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				 Fabrizio De André 
                  
                Dietro quel testamento 
                  
                di Laura Medda 
                    
                La canzone di Fabrizio De André Il testamento di Tito a confronto con la poesia Andrew Winslow contenuta ne “Il nuovo Spoon River” di Edgar Lee Masters. Al centro: libertà, giustizia e perdono. 
                 
                  All'ombra d'una croce affiora il canto del ladrone Tito e, in controluce, sembra di potervi rintracciare l'eco spiritualmente affine di un'altra voce, quella del poeta americano Edgard Lee Masters. Attraverso questo filo si delinea l'incontro tra i due poeti, in uno spazio inedito e quasi insospettabile. 
Fabrizio De André scrisse La Buona Novella sulla scia dei Vangeli Apocrifi: autori armeni, bizantini, greci raccontavano la figura scomoda del profeta che predicò la fratellanza universale e la cui storia si concluse tragicamente con una condanna a morte. 
Una maggiore umanità attraversava laicamente la narrazione di queste vicende e investiva la figurazione dei suoi protagonisti, ispirando il giovane cantautore genovese nella composizione della sua opera in musica. Con la mediazione di testi lontani dal canone e dal dogma, accolse le vicende dei personaggi vicini a Gesù, concentrandosi sulla specialità e valenza simbolica di due momenti cardine della sua vicenda esistenziale: il misterioso concepimento e la crocifissione. Attorno a questi due momenti rivisitò una storia sacra straordinariamente sciolta dall'illusione di possedere e dominare tutto e per sempre, una storia spezzata per potersi concretizzare ed essere trattenuta nella storia dell'uomo. I dettami dell'allegoria permisero al cantautore di poter raccontare il suo tempo, di richiamare le istanze migliori del movimento sessantottino attraverso l'esperienza di un eroe rivoluzionario contro gli abusi del potere. Istanze che rovesciavano il presunto aspetto anacronistico del disco: i moti contemporanei potevano trasporsi simbolicamente nello spirito antiautoritario che animò l'operato di Gesù di Nazareth. 
Nella seconda parte dell'album si racconta un trascinarsi di voci, un seguire di occhi, una folla di gesti confusi che, lungo la via della croce, accompagna il Cristo morente. Vediamo i passi della voce narrante quasi giungere ai piedi dell'altura e ascoltare il pianto vivo delle tre madri, riunite a contemplare l'agonia di quei figli stretti alla croce. La crocifissione del figlio di Maria, prefiguratasi nella bottega di un falegname, si fa visivamente presente lungo la via che lo condurrà al Golgota, dove il potere e il terrore diverranno i protagonisti storici di una morte esemplare. 
                  Accanto all'evidente fallimento di ogni tentativo di poter rovesciare 
                  l'ordine costituito, l'epilogo dell'opera deposita sull'altura 
                  anche la voce del ladrone Tito che precede immediatamente e 
                  significativamente il coro degli umili e degli straccioni. Si 
                  scatena un coro d'accusa contro il potere che uccise nel 
                  nome d'un dio / che il male non volle / e poi si assolse 
                  nel nome di quel dio.1 Sull'altura 
                  del Golgota la morte di Gesù, come quella di Tito e Dimaco, 
                  si fissa simbolicamente come traccia terrena della potenzialità 
                  distruttiva del potere. Il testamento di Tito è il momento 
                  in cui la narrazione raggiungerà il momento etico - sociale 
                  più alto e l'autore vi troverà spazio per esprimere 
                  il suo punto di vista, spiritualmente proteso ai moti di rivolta 
                  contemporanei. 
                  Se il brano in questione esibisce vistosamente la struttura 
                  del dettato di Mosè, è stata proprio questa impronta 
                  parodica a rivelarsi determinante nella possibilità di 
                  rintracciare un testo particolarmente vicino ad esso. Si tratta 
                  di una poesia compresa nella raccolta The New Spoon River, pubblicata 
                  dal poeta americano Edgard Lee Masters nel 1924 e intitolata 
                  Andrew Winslow2. 
                  Slancio libertario, marcatamente eversivo 
                Notoriamente, Fabrizio De André ebbe modo di conoscere 
                  la poesia di Masters in giovanissima età, attraverso 
                  la traduzione italiana dell'Antologia di Spoon River 
                  firmata da Fernanda Pivano. Riprese poi queste poesie durante 
                  la rivolta del '68, un momento di fortissimi sconvolgimenti 
                  sociali per le giovani generazioni dell'epoca. 
                  Furono anni di intenso periodo creativo per il cantautore, a 
                  distanza di poco tempo apparvero infatti i due album “a 
                  tema”: La Buona Novella e Non al denaro non 
                  all'amore né al cielo, la cui materia narrativa è 
                  dichiaratamente legata alla celebre antologia del poeta americano. 
                  In relazione a queste considerazioni, è possibile stabilire 
                  ragionevolmente un' ipotesi di relazione tra la poesia di Masters 
                  e la canzone composta da De André.Considerata la vicinanza 
                  temporale relativa alla composizione e pubblicazione tra i due 
                  concept album, non stupisce il fatto che in quegli stessi anni 
                  il cantautore fosse particolarmente vicino alla poetica di Masters. 
                  Il dialogo a distanza ebbe a stabilirsi da un punto di vista 
                  prettamente umano ma anche secondo uno slancio libertario, marcatamente 
                  eversivo nei confronti dei rispettivi contesti socio-politici. 
                  La poesia di Masters, strutturata sul medesimo modello, esibisce 
                  anch'essa una precisa tipologia dialettica di confutazione dei 
                  dieci comandamenti. Tuttavia, se il canto sepolcrale di Andrew 
                  Winslow, pur nelle divergenze, non avesse stabilito una 
                  serie di consonanze spiritualmente affini con il successivo 
                  canto di Tito, l'esteriore omologia compositiva avrebbe forse 
                  veicolato delle considerazioni di superficie, anche in ragione 
                  della natura, delle prerogative e della diffusione proprie di 
                  un modello come quello del Decalogo cristiano. 
                  Nasce da qui un controcanto al potere che avvicina i due orizzonti 
                  poetici, nel caso di Masters più interno al testo biblico, 
                  nell'altro veicolante un moto di ribellione legato alla libertà 
                  individuale e implicante una più ampia riflessione di 
                  tipo sociale, fortemente connessa all'ideologia anarchica e 
                  alle esigenze poetiche improntate all'umana pietà proprie 
                  del cantautore. Un'attenta analisi dei due testi poetici mette 
                  in luce uno scarto decisivo: è relativo alla disposizione 
                  della struttura argomentativa che, seppur determinata dalla 
                  confutazione di ogni singolo comandamento, nel caso del poeta 
                  americano è impostata precisamente sul perfetto parallelismo 
                  in botta e risposta, mentre nel secondo caso procede 
                  alla costruzione di piccoli nuclei narrativi esemplari. Una 
                  divergenza non solo di tipo formale: la modalità scrittoria 
                  del cantautore è ciò che permette di poter scavare, 
                  attraverso l'esperienza umana del ladrone Tito, le stringenti 
                  contraddizioni interne che Masters individua in ogni comandamento 
                  e costringe nello spazio ridotto di uno o pochissimi versi. 
                  Dalla lettura del testo scritto dal poeta americano si ricava 
                  una messa in discussione fortemente irrisoria e sintetica dei 
                  precetti del Decalogo: Andrew Winslow scardina l'assolutezza 
                  di ogni comandamento secondo le contraddizioni insite nelle 
                  loro stesse regolamentazioni. Il narratore De André invece 
                  diviene parte integrante di una visione, si apre a questa ricerca 
                  terrena che accoglie la voce del ladrone buono come l'incisione 
                  di un controcanto alternativo, perché umano, ai precetti 
                  del Decalogo. E sarà una visione dove l'assenza diventa 
                  predominante perché Tito ha chiamato invano il suo Dio 
                  e tutto si organizzerà intorno a questa mancanza. La 
                  scansione strofica allestita da Fabrizio De André per 
                  il suo testamento diventa quindi la possibilità 
                  ampiamente narrabile di un esperire umano che nel suo attraversare 
                  la vita si è schiantato contro la certezza dogmatica 
                  della sacralità e ne costituisce testimonianza viva. 
                  Non appare, in questo senso, casuale che la voce di Tito sia 
                  certo quella di un uomo portato a morire sulla croce ma pur 
                  sempre vivo, come viva è la sua memoria che si trasmuta 
                  in ricordo in atto. 
                
                   
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                    |   La copertina dell'LP La buona novella, 
                  1970  | 
                   
                 
                Un personalissimo concetto di giustizia 
                Il divieto di privare la vita altrui viene sancito nel Decalogo attraverso il quinto comandamento. Andrew Winsolw richiama alcune delle circostanze e modalità che giustificherebbero la legittima eccezionalità dell'azione: sarebbe concesso uccidere in guerra, con il cappio e con le pietre. 
 
                  Non uccidere – salvo che in guerra, con il cappio e 
                  con le pietre3 
 
                  Il Codice deuteronomico4, relativo 
                  alla legislazione religiosa e civile di Israele, conserva infatti 
                  alcune regolamentazioni relative alla pena di morte e allo stato 
                  di guerra. La pena di morte, all'interno del quadro comunitario 
                  e legale ebraico, costituiva uno dei più consolidati 
                  mezzi punitivi, pertanto il comandamento dovette proibitivamente 
                  vincolarsi all'assassinio slegato dalla consuetudinarietà 
                  del diritto tradizionale. Uccidere sarebbe lecito, secondo il 
                  comandamento, qualora si debba doverosamente estirpare il male 
                  o si debba combattere in guerra contro il nemico: la voce di 
                  Andrew Winslow suggerisce, secondo questa disposizione, l'assurdo 
                  cortocircuito manifesto nella stessa regolamentazione del precetto. 
                  In diversa misura, e spostando lo sguardo verso chi muore accanto 
                  a lui, anche Tito ne svela la sacrale violenza e la strumentalizzazione 
                  da parte del potere. Il cantautore richiama visivamente l'attenzione: 
                  lo sguardo deve concentrarsi sulla croce dove Gesù, condannato 
                  a morte dalle autorità, finisce per identificarsi con 
                  quella stessa legge che proibisce la violenza dell'uccidere 
                  e che viene inchiodata tre volte nel legno.5 
                  La forza visiva di questa immagine si trattiene nella morte 
                  del nazareno e in quella di un ladro.6 
 
Il settimo dice non ammazzare  
se del cielo vuoi essere degno  
guardatela oggi, questa legge di Dio 
tre volte inchiodata nel legno:  
guardate la fine di quel nazareno,  
e un ladro non muore di meno  
guardate la fine di quel nazareno,  
e un ladro non muore di meno 
 
                  Immagine che in controluce richiama la voce della Ballata 
                  degli impiccati7, simbolicamente 
                  veicolante la feroce critica verso una giustizia che si determina 
                  attraverso la pena di morte. E si determina, non a caso, nell'assenza 
                  del perdono e della compassione umana. 
Ancora, all'interno dello stesso quadro comunitario, la proibizione dell'atto del rubare – dice Andrew Winslow – non riguarda i Filistei, la schiavitù e il gioco di proprietà. 
 
                  Non rubare – salvo che ai Filistei, con la schiavitù, 
                  e nel gioco di proprietà8 
 
                  Anche Tito, da buon ladrone, può riservare all'azione 
                  un certo margine di legittimità, giustificandola nei 
                  termini di una necessità che non si nasconde dietro false 
                  pretese né si veste del nome di Dio ma si attua secondo 
                  un personalissimo senso di giustizia. Vuotare le tasche già 
                  gonfie di quelli che avevan rubato9 
                  risponde al principio di una redistribuzione della ricchezza 
                  che, in termini allegorici, implicava evidente connessione con 
                  i moti sessantottini. 
 
Il quinto dice non devi rubare  
e forse io l'ho rispettato  
vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie  
di quelli che avevan rubato:  
ma io, senza legge, rubai in nome mio,  
quegli altri nel nome di Dio  
ma io, senza legge, rubai in nome mio,  
quegli altri nel nome di Dio 
 
                  Il punto di vista del ladrone Tito non è quello di chi 
                  ruba nel nome di Dio10 
                  e si distanzia da quello legato alla contestazione di Andrew 
                  Winslow ma ne richiama il sottofondo ideologico secondo delle 
                  connessioni più profonde. I due comandamenti analizzati 
                  risultano, in questo senso, particolarmente vicini nell'impatto 
                  eversivo che prefigura il codice mosaico come la concessione 
                  di un sistema di privilegi. Il Decalogo, in entrambi i casi, 
                  implode nell'incongruenza tra i precetti sacri e la connessa 
                  realizzazione terrena, nella profonda immoralità della 
                  disuguaglianza sociale che ne consegue: un apparato funzionale 
                  all'esercizio del potere che riscopre l'atavico e insuperato 
                  contrasto tra oppressi ed oppressori. Questo aspetto risalta 
                  limpidamente nella contrapposizione tra schiavi e padroni presente 
                  nella quarta strofa del testamento deandreaiano riguardante 
                  il terzo comandamento. 
 
Ricorda di santificare le feste,  
facile per noi ladroni  
entrare nei templi che rigurgitan salmi  
di schiavi e dei loro padroni  
senza finire legati agli altari  
sgozzati come animali  
senza finire legati agli altari  
sgozzati come animali 
 
L'osservazione del culto festivo appare riservata ad una religiosità esclusiva e l'altare, come la croce sul Golgota, il luogo della punizione esemplare dove viene legata la vittima sacrificale secondo la volontà del potere sacralmente costituito. 
I due testi sembrano suggerire una comune, immediata e profonda esigenza di liberazione dalle costrizioni moralistiche e ideologiche imposte da un sistema di potere che si autogiustifica e autorappresenta nel nome di una superiore autorità; si legano a doppio filo attraverso l'arma da esso più temuta: la parola. Non ci sono Inferno né Paradiso che aspettino Andrew e il ladrone Tito: i due autori sembrano incontrarsi proprio nell'assenza del versante religioso della morte, probabilmente a significarne un'implicita negazione. Il nome proprio identifica i due testamenti spirituali, forse un modo perché possano materializzarsi nella pubblica dimensione. Anche la voce terrena di Andrew Winslow sembra in qualche modo sfogare la propria incapacità nel conformarsi ai codici comportamentali e alle leggi della sua comunità, sembra possedere una vividezza della propria tensione etica che esorbita dallo status sepolcrale per fermarsi sulla terra. E il cantautore, chiedendo a Tito di strappare l'ultima coscienza d'uomo che ha in sé le proprie leggi e le proprie profonde risposte, in qualche modo, sembra voler continuare il respiro interrotto del testo poetico americano. 
                  Una pluralità di punti di vista 
                I versi dei due testi posti a confronto mostrano dunque le radici di una violenza velata di sacralità. Andrebbero ricercate significativamente, queste radici, nella storia e nella figurazione del modello comune. Il Decalogo cristiano nasce all'insegna del patto che il popolo d'Israele ha stretto con Dio. Uno speciale dovere di gratitudine e obbedienza grava su queste genti, un meccanismo salvifico e implicitamente punitivo diventa funzionale al suo attuarsi. Il popolo di Israele viene affidato al comando di Dio e del suo profeta Mosè e la rivelazione sul Sinai, per conservarsi quale figura identitaria fondante, traspone la propria memoria nella scrittura. Il primo dei comandamenti veicola alcuni significati fondamentali che, rispetto ai precetti successivi, appaiono polarizzanti: “Non avrai altro Dio fuori che me. Non ti fare nessuna scultura, né immagine delle cose che splendono su nel cielo, o sono sulla terra, o nelle acque sotto la terra. Non adorar tali cose, né servir loro, perché io, il Signore Iddio tuo, sono un Dio geloso, che punisco l'iniquità dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione di coloro, che mi odiano; ma uso clemenza fino alla millesima generazione verso coloro, che mi amano e osservano i miei comandamenti.” (Esodo 20, 3-6) 
Edgard Lee Masters e Fabrizio De André ne misero principalmente in discussione non solo il carattere esclusivo ma anche l'inconsistenza dell'autorità emanante. Non appare casuale, seppur secondo declinazioni diverse, che abbiano relativizzato l'esistenza di un unico Dio in favore di una pluralità di punti di vista. 
                  E se il secondo dei comandamenti ricorda il divieto di richiamare 
                  il Signore invano, Andrew Winslow si fermerà all'interrogativo 
                  sul paradosso rispetto all'atto del pregare mentre Tito chiamerà 
                  il Signore gridando la propria pena e il suo nome. Lo chiama 
                  a gran voce, lo aspetta ma forse era stanco, forse troppo 
                  occupato.11 Prova a misurarne 
                  la distanza, forse era troppo lontano12, 
                  poi constata di averlo nominato davvero invano.13 
                  Dio non si è presentato, così si stabilisce il 
                  segno dell'Assenza. 
In controluce, la prima strofa del testamento deandreaino, e in qualche modo anche l'incipit di Masters, richiamano i concetti di verità e falsità, amicizia e inimicizia. Concetti che informeranno del proprio spirito la natura dell'intero Decalogo, alimentandone le radici. 
Andrew Winslow e Tito tracciano così un confine sottilissimo sul quale incontrarsi: la codificazione del Decalogo mosaico si polverizza nel corpo a corpo con la forza eversiva della parola che mette in discussione la verità rivelata in una stringente contrapposizione terrena. 
                  Libertà integrale e valore del perdono 
                Del resto, una sacralità violenta è nettamente 
                  inconciliabile con i propositi di un Dio nel quale il cantautore 
                  dichiarò di nutrire speranza: Il Dio in cui nutro 
                  speranza non ha mai suggerito ai suoi seguaci i sentimenti dell'odio, 
                  della vendetta, sfociati in orribili guerre, in devastanti persecuzioni, 
                  in una spaventosa varietà di tormenti fisici e morali. 
                  Il Dio in cui, nonostante tutto, continuo a sperare è 
                  un'entità al di sopra delle parti, delle fazioni, delle 
                  ipocrite preci collettive; un Dio che dovrebbe sostituirsi alla 
                  così detta giustizia terrena in cui non nutro alcuna 
                  fiducia, alla stessa maniera in cui non la nutriva Gesù, 
                  il più grande filosofo dell'amore che donna riuscì 
                  mai a mettere al mondo.14 
                  Le strofe finali dei due canti convalidano il diverso modus 
                  operandi dei due autori ma ne rivelano la spirituale 
                  affinità nella proposizione del comandamento d'amore. 
                  Non una novità assoluta: secondo il Nuovo Testamento, 
                  Gesù avrebbe infatti semplificato il Decalogo nel doppio 
                  comandamento dell'amore a Dio e al prossimo. Nel Vangelo di 
                  S. Marco si racconta di uno scriba che avvicinatosi a Gesù 
                  gli chiese:  “Qual è il primo di tutti i Comandamenti?” 
                  Gesù rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele: 
                  il Signore Dio nostro è l'unico Signore, e tu amerai 
                  il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua 
                  anima, con tutta la tua mente, e con tutte le tue forze. Il 
                  secondo è questo: Tu amerai il tuo prossimo come te stesso. 
                  Non c'è altro comandamento più grande di questi”. 
                  (S. Marco 12, 28-31) 
                  Andrew Winslow e Tito, tuttavia, rintracciano il suo più 
                  profondo significato e il suo costituirsi non in senso verticale 
                  ma attraverso uno sguardo orizzontale che si è disposto 
                  intorno all'uomo. Attraverso la loro voce, la difesa di una 
                  libertà integrale e il valore del perdono hanno spezzato 
                  la verticalità del Decalogo. Si è innescato il 
                  disincanto della fissità sacrale propria di un codice 
                  costruito a misura di una legge dis-umana, di una giustizia 
                  terrena che detti obbedienza e sia privilegio di pochi. I due 
                  poeti sembrano incontrarsi nuovamente in questo punto precisissimo 
                  del confine per riscrivere un solo comandamento. 
                  Sentiamo la voce di Andrew Winslow richiudersi su se stessa 
                  e sprofondare nella morte: Un nuovo comandamento ti consegno: 
                  ama te stesso. / Fui uno apprezzato? / La mia tomba è 
                  un santuario? / Guarda quanta erba e quanta gramigna!15 
                   
                  E segue la voce di Tito, il narratore De André entra 
                  silenziosamente in quest'ultimo anelito del suo ladrone che, 
                  accanto all'uomo Gesù, trascina la croce dell'ingiustizia 
                  e muore alla sua destra. Si spegne così la verticalità 
                  di una preghiera d'obbedienza e sembra avanzare lentamente una 
                  pietas che detta e riscrive: sul finire della vita, l'anima 
                  del ladrone buono avvicina il suo sguardo all'inumano amore 
                  e ne raccoglie la buona novella. 
                   
                  Ma adesso che viene la sera ed il buio  
                  mi toglie il dolore dagli occhi  
                  e scivola il sole al di là delle dune  
                  a violentare altre notti:  
                  io, nel vedere quest'uomo che muore,  
                  madre, io provo dolore  
                  nella pietà che non cede al rancore,  
                  madre, ho imparato l'amore 
                   
                  Solo attraverso la sua voce, la riscrittura del comandamento 
                  potrà dirsi compiuta: il dettato aprirà quel vuoto 
                  in cui la voce di Andrew Winslow sprofondò per essersi 
                  invocata unicamente all'amore nei confronti di se stesso. 
                  All'ombra della croce più grande, Tito scruta le oscurità 
                  e sentiamo il suo affanno carico di memoria trasformarsi in 
                  suono inquieto. Adesso che viene la sera il suo sguardo si abbandona 
                  al sentire dell'umana pietà per trattenersi, qui sulla 
                  terra, come segno d'amore. 
                 Laura Medda 
                Note 
                 
                  - Laudate hominem in La Buona novella, 1970.
                  
 - Edgard Lee Masters in Il nuovo Spoor River, traduzione 
                  di Umberto Capra e Attilia Lavagno, Newton Compton editori, 
                  Roma 2010.
                  
 - Thou shalt not kill – except in war, with the noose 
                  and stones
                  
 - Il riferimento è correlato ai contenuti nel Deuteronomio, 
                  il quinto libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana.
                  
 - Il Testamento di Tito in La Buona novella, 1970.
                  
 - Ibidem.
                  
 - Fabrizio De André, La Ballata degli impiccati in 
                  Tutti morimmo a stento (cantata in si minore per solo, coro 
                  e orchestra), Bluebell Record, 1968.
                  
 - Thou shalt not steal – save from the Philistine, by 
                  slavery and in the game of property.
                  
 - Il Testamento di Tito in La Buona novella, 1970.
                  
 - Ibidem.
                  
 - Il Testamento di Tito in La Buona Novella, 
                  1970.
                  
 - Ibidem.
                  
 - Ibidem.
                  
 - Fabrizio De André in E poi il futuro (a cura 
                  di) Guido Harari, Mondadori, Milano, 2001, pag.180.
                  
 - Edgard Lee Masters, Andrew Winslow, in Il nuovo Spoor 
                  River, cit.
                  
  
                  
                 
                 
                   
                
                   
                    Il parere di don Gallo/ Spezzare il pane nei vicoli oscuri 
                      Si 
                        intitolava così l'intervista fatta da Renzo Sabatini 
                        a don Andrea Gallo, pubblicata 
                        in “A” 381 (giugno 2013) - per pura casualità 
                        all'indomani della morte del “prete da marciapiedi”, 
                        carissimo amico comune di noi di “A” e di 
                        Fabrizio De André. Il Gallo era stato sentito da 
                        Sabatini nell'ambito del ciclo di 20 interviste “in 
                        direzione ostinata e contraria”, tutte incentrate 
                        sul pensiero del cantautore genovese e pubblicate su “A” 
                        tra l'aprile 2012 (”A” 370) e il maggio 2014 
                        (”A” 389).  
                        In questa si parlò naturalmente del pensiero 
                        religioso di Fabrizio, con riferimento alla Buona Novella 
                        e anche alla canzone Il testamento di Tito, di cui si 
                        occupa Laura Medda in queste pagine. Ne ripubblichiamo 
                        uno stralcio.
                        
                          
                       
                      [...] 
                        Fabrizio è l'unico che riesce ad accomunare in 
                        una medesima storia vincitori e vinti, per una liberazione 
                        comune. È vero che questa avviene solo per un momento, 
                        magari solo lo spazio di una canzone. Ma lì avviene, 
                        perché rimescola le categorie del bene e del male, 
                        fino a far emergere gli imprevisti: le prostitute insegnano 
                        e i professori vanno a lezione! E allora ecco che mi ricorda 
                        la frase di Gesù: “le prostitute e i pubblicani 
                        vi precederanno nel Regno”. 
                        Ecco allora la mia vita di comunità e il nostro 
                        incontro: perché i suoi personaggi sono i miei 
                        e lui dice che questi ragazzi, con cui vivo, appaiono 
                        ricchi di una fragilità che ce li rende cari, come 
                        nel Vangelo. Personaggi capaci di coinvolgerci, che ci 
                        inducono a cercarli, come cerco di fare io tra i vicoli 
                        della città vecchia, tra i vicoli delle periferie. 
                        Quanti Miché, Marinella, Bocca di Rosa, Princesa, 
                        incontro! Fabrizio poi si rivolge soprattutto a quelli 
                        che sono tormentati. 
                        È vero, molti mi fanno delle obiezioni e mi dicono: 
                        “non ti sembra che il rapporto di De André 
                        con la religione fosse veramente strano?”. E io 
                        rispondo: non era forse strano, all'epoca, il rapporto 
                        di Gesù con i Farisei, che chiamava “sepolcri 
                        imbiancati”? Chiaramente il Dio di cui parla viene 
                        continuamente invitato a presentarsi come uomo, forse 
                        l'unico modo in cui De André trova possibile e 
                        desiderabile l'incontro. L'intero album de La Buona 
                        Novella è una testimonianza di questo, ma già 
                        con Si chiamava Gesù raccontava di un uomo 
                        fra gli uomini. Anche la contestazione dei comandamenti 
                        nel Testamento di Tito è del tutto coerente: 
                        Fabrizio contesta i comandamenti uno a uno ma propone, 
                        per ciascuno di essi, un suo personale, terreno e schiettamente 
                        imperfetto modo di appropriarsene. Prende dentro lo sguardo 
                        dell'uomo quanta più vita possibile, bonificando 
                        l'umana pietà dal rancore. Per arrivare, alla fine, 
                        a quella Smisurata preghiera: “ricorda signore 
                        questi servi disobbedienti alla legge del branco, non 
                        trascurare il loro volto...”, ecco perché 
                        dopo tanti anni dalla morte di Fabrizio è tutto 
                        un susseguirsi di iniziative che parlano di lui e non 
                        c'è stato un vero addio alla chiesa di Carignano. 
                        E quindi avrai capito che per me è il mio poeta, 
                        il mio evangelista, il mio anarchico, il mio artista. 
                        Ricordo quando abbiamo fondato la comunità, nel 
                        1970: qui tutti i ragazzi cantavano La guerra di Piero 
                        e le altre canzoni dell'epoca.  
                        
                        don Andrea Gallo  | 
                   
                 
                
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