padre incestuoso di Modesta nell' 
                  “Arte della gioia”. Il diritto (cioè il potere) 
                  paradossalmente si cela dietro il volto di tutte queste figure. 
                  Del diritto l'unica cosa che le potrebbe andare a genio semmai 
                  sono i diritti, in particolare quello che riassume nel 
                  modo seguente: “Ogni individuo ha il suo segreto, ogni 
                  individuo ha la sua morte in solitudine... morte per ferro, 
                  morte per dolcezza, morte per fuoco, morte per acqua, morte 
                  per sazietà unica e irripetibile. E come posso io vivere 
                  o morire se non rientro in possesso di questo mio diritto?” 
                  (“Il filo di mezzogiorno”, penultima pagina). Il 
                  diritto in questo senso consente che la porta non si chiuda 
                  sulla nostra esistenza: possiamo sempre uscire – ci promette. 
                  “La grande libertà di se stessi e dei propri pensieri 
                  non è una cosa straziante da non dire?” (Io, 
                  Jean Gabin, p. 97). 
                   
                  Lei ha talvolta parlato, commentando le opere della Sapienza, 
                  del silenzioso trapasso di un'umanità perduta, di una 
                  umanità che prima usciva e si vedeva per strada, a lavoro, 
                  quasi candida, e che ora appare inghiottita in un gorgo, non 
                  più percepita, né percepibile. Le dispiacerebbe 
                  correggermi se ho male inteso il Suo pensiero o, comunque, specificarcelo, 
                  in questa conversazione? 
                  Il mondo di cui ci parla Goliarda in gran parte è morto 
                  e sepolto. Quello dei quartieri popolari nei quali si viveva 
                  un'esistenza alternativa, per strada, e si praticavano mestieri 
                  come quelli dell'impagliatore di sedie o del mastro gelsominaio 
                  che oggi fanno solo sorridere nell'era dei centri commerciali. 
                  Chi vorrebbe oggi fare il puparo, intagliare gli attori del 
                  teatro delle marionette, quando il modello vincente è 
                  quello dell'“imprenditore” o dell'agente di borsa? 
                  Quel “popolo”, con una sua lingua, una sua cultura, 
                  suoi lavori, una sua morale, il suo teatro, non c'è più. 
                  È rimasto solo il “coolie” (la figura che 
                  più teme Marx nel “Manifesto”), il proletario 
                  senza classe. Il precario che non riesce a chiamarsi operaio. 
                  Ché se ne vergogna o nemmeno lo vede. Ci sono solo digraziati 
                  che si sentono tali perché privati della carta di credito 
                  o dell'accesso al centro commerciale. Non c‘è più 
                  la socialità alternativa ancora vibrante nella Civita. 
                  Dove la sera si mangiava per strada, si ballava per strada, 
                  ci si accoltellava per strada. E si discuteva per strada. Perché 
                  c'era una pratica di riconoscimento mutuo. Oggi la strada è 
                  vuota di vita di relazione; è semmai in qualche angolo 
                  buio ingombrata da mucchietti di umanità spogliata della 
                  propria storia. E della propria candida devianza. Eppure sono 
                  certo che anche tra questa umanità che somiglia alla 
                  plastica slabbrata ed ai residui infangati di catrame che si 
                  rovesciano oggi sulle nostre spiaggie al ritirarsi della marea, 
                  anche da questo apparente vuoto d'anime, Goliarda si farebbe 
                  ascoltare, sorridendo e senza disperare. “Non c'è 
                  vita senza collettività, è cosa risaputa: qui 
                  ne hai la controprova, non c'è vita senza lo specchio 
                  degli altri”. Questa è la lezione di speranza che 
                  trae dalla dura esperienza di Rebibbia. 
                 Domenico Bilotti 
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