Viaggio 
                  alla fine del dolore 
                 Di 
                  questo libro – pubblicato da Fazi Editore lo scorso mese 
                  di febbraio – hanno scritto in molti e sempre con toni 
                  molto positivi. Ho voluto aggiungermi al coro perché 
                  la sua bellezza si presta a sostenere molto più di un 
                  elogio. Sto parlando di Anima (Fazi Editore, Roma, pp. 
                  496, € 18,50) scritto da Wajdi Mouawad, artista libanese 
                  conosciuto e apprezzato, soprattutto in Francia, come autore 
                  di teatro. Questo è il suo secondo romanzo. 
                  Cinquecento pagine scritte nell'arco di dieci anni che hanno 
                  condotto ad un lavoro di rara intensità e pulizia per 
                  un tema così cruciale come quello che si affronta. Il 
                  libro, di primo acchito, si presenta come un noir: un 
                  uomo trova la moglie uccisa barbaramente e decide di partire 
                  alla ricerca dell'assassino, non per vendetta, ma perché 
                  vuole vedere la faccia di chi ha potuto accanirsi in maniera 
                  così brutale sul corpo di una donna incinta e perché 
                  quella morte ha iniziato a far riaffiorare in lui ricordi di 
                  cui non aveva consapevolezza. 
                  Inizia il viaggio e con esso iniziano a dipanarsi le mille sfaccettature 
                  del dolore. È il grande tema e viene affrontato magistralmente 
                  scegliendo di non guardare al dolore solo dal punto di vista 
                  umano ma anche da quello degli animali. C'è il dolore 
                  ontologico, che fa parte del tessuto della vita che uccide la 
                  vita, che di essa si nutre, e c'è quello causato dall'essere 
                  umano sulla sua stessa specie e sulle altre specie viventi. 
                  Niente è peggio o meglio, tutto è sentito e narrato 
                  con eguale partecipazione, asciutta e ricca di pathos. 
                  Unica è l'anima in cui tutto risuona, un'anima universale 
                  che ci comprende insieme alle anime di un universo animale narrante 
                  che costituisce il punto di vista particolare su cui il testo 
                  viene costruito. Infatti ogni capitolo porta il nome scientifico 
                  dell'animale, – felis sylvestris catus, musca domestica, 
                  vespula germanica, equus caballus – che descrive azioni 
                  ed emozioni. Su questa scelta stilistica vorrei soffermarmi 
                  perché ho trovato veramente grande il modo in cui il 
                  dolore umano viene raccontato al pari di quello animale (la 
                  descrizione di una femmina di procione uccisa dal viavai delle 
                  automobili è toccante tanto quanto quella dell'assassinio 
                  della moglie del protagonista e la narrazione della folle disperazione 
                  dei cavalli rinchiusi nel camion che li sta trasportando al 
                  macello non è da meno di quella della peggiore strage 
                  compiuta da esseri umani su altri esseri umani inermi), in un 
                  unico “canto animale” che tutto unisce mentre tutto 
                  lascia scorrere. Unica è l'anima del mondo, quindi uno 
                  è anche il dolore che ci accomuna: questo il messaggio 
                  che nel libro passa con molta chiarezza. Sarebbe bello potessimo 
                  farlo nostro, intimamente. 
                  Ascoltiamo la voce di una scimmia: “Gli umani sono soli. 
                  Malgrado la pioggia, malgrado gli animali, malgrado i fiumi 
                  e gli alberi e il cielo e malgrado il fuoco. Gli umani sono 
                  sempre sulla soglia. Hanno avuto il dono della verticalità, 
                  e tuttavia conducono la loro esistenza curvi sotto un peso invisibile. 
                  C'è qualcosa che li schiaccia. Piove: ecco che corrono. 
                  Sperano nella venuta delle divinità, ma non vedono gli 
                  occhi degli animali che li guardano. Non sentono il nostro silenzio 
                  che li ascolta. Prigionieri della loro ragione, la maggior parte 
                  di loro non faranno mai il grande passo dell'irragionevolezza, 
                  se non al prezzo di un'illuminazione che li lascerà esangui 
                  e folli. Sono assorbiti da ciò che hanno sotto mano e 
                  quando le loro mani sono vuote, se le portano al viso e piangono”. 
                  La solitudine umana è un altro dei temi che si intrecciano, 
                  strada facendo, a comporre la molteplice trama di voci, partendo 
                  da quella del protagonista – Wahhch Debch, libanese di 
                  origini, il cui nome tradotto significherebbe “mostruoso 
                  brutale” – che era bambino in Libano all'epoca della 
                  strage di Sabra e Chatila. 
                  Ci sono i territori delle riserve indiane del Quebec, dove convivono 
                  bassezze orribili insieme alla meraviglia della cosmologia dei 
                  popoli nativi delle zone che Wahhch attraversa per incontrare 
                  l'indiano Mohawk che si sa essere l'assassino di sua moglie. 
                  Sono territori di confine, ma il confine, prima di essere quello 
                  tra uno stato e l'altro, è quello tra il bene e il male, 
                  fra l'identità di un popolo e la sua autodeterminazione, 
                  fra ciò che è umano e quello che è disumano, 
                  tra umano e animale. Ci si muove in continuazione cercando una 
                  spiegazione al male e perciò si sprofonda nelle viscere 
                  di un mondo governato da brutalità e perdizione, si scende 
                  nel lato oscuro della natura umana, il peggiore. Si attraversano 
                  gli stati dell'America alla ricerca della verità sulla 
                  storia del protagonista. 
                  Bellezza e orrore della natura umana ci accompagnano lungo tutto 
                  il viaggiare. Bellezza e brutalità della natura animale 
                  con cui siamo portati a fare paragoni. Il protagonista ha un 
                  rapporto speciale con gli animali, li vede ed è visto, 
                  li rispetta ed è rispettato, li salva ed è salvato 
                  in più di un'occasione, quasi come accade nelle favole 
                  e questo è commovente in un libro che incalza seguendo 
                  il divenire dei fatti tipico della tragedia greca. Si tocca 
                  il fondo dell'obbrobrio per arrivare alla catarsi, a una sorta 
                  di giustizia finale che Wahhch e gli animali compiono. 
                  La storia finisce e la voce narrante del coroner incaricato 
                  delle indagini racconta l'epilogo. Un uomo, una donna e un cane 
                  continueranno il viaggio dirigendosi verso nord: “Cosa 
                  getteranno nel tumulto delle onde? Cosa affideranno agli abissi? 
                  Quale dolore? Quale dispiacere? Nelle profondità marine 
                  esistono pesci mostruosi dotati di parola, custodi di una lingua 
                  antica, dimenticata, parlata ai tempi dei tempi dagli umani 
                  e dalle bestie sulle rive dei paradisi perduti. Chi mai oserà 
                  immergersi per unirsi a loro e imparare a decifrare e parlare 
                  di nuovo quel linguaggio? Quale animale? Quale uomo? Quale donna? 
                  Quale essere? Quell'essere, se risalisse in superficie, porterebbe 
                  nella propria bocca azzurrata dal freddo i frammenti di una 
                  lingua scomparsa di cui tutti noi cerchiamo da sempre, instancabilmente 
                  l'alfabeto. Impareremmo di nuovo a parlare. Inventeremmo parole 
                  nuove. Wahhch ritroverebbe il suo nome. Non tutto sarebbe perduto”. 
                 Silvia Papi 
                     Dietro e dentro 
                  i meccanismi culturali 
                 È 
                  mio convincimento che una piena, o quantomeno adeguata, comprensione 
                  di qualsivoglia esperienza debba tener conto dell'approccio 
                  con la quale la viviamo. Questa considerazione vale in particolare 
                  quando incontriamo un testo soprattutto se interessante e in 
                  qualche misura illuminante. Nel caso specifico, mi ha indotto 
                  a leggere I Buoni (Chiarelettere, Milano, 2014, pp. 224, 
                  € 14,00) una conferenza tenutasi in un'austera sala della 
                  Cavallerizza Reale. In quell'occasione si ragionava “della 
                  feroce retorica del Bene e della Cooperazione sociale” 
                  a partiredal libro di Luca Rastello. 
                  Ero quindi mosso, come sovente mi capita, in primo luogo da 
                  un interesse pratico-sensibile, dall'esigenza di conoscere meglio 
                  l'universo della cooperazione sociale e del volontariato del 
                  quale mi occupo, di norma, come organizzatore sindacale “irregolare” 
                  e come militante politico. 
                  La conferenza prima e la lettura del libro poi non mi hanno, 
                  da questo punto di vista, certamente deluso, ma è bene 
                  tener conto che si tratta comunque di un romanzo, a rigore di 
                  un romanzo storico che applica puntualmente i canoni che hanno 
                  guidato Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi e che sono stati 
                  formalizzati da György Lucaks: le vicende immaginarie di 
                  personaggi immaginari come strumento per una rigorosa disamina 
                  di quadro storico-sociale minuziosamente conosciuto. Non mancano, 
                  quindi, amori, passioni, sofferenze, avventure e vicende che 
                  riguardano il vissuto individuale. 
                  Detto ciò, il libro si caratterizza per la puntuale ricostruzione 
                  della natura umana e sociale e di alcune specifiche culture 
                  politiche di questo universo. Per un verso si descrive il mondo 
                  del volontariato nel suo intreccio con la cooperazione sociale, 
                  un mondo che presenta se stesso appunto come “i buoni”, 
                  coloro che si prendono carico della sofferenza sociale, coloro 
                  che, in una società individualista ed egoista, propongono 
                  uno stile di vita e dei valori antagonisti all'esistente. 
                  Da questo punto di vista si descrivono i meccanismi dello sfruttamento 
                  della forza-lavoro, del ricatto morale con cui questo sfruttamento 
                  è giustificato, della costruzione di un vero e proprio 
                  universo totalitario. A questo universo moralista, cupo, autoflagellantesi 
                  non manca per altro di interlocuzioni forti con imprenditori, 
                  politici, banchieri “amici” secondo l'antico precetto 
                  per il quale omnia munda mundis. Per l'altro verso si analizza 
                  un classico caso di eterogenesi dei fini: l'ibrido prodotto 
                  dell'incrocio fra cattolicesimo radicale e rottami del comunismo 
                  storico novecentesco, sviluppatosi a partire dagli anni Settanta 
                  come tentativo di costruire un altro mondo possibile nella concretezza 
                  del fare, ha prodotto un sottomondo perfettamente funzionale 
                  allo smantellamento del welfare, all'esternalizzazione dei servizi 
                  sociali, al controllo caritatevole della devianza sociale. 
                  Si potrebbe parlare dell'ennesima sconfitta della generazione 
                  del Sessantotto, o quantomeno di quella parte di questa generazione, 
                  e di coloro più giovani che ne hanno seguito le tracce, 
                  che ha tentato di sottrarsi alle ferree leggi dell' economia 
                  di mercato e, contemporaneamente, alla gestione statale e burocratica 
                  dell' esistente. 
                  Uno scacco, se vogliamo, dell'idea che sia possibile costruire, 
                  dentro la società statale e mercantile, un significativo 
                  settore, soprattuto nei servizi, realmente autogestito. Ovviamente 
                  un'analisi approfondita di questo problema richiederebbe uno 
                  spazio che non vi è in questa sede tantopiù se 
                  si considera che questo tema non è centrale nel libro 
                  di Luca Rastello; basta rilevare che, visto che i committenti 
                  sono gli enti locali e comunque lo Stato e che i committenti 
                  definiscono il quadro in cui si svolge la cooperazione sociale 
                  e le risorse che ha a disposizione, sarebbe ben strano che non 
                  tenesse sotto il proprio controllo questo campo di attività. 
                  In realtà Rastello concentra la propria valutazione critica 
                  soprattutto sui meccanismi culturali che sottendono alla vita 
                  di questo mondo ed indubbiamente, se consideriamo che si ragiona 
                  di un lavoro di cura alle persone, il disvelamento della sua 
                  natura profonda è essenziale. 
                  Nei fatti quindi il libro che, oltre ad essere di lettura gradevole 
                  anche se non sempre facile, è uno strumento utile per 
                  la critica dell' attuale struttura di dominio proprio laddove 
                  pretende di celare la sua reale natura. 
                 Cosimo Scarinzi 
                     La pratica della 
                  trasformazione sociale 
                Una nuova, piccola, casa editrice libertaria. Nella Svizzera 
                  italiana. Si chiama Edizioni Les Milieux Livres e ha appena 
                  pubblicato due volumetti: Manifesto per una alternativa 
                  (Soazza - Svizzera, 2014, pp. 47, € 5,00) di Patric 
                  Mignard e Riflessioni sull'individualismo. Sapere-volere-potere 
                  di Manuel Devaldès. Del primo riproduciamo qui la postfazione 
                  di Stefano Boni. 
                  Per maggiori informazioni: 
                  www.lml-edizioni.org 
                  - lml@lml-edizioni.org 
                   
                   Mignard 
                  ha una scrittura essenziale, pregevole per la limpidezza e la 
                  capacità di sintesi, libera di citazioni e verbosità 
                  superflue, disinteressata a dibattiti teorici e astratti, sempre 
                  finalizzata a proporre argomentazioni serrate che, piuttosto 
                  che a logiche formali, rispondono alla esperienza quotidiana 
                  dei lettori. Proprio partendo dall'esperienza, l'attenzione 
                  è volta alla questione, su cui chiunque desideri un cambiamento 
                  sistemico si interroga con frequenza, di cosa fare in un contesto 
                  desolante, segnato da decenni di progressiva concentrazione 
                  del potere ed un esproprio generalizzato di sovranità 
                  e diritti, competenze e autonomie dal corpo sociale ai potentati 
                  politici e finanziari. Il tono che assume lo scritto di Mignard, 
                  piuttosto che quello della disquisizione accademica, è 
                  quello quasi profetico, comune ad altri analisti politici contemporanei 
                  come Negri e Holloway. 
                  L'opera di Mignard ha due enormi pregi: da un lato il taglio 
                  storico di lungo periodo; dall'altro la proficua autocritica, 
                  coerente e inflessibile. Per uscire dalle nebbie intellettuali 
                  che ci vengono proposte dall'asservita industria dell'informazione, 
                  abbiamo bisogno di trovare un senso in analisi storiche epocali, 
                  riflessioni che aiutino a comprendere, oltre le apparenti urgenze 
                  del momento, dove è indirizzato il modello che ci viene 
                  imposto e la sorte delle resistenze che hanno cercato di opporsi. 
                  Se i media ci propongono solo notizie che evaporano in un presente 
                  frenetico che tende a distrarci da analisi ponderate, abbiamo 
                  bisogno di sguardi eretici e profondi. Mignard stimola proprio 
                  questa ricerca di senso che scardina la cacofonia imperante. 
                  Per individuare le dinamiche che ci hanno portato all'attuale 
                  impotenza politica e sull'orlo del collasso ecologico, si deve 
                  uscire dal chiacchiericcio somministrato dalla retorica della 
                  politica istituzionale e analizzare la storia contemporanea 
                  senza aggrapparsi alle letture e agli alibi ai quali siamo assuefatti, 
                  in grado solo di convincerci ad accettare il prossimo fallimento 
                  o farci compiacere dei contentini ceduti dai potenti, peraltro 
                  di questi tempi sempre più scarsi e tossici. Ci viene 
                  offerta un'analisi senza sconti delle sconfitte nelle lotte, 
                  delle cooptazione di partiti e sindacati rivoluzionari, degli 
                  insuccessi delle mobilitazioni e delle corruzioni dei movimenti 
                  contro il potere di capitale e stato. Se la schiettezza dell'analisi 
                  è estrema, la sua lettura è condivisibile, anzi 
                  irrinunciabile se si vuole immaginarsi un futuro in cui il protagonismo 
                  storico sia diffuso e non concentrato nei palazzi dei potenti. 
                  Mignard, da un lato, dice cose evidenti, dall'altro ciò 
                  che evidente è al contempo sconvolgente. Le “lotte” 
                  dal secondo dopoguerra in poi sono stati un susseguirsi di tentativi 
                  fallimentari, quando in buona fede, e con il passare dei decenni, 
                  si sono trasformati sempre più in forme di mistificazione 
                  e di sostanziale appoggio al mantenimento dell'ordine sistemico, 
                  come ormai reso evidente dal ruolo della maggior parte dei sindacati, 
                  essenziali per svuotare di radicalità ed efficacia le 
                  mobilitazioni dei lavoratori. Perseverare con le tattiche e 
                  le strategie del Novecento è masochismo. Eppure, paradossalmente, 
                  è proprio l'affermazione globale e incontrastata del 
                  neoliberismo (ideologico, produttivo, massmediatico, istituzionale, 
                  neocoloniale) che genera le condizioni non tanto della fine 
                  del capitalismo (che continua ad accumulare profitti, investimenti, 
                  proprietà a scapito del tessuto sociale) ma della sua 
                  messa in crisi in termini di credenza e adesione. Nel momento 
                  in cui la prima arma di affermazione del sistema che ci ha dominato, 
                  il comodo consumismo, comincia a limitare la sua capacità 
                  di diffondere l'agognato agio, si aprono inedite prospettive 
                  per chi da sempre ha sostenuto la perversità sistemica 
                  del dominio criptico della merce e dello stato. 
                  È un'epoca in cui, se da un lato, la prospettiva di una 
                  uscita dal dominio del capitale e del sistema mercantile appare 
                  problematica come non mai, dall'altra parte, se ne stanno creando 
                  le premesse sia per la sua irrinunciabilità (è 
                  oggi in pericolo la nostra stessa esistenza come specie) sia 
                  perché le menzogne che hanno contribuito ad inibire un 
                  conflitto risolutivo appaiono, ad un numero crescente di persone 
                  per quel che sono. Il Potere riesce sempre meno ad egemonizzare 
                  il senso, ad offrire compromessi socialdemocratici, a produrre 
                  merci ammalianti e riassume, quindi, la forma del controllo 
                  e della forza bruta contro qualunque opposizione sociale. 
                  La sfida oggi è di creare un attivismo sociale che non 
                  sia teorico né di testimonianza. Ci sono le premesse 
                  sociali, il disagio e la disillusione per le verità egemoniche, 
                  che rendono le proposte radicali e anarchiche – dopo decenni 
                  di marginalità strutturale – attraenti, sensate. 
                  Come Mignard giustamente nota, non bastano più le manifestazioni. 
                  Le recenti riflessioni anarchiche sul superamento del concetto 
                  di rivoluzione appaiono quanto mai utili. Se la storia insegna 
                  che “prendere il palazzo” rischia di generare nuove 
                  gerarchie, spesso più brutali di quelle che sostituiscono, 
                  allora si tratta di cercare nuove strade per svuotare le istituzioni, 
                  evadere da prassi mercificanti, ignorare i media, interrompere 
                  processi di delega dal tessuto sociale alle istituzioni. 
                  Abbiamo delegato la nostra sovranità politica, ed oggi 
                  appare evidente a molti l'inganno epocale della nozione di democrazia, 
                  nella sua forma rappresentativa. Abbiamo delegato la stesura 
                  delle norme sociali a politicanti senza scrupolo e ci ritroviamo 
                  sovrastati da un sistema legislativo e burocratico sterminato, 
                  incomprensibile, pervasivo, impenetrabile. Abbiamo delegato 
                  la capacità tecnica a multinazionali e ora siamo umanità 
                  priva di competenze tecniche direttamente applicabili, dipendenti 
                  dai loro prodotti e servizi. Abbiamo delegato la salvaguardia 
                  dei nostri territori, con risultati drammatici per fauna, flora 
                  e per la stessa salute umana. Abbiamo delegato la produzione 
                  di alimenti, siamo praticamente costretti al cibo industriale 
                  e malsano dei supermercati. Abbiamo delegato l'educazione dei 
                  nostri figli e delle nostre figlie a istituzioni che più 
                  di formarli si preoccupano di disciplinarli. 
                  La lista delle deleghe potrebbe proseguire: ce ne sono innumerevoli. 
                  Per chi oggi sente le deleghe come una mortificazione della 
                  sua creatività, un'amputazione della sua socialità, 
                  una minaccia per la sua salute, una prevaricazione delle sue 
                  libertà, un'offesa alla sua dignità, l'uscita 
                  dai meccanismi di affidamento alle istituzioni che ci governano 
                  è problematica. L'aspettativa di un processo di riforma 
                  che parta dalle istituzioni stesse appare, oggi più che 
                  mai, illusoria: ormai i potentati costituiscono un blocco omogeneo, 
                  coordinato a livello globale che lascia scarsissimo spazio di 
                  manovra ai singoli governi. La prospettiva di una insurrezione, 
                  oltre che remota, appare con l'attuale configurazione del tessuto 
                  sociale, a forte rischio di derive neo-autoritarie: una sollevazione 
                  popolare oggi assumerebbe verosimilmente toni razzisti e l'esaltazione 
                  di leader carismatici. La strada che appare più plausibile, 
                  in questa fase storica, è una paziente trasformazione 
                  culturale che limiti le deleghe e restituisca protagonismo e 
                  sovranità al tessuto sociale. La distanza tra ciò 
                  che desideriamo e ciò che abbiamo oggi sotto gli occhi 
                  è grande; è quindi lungo il sentiero da percorrere 
                  per arrivarci. Non ci sono scorciatoie: un cambiamento culturale 
                  non si ottiene vincendo elezioni, conquistando il palazzo militarmente, 
                  fondando un nuovo partito o elaborando una nuova teoria politica. 
                  Si fa insieme e si fa nel quotidiano. Si tratta di innestare 
                  i principi libertari dove ci conducono le nostre esistenze, 
                  seminando processi autogestionari nelle imprevedibili trasformazioni 
                  che segnano le società europee in questa fase prolungata 
                  di stagnazione e recessione. 
                  Mignard arriva al suo Manifesto per una alternativa partendo 
                  dalle sue conoscenze storiche ma l'antropologia indica le medesime 
                  dinamiche: i cambiamenti epocali sono mutazioni culturali; impiegano 
                  più generazioni a concretizzarsi; generano prassi di 
                  vita nel loro insieme innovative; investono ogni ambito del 
                  vissuto. Non si tratta di produrre un Uomo Nuovo ma una nuova 
                  cultura, una nuova organizzazione della vita. Una trasformazione 
                  culturale epocale significa fortificare esistenze che si liberano 
                  dalla delega non come critica teorica ma come prassi quotidiana. 
                  È difficile immaginarsi trasformazioni radicali in grado 
                  di dissolvere le istituzioni se la società si trova a 
                  dipendere da queste per infiniti aspetti, dalla banca al supermercato, 
                  dal telefonino ai combustibili, dal salario alle pensioni, dalla 
                  farmacia alla polizia, dagli alimenti alla scuola. Pare sensato 
                  ritenere che solo una forza sociale che ha riacquistato autonomia, 
                  che si è rimpossessata della gestione di diversi aspetti 
                  della propria pratica quotidiana, possa sviluppare il desiderio 
                  e trovare l'energia per sovvertire l'attuale configurazione 
                  dei poteri. Finché sono attive, come è il caso 
                  ora, dipendenze molteplici che ci vincolano al sistema, siamo 
                  ricattabili. Finché siamo ricattabili, la lotta assumerà 
                  tendenzialmente toni riformisti: non ci si augura il collasso 
                  di un sistema senza il quale crollerebbe l'insieme dei nostri 
                  riferimenti operativi. Una delle ragioni della impotenza delle 
                  lotte contemporanee è proprio la loro fragilità 
                  in termini di indipendenza dalla mega-macchina. 
                  Per minimizzare progressivamente i processi di delega è 
                  quindi importante lavorare sulle nostre esistenze, intese come 
                  tracce, minime ma significative, deboli ma continue, che lasciamo 
                  nella storia, impronte in grado di contribuire, assieme a quelle 
                  di altri, a direzione processi sociali più ampi, a generare 
                  alternative concrete. Ogni nostro voto o assemblea, ogni conformismo 
                  o ribellione, ogni compera o dono, ogni merce o auto-produzione, 
                  sono minuti contributi all'orientamento complessivo che prende 
                  il corpo sociale. 
                  Lavorare sulla prassi ha una serie di vantaggi. Il cambiamento 
                  auspicato è sí più lontano nel tempo, rispetto 
                  ad una prospettiva rivoluzionaria, ma al contempo più 
                  accessibile a tutti e più inclusivo: non a caso l'idea 
                  di un protagonismo diffuso e variegato, costituente della nozione 
                  di rivoluzione sociale, è parte di ideali anarchici consolidati 
                  da più secoli. L'anarchia messa in pratica permette la 
                  sperimentazione, ovvero la verifica dei principi politici e 
                  morali rivendicati, nella loro concretizzazione quotidiana. 
                  La prassi, rispetto alla elaborazione astratta, richiede infiniti 
                  aggiustamenti e ricalibrature, che non sono sconfitte ma costruzioni 
                  di consapevolezza e aggiornamenti indispensabili rispetto al 
                  contesto del tutto peculiare in cui ci muoviamo oggi. 
                  L'uscita dalla delega nella quotidianità, inoltre, contribuisce 
                  a generare ibridazioni, relazioni di affinità e alleanze 
                  nel fare che sono il canale di diffusione più diretto 
                  e coerente della prassi libertaria. La diffusione dell'autogestione, 
                  come specifica Mignard, richiede non solo autonomia gestionale 
                  (anche le aziende capitalistiche sono in un certo senso autogestite) 
                  ma la distribuzione egualitaria del potere decisionale e l'accesso 
                  inclusivo agli strumenti produttivi. La strategia consiste nell'innestare 
                  modalità libertarie in tutte le esperienze che escono 
                  dal connubio ormai sempre più indistinguibile di stato 
                  e capitale, generare quella rete di solidarietà e scambi 
                  indispensabile per il funzionamento dell'autogestione. In Italia, 
                  dopo decenni di lotte difensive, scontri ideologici, faide intestine, 
                  inizia a vedersi un nuovo interesse diffuso per le pratiche 
                  libertarie. È evidente nelle modalità di organizzazione 
                  di molte delle mobilitazioni pubbliche degli ultimi anni ma 
                  anche, forse soprattutto, come ricerca di uscita dalle deleghe 
                  portata avanti da gruppi e singoli che non vengono, per lo più, 
                  da una formazione teorica e intellettuale anarchica. Ogni stretta 
                  antisociale dei poteri allineati di stato e capitale, impegnati 
                  nel taglio ai servizi pubblici e nell'aumento di tasse, norme 
                  e burocrazia, produce risposte autogestite, per ora incipienti 
                  e fragili ma con notevoli prospettive di attrazione di settori 
                  sociali. È il caso di accennare ad un paio di fermenti 
                  che il tessuto sociale italiano ha cominciato ad esprimere in 
                  modo significativo: la filiera alimentare e le proposte in ambito 
                  educativo. 
                  Per quanto riguarda la circolazione di cibo al di fuori della 
                  mercificazione egemonica (industria agroalimentare-supermercato), 
                  a partire dal nuovo millennio si sono moltiplicati esponenzialmente 
                  i Gruppi di Acquisto Solidale (GAS). Sono costituiti da gruppi 
                  di consumatori che entrano in un rapporto con piccoli produttori 
                  e, nelle loro espressioni più coerenti e convincenti, 
                  ri-localizzano la filiera produttori-consumatori, saltando tutti 
                  i mediatori della distribuzione mercificata; intendono la tracciabilità 
                  non come etichetta ma come rapporti di fiducia tra persone che 
                  si conoscono; inventano propri processi di certificazione dei 
                  beni; coniugano il rapporto commerciale con criteri solidali 
                  ed ecologici. In alcuni casi consentono la circolazione di prodotti 
                  di contadini, allevatori, pastori, apicoltori, raccoglitori 
                  di frutta che producono al di fuori delle normative statali 
                  e dei requisiti fiscali, permettendo forme di autogestione rurale 
                  illegale. La forma più coerente e radicale di questo 
                  movimento che salda ruralità solidale e classi medie 
                  urbane è Genuino Clandestino e Terra Bene Comune, movimenti 
                  in rapida espansione. 
                  Federano informalmente gruppi locali che scelgono di sottrarsi 
                  dalle imposizione burocratiche, dalle regolamentazioni insensate, 
                  dal gioco fiscale generando, oltre ad una partecipata rete nazionale, 
                  una autocertificazione che rivendica la clandestinità 
                  dei prodotti, proprio come premessa indispensabile della loro 
                  genuinità. Una conseguenza di questa nuova ondata di 
                  attivismo contadino è il superamento della legislazione 
                  astratta e insensata del biologico, un movimento che era nato 
                  dal tessuto sociale ma ormai completamente legalizzato, istituzionalizzato 
                  e mercificato. Si scegli di insediare mercatini e proporre pranzi 
                  e cene sociali nelle piazze delle metropoli così come 
                  in piccoli paesi. Se alcuni GAS iniziano ad essere cooptati 
                  dalle istituzioni che propongono leggi e facilitazioni, dall'altra 
                  altri non rinunciano a forme integrali di autogestione. Queste 
                  modalità di ripensare il nesso tra produttori rurali 
                  e acquirenti cittadini sono interessanti perché nascono 
                  spontaneamente dal tessuto sociale; perché i gruppi sono 
                  autonomi, privi di una direzione centralizzata; perché 
                  generano relazioni nel rispondere ad esigenze concrete; perché 
                  si fondano sull'idea della responsabilità piuttosto che 
                  della delega; perché funzionano. 
                  L'altro ambito in cui si stanno rafforzando dinamiche interessanti 
                  è l'uscita dalla istituzione scolastica. La qualità 
                  della istruzione pubblica, nonostante l'impegno e la dedizione 
                  di tanti insegnanti, è in caduta libera in seguito al 
                  taglio dei finanziamenti pubblici, a programmi scolastici sempre 
                  più competitivi (fin dalle elementari) e all'aumento 
                  della burocrazia ministeriale (ad esempio, le prove Invalsi). 
                  È stata mortificata l'offerta alimentare (in seguito 
                  alla chiusura di molte mense scolastiche), aumentato sensibilmente 
                  il numero di bambini sotto la responsabilità di una singola 
                  maestra, introdotto un uso (a volte massiccio) della televisione, 
                  minimizzate le ore di gioco all'aperto e le attività 
                  creative. La pervasiva paranoia legale ha raggiunto livelli 
                  tali da impedire di portare torte fatte a casa a scuola per 
                  festeggiare i compleanni. In questo contesto, si sviluppa un'uscita 
                  sempre più cospicua dalla istruzione pubblica (la cui 
                  attrattiva principale per molti utenti non è più 
                  la qualità ma i costi contenuti) verso percorsi formativi 
                  emancipati dai finanziamenti pubblici e quindi anche dalle direttive 
                  e limitazioni statali. 
                  Con diverse ispirazioni (scuola familiare, libertaria, Steineriana, 
                  Montessori) si creano piccole comunità di insegnanti-genitori-alunni 
                  libere di elaborare e sperimentare un proprio percorso formativo 
                  non fondato sulla delega ma sulla partecipazione. In genere 
                  sono esperienze che stabiliscono un rapporto tra docenti e studenti 
                  che permette un'attenzione personalizzata e previene la massificazione. 
                  I programmi sono creativi, variegati e improntati alla sperimentazione 
                  diretta in chiaro contrasto con la rigidità, monotonia 
                  e autoritarismo della didattica pubblica. La formazione prevede, 
                  soprattutto per i più piccoli, numerose ore all'aria 
                  aperta. Si cercano interazioni con le competenze sociali e artistiche 
                  presenti nel territorio circostante. Si valorizza l'irriducibile 
                  singolarità dei bambini. Si torna a cucinare autonomamente, 
                  a volte con alimenti forniti dai genitori. Insomma, tutta un'altra 
                  scuola fondata sul rifiuto della delega e sulla costruzione 
                  dal basso di alternative operative. 
                  La pratica di ciò che si desidera spesso assume carattere 
                  sistemico nel senso che la ricerca di modalità che travalichino 
                  la delega, implicita nell'offerta egemonica che pare ormai unica 
                  opzione possibile, riguarda diversi campi. Questo rifiuto complessivo 
                  del cammino già tracciato per noi, costituisce esistenze 
                  singolari e collettive che effettivamente riescono a evadere, 
                  in parte contenuta ma non irrisoria, processi di delega che 
                  a molti appaiono indispensabili. L'alternativa intesa come prassi, 
                  inoltre, ha la grande potenzialità di essere un canale 
                  di costruzione di affinità politica che non richiede 
                  adesioni ideologiche e quindi rafforza una disponibilità 
                  ad accogliere e includere soggettività variegate che 
                  raramente le iniziative più teoriche raccolgono. È 
                  una politica che non può essere accusata di essere solamente 
                  “contro” il sistema: ciò che rivendica, è 
                  ciò che porta avanti nella prassi quotidiana. L'alternativa 
                  è già presente, efficiente e funzionante e i principi 
                  libertari su cui si basa risultano evidenti nell'azione. È 
                  una modalità di trasformazione sistemica che risulta 
                  accessibile a settori insospettabili del corpo sociale, perché 
                  intesa come impegno a costruire praticamente alternative che 
                  siano portatrici di nuovi principi e, per la loro stessa esistenza, 
                  sabotatrici della modalità egemonica. 
                  L'auspicio di Mignard è che questo testo sia un contributo 
                  ad un processo di trasformazione epocale. Me lo auguro anch'io. 
                  Si tratta di smettere di delegare anche i sogni di trasformazione 
                  ma portarli avanti nella nostra quotidianità. Non c'è 
                  progetto più ambizioso, non c'è progetto più 
                  accessibile di quello che vede il conflitto politico iscritto 
                  nelle nostre stesse esistenze. 
                 Stefano Boni 
                     Uranio impoverito 
                  a teatro 
                Le storture della guerra si sono spinte, in anni recenti, fino 
                  al nostro sistema linguistico: chiamare bombardamenti, soprusi 
                  e morti con termini quali missioni di pace, missioni internazionali 
                  o missioni umanitarie, oltre a essere un fallace toccasana per 
                  la coscienza, mostra una grande padronanza nell'uso delle figure 
                  retoriche, le quali però, quando non sono usate a fini 
                  letterari o poetici, propongono solo una visione deformata e 
                  pericolosa della realtà. 
                  Miles gloriosus... ovvero: morire d'uranio impoverito 
                  di Antonello Taurino prende spunto proprio dalle “missioni 
                  di pace” degli anni '90 in Kosovo e Bosnia per indagare 
                  un lascito della guerra che torna a casa con i reduci per poi 
                  colpirli, una volta dispersi nello spazio e nel tempo: la morte 
                  per uranio impoverito. Una microstoria lontana dai riflettori 
                  perché orfana dei crismi che servono a un evento per 
                  farsi mediatico e quindi guadagnarsi la ribalta del grande pubblico: 
                  l'immediatezza e la violenza. Ma anche le morti per uranio impoverito 
                  se non fosse stato per Striscia la Notizia, ribattezzata TAR: 
                  Tribunale Antonio Ricci, non avrebbero mai goduto di alcuna 
                  attenzione: uno spaccato che fa riflettere sui modi di condurre 
                  le narrazioni più scomode in Italia e sulle modalità 
                  di ricezione dell'opinione pubblica: pigre e ormai inermi di 
                  fronte a qualsiasi cosa. 
                  In scena, Taurino e Orazio Attanasio, che cura anche le musiche, 
                  sono due giovinastri sospesi tra la necessità di sbarcare 
                  il lunario e la voglia di fare uno spettacolo impegnato e utile. 
                  I nostri, nel destreggiarsi tra un'offerta di lavoro in nero 
                  e il pigliatutto Marco Paolini, che non ha lasciato più 
                  nessun argomento d'inchiesta libero da trattare, ma nei cui 
                  confronti si percepisce un omaggio, menano fendenti verso il 
                  pubblico snocciolando numeri, lettere anonime, documenti e imbarazzi 
                  del governo italiano. I pugni sono ricoperti dal dolce guanto 
                  del sorriso; gli spettatori sembrano poter reggere l'urto, ma 
                  alla fine sono rintronati e con una maggiore consapevolezza 
                  e indignazione rispetto a quando erano entrati in sala. 
                  Se la leggerezza dell'uranio impoverito è insostenibile 
                  perché uccide, la leggerezza di una divulgazione puntuale, 
                  comprensibile e non pedante sostiene la nostra capacità 
                  di discernere e pensare. 
                 Matteo Pedrazzini 
                     Le donne della resistenza 
                  nel Piacentino 
                È uscito per le edizioni Le Piccole Pagine il libro 
                  di Iara Meloni Memorie resistenti. Le donne raccontano 
                  la resistenza nel piacentino (edizioni Le Piccole Pagine, 
                  Calendasio - Pc, 2014, pp. 235, € 18,00) di cui 
                  pubblichiamo la prefazione di Daniella Gagliani. 
                   
                   Questo 
                  è un libro che parla della Resistenza, ma è un 
                  libro che parla anche delle resistenze successive al 1945 messe 
                  in campo – si può dire – nello spirito della 
                  Resistenza. 
                  La mia osservazione dovrebbe essere conclusiva e, invece, con 
                  essa ho preferito aprire questa nota per evidenziare da subito 
                  l'importanza del lavoro di Iara Meloni. 
                  Centrale è la Resistenza, quella del 1943-1945, contro 
                  il nazifascismo e nel libro se ne parla dalla prospettiva delle 
                  donne, una prospettiva che, non solo ridà corpo e voce 
                  a soggetti per lungo tempo dimenticati o trascurati, quelli 
                  femminili appunto, ma consente anche di rivisitare la Resistenza 
                  – la Resistenza tout court – e di leggerla 
                  come un «evento», insieme normale ed eccezionale, 
                  che ebbe per protagonisti uomini e donne comuni, i quali seppero 
                  opporsi a un potere che praticava ed esaltava l'odio, la discriminazione, 
                  la sopraffazione, la guerra. Perché il fascismo, anche 
                  quello italiano, non dimentichiamolo, aveva fatto dell'odio, 
                  della discriminazione, della sopraffazione, della guerra un 
                  proprio fondamento etico. Opporsi al fascismo significava dunque 
                  opporsi all'odio, alla discriminazione, alla sopraffazione, 
                  alla guerra che, negli anni 1943-1945, si inscrivevano nella 
                  guerra totale e si sostanziavano nella distruzione di uomini 
                  e di cose, e in una crescente brutalizzazione umana. Resistere 
                  significava aprire la strada a un mondo ri-umanizzato di pace 
                  e di ricostruzione solidale e, per molti uomini e donne, anche 
                  di liberi ed eguali. 
                  La prospettiva femminile mostra che la Resistenza fu essenzialmente 
                  un fenomeno politico prima che militare, come Lidia Menapace 
                  e Marisa Ombra hanno da tempo sottolineato. Ridurre la Resistenza 
                  a fenomeno militare ha comportato e comporta una sua sottovalutazione 
                  e, perfino, una mistificazione, perché per la maggior 
                  parte dei resistenti, uomini compresi, la Resistenza fu una 
                  «guerra alla guerra», anche se paradossalmente combattuta 
                  con le armi. Il fascismo era il regno della guerra, non la Resistenza 
                  che gli si opponeva. Non sarebbe altresì comprensibile 
                  l'art. 11 della nostra Costituzione che recita: «L'Italia 
                  ripudia la guerra». 
                  Che per alcuni decenni l'immagine della Resistenza sia stata 
                  identificata con il partigiano in armi deve farci riflettere. 
                  È un fatto che meriterebbe un'analisi particolare, specialmente 
                  per comprendere come un grande fenomeno politico e sociale abbia 
                  potuto essere circoscritto e limitato a un suo aspetto, non 
                  irrilevante, intendiamoci, ma comunque non costitutivo. Le armi 
                  nella Resistenza rappresentarono uno strumento per concludere 
                  al più presto la guerra, non un fine in sé. Al 
                  cuore della Resistenza c'era la volontà di chiudere con 
                  la guerra e con il regno della guerra, emblemi del fascismo. 
                  E in questo consiste il carattere essenzialmente politico della 
                  Resistenza e, insieme, il suo tratto periodizzante nella storia 
                  d'Italia (e, se vogliamo, anche d'Europa). 
                  Giustamente Iara Meloni ha indicato, come centrale per esprimere 
                  la Resistenza delle donne, la «Resistenza civile», 
                  che, grazie agli studi di Anna Bravo, fa ora parte del nostro 
                  corredo storiografico come categoria di grande spessore. Le 
                  donne di cui Iara Meloni ha raccolto la testimonianza sono, 
                  con specificità diverse, con consapevolezze diverse, 
                  con impegno diverso, tutte inseribili nella Resistenza civile. 
                  E sono tutte resistenti, perché con le forze che avevano 
                  a disposizione hanno dato quanto potevano per chiudere con la 
                  guerra e con il regno della guerra. Senza di loro la Resistenza 
                  sarebbe stata un'altra cosa, forse non ci sarebbe nemmeno stata. 
                  Il loro sguardo su se stesse e sul contesto di quei mesi mette 
                  in luce aspetti che lo sguardo puntato sulle formazioni armate 
                  e le loro azioni non riusciva a mettere in luce. Sono aspetti 
                  che ci introducono a considerare gli eventi in una prospettiva 
                  non eroica, antieroica anzi, in quanto le donne parlano di sé 
                  e anche degli altri come persone normali, non eccezionali. Persone 
                  normali inserite in un contesto eccezionale. Ed è proprio 
                  la «normalità» a consentire di stabilire 
                  un legame con noi oggi, noi di generazioni diverse, ma tutti 
                  «normali», sia che siamo uomini sia che siamo donne, 
                  di sessanta, quaranta, venti e perfino quindici anni. 
                  Lo sguardo femminile, che in epoca di ideologismi poteva essere 
                  giudicato come insignificante (mentre noi sappiamo che non lo 
                  è), non indugia sulle entità astratte, si concentra 
                  sui corpi e riesce pertanto a distinguere le differenze e le 
                  similitudini, sapendo afferrare le peculiarità di ognuno 
                  e rilevarne anche le debolezze, le sofferenze, le paure perché 
                  sono condizioni proprie dell'essere umano. Da qui il loro parlare 
                  di sé e degli altri come esseri umani; da qui la possibilità 
                  di stabilire relazioni con noi, di generazioni diverse, ma sempre 
                  esseri umani. Direi che è la condizione umana a diventare 
                  centrale nel racconto. 
                  Purtroppo, a distanza di settant'anni, molte delle protagoniste 
                  sono morte e alcune non sono più in grado di trasmettere 
                  la loro testimonianza. Non è più possibile scrivere 
                  una storia orale della Resistenza femminile nelle sue più 
                  varie articolazioni. Ma è importante che delle superstiti 
                  si sia voluto raccogliere la testimonianza, perché in 
                  una storia corale quale fu quella della Resistenza è 
                  attraverso le diverse storie di vita – e i tanti episodi 
                  particolari che ognuna può narrare – che possono 
                  emergere la ricchezza, la complessità e anche la semplicità 
                  di quel movimento e, insieme, i suoi momenti di forza e quelli 
                  di debolezza, le difficoltà, anche le tragedie, accanto 
                  al coraggio morale per farvi fronte. Resistere significò 
                  anche capacità di continuare a resistere e, dunque, 
                  richiese tenacia, fermezza, perseveranza al fine di non subire 
                  l'oppressione e di uscire da quel tunnel di morte per vedere 
                  finalmente la luce in un mondo rinnovato. 
                  Prezioso è dunque il lavoro di Iara Meloni, che con grande 
                  sensibilità riesce a restituirci uno spaccato della Resistenza 
                  facendo parlare le protagoniste, inserendole nel contesto di 
                  quei mesi e al contempo ricostruendo un nuovo e più articolato 
                  contesto sia riguardo alla stessa Resistenza sia al periodo 
                  più generale che quelle vite hanno attraversato. Così 
                  si aprono squarci anche sulla società fascista, sul dopoguerra 
                  e sui decenni successivi fino a oggi. 
                  La storia delle donne della Resistenza è una storia di 
                  rimozioni e di silenzi, ma è anche una storia di ripresa 
                  della parola, davanti a una nuova generazione che vuole sapere 
                  e ha capacità di ascolto. 
                  Ero partita con l'osservazione che questo libro parla della 
                  Resistenza del 1943-1945 ma parla anche delle resistenze successive 
                  al 1945. Se a metà degli anni Sessanta si assiste a un 
                  tentativo di valorizzare l'esperienza femminile nella Resistenza, 
                  è solo un decennio dopo che quell'esperienza viene rivendicata 
                  addossando la responsabilità del silenzio sulle donne 
                  ai loro stessi compagni, che le avevano rese irrilevanti ponendo 
                  se stessi sul proscenio. Significativamente si intitolava La 
                  Resistenza taciuta il libro curato da Anna Maria Bruzzone 
                  e Rachele Farina che raccoglieva dodici testimonianze di partigiane 
                  piemontesi (e che uscì nel 1976). 
                  Ora, nel nuovo secolo, le donne della Resistenza non sono più 
                  avvolte dal silenzio, ci dice Iara Meloni. Anche in provincia 
                  di Piacenza, territorio ad «alta densità partigiana» 
                  ma che non aveva conosciuto uno sviluppo di analisi sulla presenza 
                  femminile, sono stati avviati e portati a termine negli anni 
                  Duemila progetti di ricerca, di didattica e di divulgazione 
                  centrati sull'argomento. Un'operazione culturale di grande rilevanza, 
                  che ha consentito il riannodarsi del filo tra le generazioni. 
                  La retorica della Resistenza, da un lato, la delegittimazione 
                  della Resistenza in atto dagli anni Ottanta, dall'altro, stavano 
                  congiurando a rendere trascurabile quel movimento, a espungerlo 
                  dalla nostra storia. Le resistenze dei resistenti e delle resistenti 
                  e soprattutto le resistenze di chi è nato e nata dopo 
                  hanno consentito che il significato della Resistenza non andasse 
                  perduto: fili più esili agli inizi, fili più robusti 
                  successivamente, grazie a quell'«educazione alla memoria» 
                  che congiunge le generazioni, instaura nuovi legami comunitari 
                  e permette una nuova prospettiva sul mondo, mentre risarcisce 
                  le donne della Resistenza sottraendole al silenzio e alla solitudine 
                  che le avevano attorniate per tanti e tanti anni, e rendendole 
                  altresì consapevoli del valore del loro ruolo nel 1943-1945. 
                  Anche di questo parla questo libro, un libro ricco, complesso, 
                  importante che, per di più, costituisce un tassello, 
                  e non piccolo, di quell'educazione alla memoria che si inscrive 
                  nella cultura della Resistenza. 
                  C'è da apprendere, c'è da riflettere. Specialmente 
                  sul domani, quando non ci saranno più i protagonisti 
                  a testimoniare. 
                  Il libro di Iara Meloni offre un contributo anche in questa 
                  direzione. 
                 Daniella Gagliani 
                      Scivolamento 
                  sociale
                   verso gli inferi 
                Presentato a Napoli, Let's go (Mariposa Cinematografica, 
                  2014, 55 min.) è, in ordine di tempo, l'ultimo docu-ritratto 
                  della regista Antonietta De Lillo e racconta la caduta agli 
                  inferi di un esodato speciale: il fotografo e regista Luca Musella. 
                  “Se fossi rimasto borghese mi sarei suicidato”. 
                  Le parole del fotoreporter Musella nel docu-ritratto di Antonietta 
                  De Lillo sono quasi il testamento di come una vita possa andare 
                  in rovina e ritrovare (nella stessa rovina) un'ancora di salvataggio. 
                  Musella, attraverso la diretta testimonianza e un suo testo-lettera 
                  (ma la voce è dell'attore Roberto Di Francesco), affronta 
                  un viaggio dalla sua Napoli a Milano, città dove attualmente 
                  vive, narrando come da fotoreporter di successo (ha lavorato 
                  per L'espresso, Agenzia Grazia Neri, Contrasto) e scrittore 
                  e regista stimato (è suo un bel documentario di qualche 
                  anno fa su Giorgio Bocca) sia passato ad una condizione di assoluta 
                  precarietà. La sua è la parabola di un “esodato 
                  professionalmente ed emotivamente” che ha perso tutto, 
                  ma non certamente la dignità e la tenacia per provare 
                  la risalita. Una storia di solitudine e disagio dove Musella 
                  è portavoce di una condizione che non appartiene solo 
                  a lui, ma che affligge tanta umanità di ogni parte del 
                  mondo. Presentato al Cinema Astra di Napoli (dopo l'anteprima 
                  all'ultimo Festival di Torino), Let's go è uno 
                  di quei docu-ritratti con cui Antonietta De Lillo - come dimostrano 
                  anche i suoi due precedenti lavori sulla poetessa Alda Merini 
                  - è diventata una vera esperta del genere: la sua macchina 
                  da presa avvicina una persona e la lascia libera di raccontarsi 
                  senza interferenze anche per scoprire una linea oltre confine. 
                  Infatti, il lavoro della De Lillo nasce sì per narrare 
                  lo scivolamento sociale di Luca Musella, ma pure per mettere 
                  allo scoperto un lato debole della società: l'incapacità 
                  della collettività a sostenere chi si trova a vivere 
                  in uno stato di disagio. Prodotto da Marechiarofilm insieme 
                  a Rai Cinema, musicato da Daniele Sepe e fotografato da Giovanni 
                  Piperno, Let's go è uno sguardo per nulla indiscreto 
                  in un dramma personale che, sorprendendo, lascia sulla sua scia 
                  semi di commovente fiducia. 
                 Mimmo Mastrangelo 
                     Fatta l'Italia, 
                  schediamo gli italiani 
                 Il 
                  libro di Andrea Dilemmi, Schedare gli italiani. Polizia e 
                  sorveglianza del dissenso politico: Verona 1894-1963 (Cierre, 
                  Sommacampagna – Vr, 2013, pp. 560, € 24,00) prende 
                  in esame i documenti prodotti dalla polizia per sorvegliare 
                  gli oppositori politici da fine Ottocento ai primi anni Sessanta 
                  del Novecento, e li utilizza come fonte per studiare non gli 
                  oppositori ma gli apparati di controllo. Il Casellario politico 
                  centrale, istituito presso il Ministero degli Interni da Crispi 
                  nel 1894 arriva ai primi anni Sessanta, ma nello stesso arco 
                  di tempo ogni questura italiana ebbe il proprio casellario provinciale: 
                  Dilemmi prende in esame quello di Verona. La serie archivistica 
                  oggetto della ricerca è formata dai fascicoli degli individui 
                  “radiati” (cioè di quelli per cui si disponeva 
                  la fine della sorveglianza), e quindi è il risultato 
                  di uno scarto effettuato verso la fine del funzionamento dello 
                  schedario stesso: tuttavia, con le avvertenze di cui l'autore 
                  è consapevole, è sufficientemente ampio e rappresentativo 
                  per un'analisi della sorveglianza politica esercitata dalla 
                  polizia. 
                  La prima figura di poliziotto che viene presentato è 
                  Ernesto Carusi, che a poco meno di trent'anni arrivò 
                  nel 1888 da Salerno a Verona, dove rimase fino a quando diventò 
                  questore, proprio agli inizi del regime fascista. La sua “capacità 
                  di dialogare con gli esponenti socialisti e con i responsabili 
                  del sindacato, di promuovere mediazioni, di prevenire e depotenziare 
                  le tensioni senza dover necessariamente fare uso della forza” 
                  (pp. 109-110) ne fa un modello di “poliziotto giolittiano”, 
                  in sintonia cioè con le direttive del sistema di governo 
                  di allora in tema di gestione dell'ordine pubblico. Il clima 
                  del primo dopoguerra, segnato dalla violenza fascista e da conflitti 
                  sociali molto aspri, mette fuori gioco ogni tentativo di mediazione, 
                  tanto che nell'estate 1922 Carusi chiede un congedo per malattia, 
                  per andare in pensione pochi mesi dopo, quando a Roma si è 
                  instaurato il nuovo governo Mussolini. 
                  La seconda figura è il commissario politico Primo Palazzi, 
                  di Narni, che arriva a Verona nel 1926 all'età di quarantaquattro 
                  anni. Esempio di poliziotto fascista (anche in questo caso, 
                  non tanto per le sue convinzioni personali quanto per il modo 
                  di agire in sintonia con il clima dittatoriale e le direttive 
                  del regime), Palazzi comincia con il dirigere la squadra politica 
                  della Questura, mettendo in piedi una rete di confidenti e fiduciari 
                  e adoperandosi a scoprire associazioni di oppositori politici 
                  (a volte fabbricando prove o esagerando l'importanza delle scoperte). 
                  Esempio di “cacciatore di antifascisti” (p. 186), 
                  dopo la caduta del regime il 25 luglio 1943 Palazzi chiede un 
                  periodo di riposo presentando una prescrizione del suo medico: 
                  una prassi non nuova per i funzionari di polizia, come abbiamo 
                  visto per Carusi, nei periodi di forte instabilità politica. 
                  Grazie all'assenza dalla scena nel periodo della RSI, Palazzi 
                  ritorna in servizio dopo la Liberazione, diventando questore 
                  di prima classe nel 1946 (con la Repubblica), per andare in 
                  pensione l'anno dopo, suscitando il “vivo rincrescimento” 
                  di DC, PSI e PCI per la cessazione dal servizio di un uomo di 
                  “elevato senso del dovere” (p. 212). 
                  A Liberazione avvenuta si forma per un breve periodo, anche 
                  a Verona, un corpo speciale di polizia formato da ex partigiani, 
                  mentre viene costituita una Corte di Assise straordinaria per 
                  individuare e perseguire i fascisti colpevoli di crimini. In 
                  questo periodo, tra il 1945 e il 1947, quasi tutti i nuovi fascicoli 
                  aperti nel casellario politico riguardano fascisti, “caso 
                  unico nella storia del dispositivo” (p. 268). Ma questa 
                  fase si esaurisce già nei primi mesi del 1946, per chiudersi 
                  in seguito all'amnistia concessa da Togliatti, allora ministro, 
                  nel giugno di quell'anno. Nel frattempo il personale di polizia 
                  rimane invariato: “Sciolta la polizia partigiana, viene 
                  riattivata la tradizionale catena di comando e si modificano 
                  nuovamente gli obiettivi della sorveglianza” (p. 270). 
                  Dopo aver ripercorso le vicende in ordine cronologico, il libro 
                  analizza nella seconda parte “il dispositivo della sorveglianza 
                  [...] nei suoi diversi aspetti” (p. 273): uffici, struttura, 
                  organici, attività e competenze della questura di Verona. 
                  Risulta così che i due terzi dei fascicoli vengono aperti 
                  durante il ventennio fascista, con un picco nel 1925, anno “spartiacque 
                  tra una sorveglianza individualizzata ed episodica e una, invece, 
                  sistematica e costante” (p. 310). L'altro picco numerico 
                  di apertura dei fascicoli si registra nel 1945, questa volta 
                  a carico di fascisti, ma, come si è detto, il fenomeno 
                  si esaurisce subito. I fascicoli durano in media ciascuno 25 
                  anni: in pratica seguono l'individuo fino ai 45-50 anni, ma 
                  in alcuni casi di più (pp. 313-314). A iniziare la sorveglianza 
                  sono gli apparati dello Stato: questure, stazioni di carabinieri, 
                  comandi militari, uffici addetti alla censura postale (l'intercettazione 
                  delle lettere durante il fascismo è “uno strumento 
                  quotidiano”, p. 344); durante il fascismo si aggiungono, 
                  oltre alle articolazioni del partito fascista, anche singoli 
                  cittadini, all'opera soprattutto nei luoghi di lavoro e del 
                  tempo libero, quando la delazione, a volte per rancori o vendette 
                  personali, diventa “uno strumento cardine di controllo 
                  sociale” (p. 503). Da una sorveglianza “circoscritta 
                  a un numero relativamente ristretto di soggetti ritenuti e pericolosi” 
                  all'inizio del Novecento, si passa così, con il fascismo, 
                  a una sorveglianza che riguarda “tendenzialmente, l'intera 
                  società” (p. 394). All'interno di queste pratiche 
                  di controllo totale dell'intero corpo sociale, Dilemmi ricorda 
                  che fu il regime fascista, nel 1926, a rendere obbligatoria 
                  la carta d'identità per le persone sospette e pericolose, 
                  e a estendere poi l'obbligo a tutti con il Testo unico di pubblica 
                  sicurezza nel 1931 (p. 357). 
                  La terza parte del libro riguarda i sorvegliati. Sono quasi 
                  tutti uomini: secondo la polizia, “le donne non solo non 
                  si occupano di politica, ma non sono nemmeno in grado di farlo” 
                  (p. 398). Quanto alle idee politiche, fino al 1924 i sorvegliati 
                  sono anarchici e in misura minore socialisti; dal 1925 sono 
                  soprattutto comunisti (”comunista” diventa “quasi 
                  sinonimo di sovversivo”, p. 489), che nei primi decenni 
                  dell'Italia repubblicana costituiscono il gruppo più 
                  sorvegliato. 
                  Merito del libro è di confermare, grazie a un'indagine 
                  minuziosa, la continuità degli apparati statali e delle 
                  pratiche di controllo di polizia in Italia dall'Unità 
                  alla Repubblica. Altra continuità, questa volta di lunga 
                  durata, si può cogliere nel permanere di alcuni caratteri 
                  del profilo del “sovversivo”: la polizia continua 
                  infatti ad andare a caccia del vecchio “untore”, 
                  che però a differenza di quello seicentesco diffonde 
                  nella società non più il germe della peste ma 
                  quello della protesta e della ribellione (p. 533). La polizia 
                  politica inoltre – e questo emerge bene nel libro – 
                  mantiene un residuo del vecchio ruolo di mediazione volto a 
                  disciplinare la società, grazie alla segretezza del suo 
                  comportamento (che i documenti non registrano, al pari della 
                  violenza esercitata, che si può solo intuire). Anche 
                  in un “contesto tendenzialmente totalitario” la 
                  polizia può infatti offrire al sovversivo “una 
                  riconciliazione con lo Stato, a condizione che abbandoni ogni 
                  velleità di dissenso e abbracci, pubblicamente, la causa 
                  fascista” (p. 504), e più in generale, si capisce, 
                  il comportamento di buon cittadino. Tutto questo è riassunto 
                  con efficacia nel titolo del libro Schedare gli italiani, 
                  che suggerisce una nuova versione del celebre detto risorgimentale: 
                  “Fatta l'Italia, bisogna schedare gli italiani”. 
                 Piero Brunello 
                     Non un eroe, 
                  ma un essere umano 
                 Leggendo 
                  il Libro di Olga Focherini Questo ascensore è vietato 
                  agli ebrei (Edizioni Dehoniane, Bologna, 2015, pp. 144, 
                  € 12,00) in cui racconta la breve e tragica vita del padre 
                  Odoardo, che si adoperò con tutte le forze per salvare 
                  ebrei nel periodo della repubblica di Salò e dell'occupazione 
                  nazista del nostro paese, ho compreso che Odoardo, che talora 
                  nelle lettere dalla prigionia si firmava Odo, era un uomo normale, 
                  non un eroe, non un eletto, ma un uomo innamorato della moglie 
                  e che adorava i suoi figli. Odoardo trovò normale rischiare 
                  la propria vita e accettare il martirio fino alla morte che 
                  gli derivò dall'impegno, dall'attivismo, testimoniando 
                  che l'urgenza di tendere la mano al più debole, all'oppresso, 
                  in sostanza, al prossimo perseguitato, non insorge da uno stato 
                  di eccezionalità, ma piuttosto da un impulso di insopprimibile 
                  umanità. 
                  Olga Focherini, figlia di Odo e madre del curatore del testo, 
                  Odoardo Semellini, spinta dalla forza della verità, si 
                  è resa depositaria dell'epistolario del padre, per guidarci 
                  nella vicenda emblematica e nella storia di un uomo come tanti, 
                  non un eroe, non un eletto, ma un giusto che deve trovare un 
                  posto nella memoria di tutti noi. Nel libro si narra la storia 
                  di un uomo arrestato e deportato, con l'unica colpa di aver 
                  posto in salvo oltre un centinaio di perseguitati ebrei. Una 
                  storia con un finale terribile, raccontato per anni dalla figlia 
                  Olga che, vittima e testimone giovanissima, conserva ancora 
                  una memoria vivissima di quel periodo, testimoniando nelle scuole 
                  e ovunque venga richiesta ricostruzione della memoria storica, 
                  superando così una difficoltosa e traumatica elaborazione 
                  del lutto paterno. 
                  Della storia di suo padre, Olga lascia traccia in diversi documenti, 
                  opportunamente trascritti e quindi adattati per il presente 
                  volume, tutti custoditi nell'Archivio della Memoria di Odoardo 
                  Focherini. 
                  Nella trascrizione delle lettere clandestine, Olga scopre che 
                  suo padre è un uomo normale, come tutti, che si lascia 
                  andare, che sta male, che piange, che è combattuto tra 
                  le speranze del ritorno e il timore di non rivedere mai più 
                  i propri cari. Così la figlia Olga recupera l'immagine 
                  vera e reale del padre, come lo ricorda nella sua infanzia: 
                  un uomo giusto, sia per l'aiuto dato agli ebrei perseguitati, 
                  sia per quello che è stato come genitore. Odoardo Focherini, 
                  negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, faceva parte 
                  di una rete clandestina di soccorso in provincia di Modena, 
                  per aiutare gli ebrei perseguitati dal nazifascismo, insieme 
                  ad altri uomini di diversa appartenenza politica e fede religiosa, 
                  che non esitarono a sacrificare la propria vita per salvare 
                  centinaia di persone, altrimenti destinate alla morte nei campi 
                  di concentramento e di sterminio nazifascisti. 
                  Odoardo Focherini (1907-1944) era un giornalista cattolico e 
                  padre di sette figli. Venne arrestato, deportato e trovò 
                  la morte nel campo di lavoro di Hersbruck. Viene raccontato, 
                  in questo libro, dalla figlia primogenita Olga, che dagli anni 
                  '70, ha svolto un'intensa attività di divulgazione nelle 
                  scuole sui temi della deportazione e della Resistenza, dando 
                  così vita all'Archivio della Memoria di Odoardo Focherini. 
                  Nella prefazione al testo, Moni Ovadia ricorda e rievoca la 
                  memoria di padre David Maria Turoldo, sacerdote cattolico, partigiano 
                  e poeta, che custodiva le lettere dei condannati a morte della 
                  Resistenza italiana e europea. Ed è proprio con queste 
                  lettere, testimonianza di resistenza e deportazione, che Moni 
                  Ovadia richiama un importante parallelismo con l'ingente epistolario 
                  di Focherini, un grande patrimonio storico di documenti, scritti, 
                  lettere, che tutti noi dobbiamo tenere presente sempre, nel 
                  corso della vita e in ogni momento che scandisce i nostri giorni 
                  di lotta per la pace, per un mondo più giusto, libero 
                  e vero, nella testimonianza antifascista e nell'impegno sociale 
                  e civile, tramite la forza della verità, per la memoria 
                  storica... per non dimenticare. 
                 Laura Tussi 
                    Zolfatari e contadini/ 
                  Due sguardi sulla Sicilia dei primi del '900 
                 Due 
                  narrazioni molto diverse, una letteraria, l'altra fotografica, 
                  “leggono” con mirabile acume, la medesima realtà: 
                  quella della provincia di Enna della prima metà del secolo 
                  scorso. Nella Sicilia degli anni cinquanta, nel suo ombelico 
                  e centro geografico, nelle terre dell'ennese o meglio nel sottosuolo 
                  profondo e buio delle sue miniere di zolfo, prende corpo la 
                  storia che racconta Davide Orecchio nel suo Stati di grazia 
                  (Il saggiatore, Milano, 2014, pp. 320, €16,00), un romanzo 
                  bello e impegnativo, dal contenuto forte e dalla scrittura incisiva 
                  e originale, perché - si dice bene nel risvolto di copertina 
                  - è “lucida e meravigliata, ipnotica e visionaria, 
                  innervata di continui cambiamenti di ritmo, pause riflessive 
                  e accelerazioni vertiginose”. Unendo sapientemente il 
                  metodo dello storico e del detective, con il talento e la tecnica 
                  del bravo narratore, Orecchio racconta la vita agra di un maestro 
                  elementare di Enna che precipita verso una desolata e amara 
                  cupezza, quando apprende della tragica sorte capitata ad un 
                  suo alunno, costretto dalla miseria e dalla fame a lasciare 
                  lo studio (verso cui è avvezzo) per aiutare il padre 
                  in miniera, dove muore, travolto dalla caduta di un enorme masso. 
                  Il fatto diventa, per il maestro, un'ulteriore e dolorosa occasione 
                  di conoscenza della realtà che lo circonda, di un mondo 
                  del lavoro afflitto e disumano, di cui prende nota nel suo diario: 
                  “ho visto gli uomini scendere nelle tonsille di Sicilia, 
                  a cinquecento metri da quassù, a mille”; “chiestomi 
                  come sia fatto un inferno, di che colore sia e quanti inferni 
                  ci sono. Risposto che l'inferno è il camaleonte, e se 
                  ha un nome si chiama Sicilia”. Sempre più estraneo 
                  ai suoi familiari (moglie e figlia che sente distanti e diverse) 
                  e impotente rispetto ad una realtà che gli appare difficile 
                  e immodificabile, perché collocata in un territorio interno, 
                  remoto, duro e ostile alla presenza umana ( “al tramonto 
                  salito sulla torre del castello di Enna e dalle sue fessure 
                  guardato verso le valli tristi di Caltanissetta una terra che, 
                  si tratti di un aratro o del passo di un uomo, ostacola il cammino”), 
                  il maestro cerca nella miniera Zambulio, ad Assoro, il padre 
                  del suo piccolo alunno morto. A lui consegna un biglietto di 
                  viaggio per l'Argentina, che aveva comprato per sé, quando 
                  il desiderio di cambiare vita s'era fatto in lui irreprimibile 
                  e a tutti aveva detto che sarebbe andato via, per un viaggio 
                  senza ritorno. 
                  Il padre che ha perso il figlio prende il biglietto e parte: 
                  “A trent'anni saluta i suoi morti, il nero della valle 
                  di Enna, il lezzo dell'antimonio e spreme i ricordi sul labbro 
                  ed è già buio, si getta dal buco dov'è 
                  cresciuto verso il passaggio della vecchia vita che guida alla 
                  nuova col nome nuovo, sente la spinta, il travaglio nasce e 
                  niente più argano, calcherone, fiato della discenderia, 
                  ustioni sul corrimano, punte di trapano, scoppi della dinamite, 
                  nudità sotto terra perché lascia l'isola e raggiunge 
                  Napoli”. Da lì, dopo lungo viaggio, sarà 
                  a Mendoza, in Argentina: lo aspetta ancora lavoro duro e sfruttamento. 
                  Ed è l'inizio di un'altra storia e di altre vicende umane 
                  e politiche, che Davide Orecchio intreccia in una girandola 
                  narrativa, varia e appassionante, di personaggi ed eventi che 
                  si svolgono nel tempo lungo del '900 e sullo sfondo dell'Argentina 
                  dei campi di zucchero e dello sfruttamento degli emigranti, 
                  della dittatura, di Peron e dei desaparecidos, ma anche dell'Italia 
                  e delle lotte sociali e politiche degli anni '70, per concludersi 
                  comunque, il tutto, nuovamente in Sicilia, a Enna, dove nulla 
                  s'è più saputo del maestro, ufficialmente all'estero, 
                  lontano. Tutt'altra, sorprendente e tragica verità, svelerà, 
                  invece, la conclusione del romanzo. 
                   Romanzo 
                  da leggere magari avendo in mano il bel volume, curato da Arnaldo 
                  Bonzi, che raccoglie le fotografie di Giovanni Pozzi Bellini, 
                  Viaggio in Sicilia (Squilibri edizioni, Roma, 2014, pp. 
                  144, €40,00). L'album d'immagini di Pozzi Bellini mostra 
                  infatti i luoghi siciliani da cui parte la storia di Orecchio: 
                  i paesi, le campagne, le miniere dell'ennese. 
                  Nella Sicilia dei primi anni del '40 Giacomo Pozzi Bellini, 
                  promettente cineasta fiorentino, vi approdò, per girarvi 
                  un film. Aveva ricevuto incarico, da un illuminato e colto direttore 
                  del Ministero dell'Agricoltura, di filmare, con obiettività 
                  e senza pretese propagandistiche, la colonizzazione dei latifondi 
                  siciliani voluta da Mussolini. Il film (il cui soggetto doveva 
                  scrivere lo scrittore ennese Nino Savarese), a seguito di intricate 
                  vicende, non venne mai neanche iniziato: ma durante i viaggi 
                  nell'isola, preparatori alla realizzazione della pellicola, 
                  Bellini realizzò più di centocinquanta immagini 
                  che mostrano i luoghi desolati e arsi della Sicilia interna 
                  - e della campagna ennese in particolate - e i volti, scavati 
                  e duri, dei contadini che la abitano lavorando in terreni quasi 
                  mai floridi e generosi. Sono il ritratto di una Sicilia, antica 
                  e sperduta, fatta, come scriveva in quegli anni Savarese, di 
                  ''paesi di sapore classico e rurale, impervi e alla mano, casalinghi 
                  e con quel tanto che basti di moderno; con le loro badie centenarie, 
                  le stradette confidenziali, le famose fiere e le feste agricole 
                  del calendario e l'aria fine; senza pretendere assolutamente 
                  di diventare come le solite città, rumorose, meccaniche 
                  e barocche, pieni di montature e di specchietti”. Nello 
                  scorrere delle foto, stampate tutte in un formato grande e di 
                  sicura presa artistica perché sapiente è la padronanza 
                  tecnica del mezzo che possedeva Pozzi Bellini, prende forma, 
                  in affascinante bianco e nero, la vita dei villaggi, con le 
                  sue presenze umane, il lavoro nei campi (la mietitura del grano, 
                  la trebbiatura), il mondo delle zolfare, la fiera del bestiame 
                  a Enna. A più di settant'anni, le foto di Pozzi Bellini 
                  - che piacquero a Vittorini, a Consolo e ad Enzo Sellerio, che 
                  ebbero modo di vederle ma che solo ora vengono pubblicate in 
                  volume - ci aiutano a capire le contraddizioni della Sicilia 
                  di quegli anni: come scrive nell'introduzione al volume Domenico 
                  Ferraro, l'obiettivo di Pozzi Bellini coglie le ''contrapposizione 
                  tra la semplicità, la saggezza e anche il disincanto 
                  delle popolazioni rurali e la vita artefatta, vuota e spersonalizzante 
                  delle città, mostrando una visione della natura, però, 
                  tutt'altro che consolatoria perché accanto alla sua raffigurazione 
                  come riparo dalle brutture e dai guasti della modernità 
                  c'è anche l'attestazione della sua componente infernale 
                  che, oltre si esprime nei paesaggi ricolmi di fumi e vapori 
                  delle zolfare” e nelle immagini del lavoro, duro e sfruttato, 
                  dei contadini. Inoltre, le foto di Pozzi Bellini che ritraggono 
                  i vicoli, le piazze, gli slarghi, le case di tanti paesi dell'interno, 
                  documentano, certo, le architetture sicuramente povere di un 
                  tempo ma rivelano anche come queste fossero animate, intrise 
                  di umanità e socialità; insomma ci rendono luoghi 
                  che, nella loro diversa e caratterizzata identità locale, 
                  nella loro cultura materiale, contadina e rurale, appaiono oggi 
                  molto lontani dalle caratteristiche attuali che hanno assunto 
                  e che non sempre sono di segno positivo, soprattutto laddove 
                  lo sviluppo non è stato ancorato alla trasformazione 
                  qualitativa dei lavori tradizionali (ma è stato favorito 
                  da un' economia assistita e slegata dalla risorse del territorio) 
                  e dove non si è pensato alla difesa dei centri storici 
                  (che si sono svuotati a seguito di un' espansione edilizia incontrollata 
                  che ha prodotto agglomerati abitativi moderni ma periferici 
                  e anonimi). Le foto di Pozzi Bellini ci permettono quindi di 
                  gettare uno sguardo al recente passato della Sicilia, offrendosi 
                  come stimolo ad una più approfondita valutazione sulla 
                  ''modernità” del suo presente o forse sul sogno 
                  di una modernità che ha sacrificato, in nome di un indefinito 
                  'sviluppo', un ritmo antico e lento di produzione e di vita; 
                  un sogno di una Sicilia moderna che oggi, peraltro, s'è 
                  infranto sui crolli e le frane della sua rete autostradale, 
                  simboli ultimi ed eloquenti delle ferite sempre aperte della 
                  sua precarietà. 
                 Silvestro Livolsi 
                     Un comunista 
                  sui generis 
                 Un 
                  anno fa, il 23 aprile 2014, moriva prematuramente a 63 anni, 
                  nella sua casa di Ponte a Moriano, Francesco Giuntoli da molti 
                  conosciuto come il “maestro”. Molti cittadini comuni 
                  insieme ai parenti, agli amici, ai compagni di partito, ai sindacalisti 
                  e ad alcuni anarchici dettero il 25 aprile, in forma civile, 
                  l'ultimo saluto commosso, solidale e dolente all'uomo, al militante, 
                  all'amico. 
                  Un anno dopo, gli stessi protagonisti di quell'evento si sono 
                  riuniti al Foro Boario di Lucca in una manifestazione nella 
                  quale hanno voluto rendere omaggio a Francesco, e nell'occasione 
                  è stato presentato il libro Caro Maestro (Edizioni 
                  La Grafica pisana - Società popolare di Mutuo soccorso 
                  G. Garibaldi, 2015, pp. 177, €13,00). 
                  Ma chi era Francesco Settimo Giuntoli? Nasce a Ponte a Moriano 
                  il 28 giugno 1951, da Angela e Giovanni, che gli daranno altri 
                  due fratelli. Dal padre, piccolo commerciante e dirigente sportivo 
                  della squadra di “Saltocchio” e poi della “Lucchese 
                  F.C.”, eredita un pratico buon senso dell'economia quotidiana 
                  e la grande passione per il calcio, mentre dalla madre apprende 
                  l'amore per le radici del mondo contadino e la sua cultura. 
                  Ponte a Moriano è una frazione di Lucca, popolosa e operosa, 
                  dove da sempre vi è un forte insediamento operaio. La 
                  realtà territoriale avrà un forte impatto nella 
                  formazione politica e culturale di Francesco ed è grazie 
                  alla frequentazione con l'ambiente locale e poi in quello studentesco 
                  della fine degli anni Sessanta che egli matura la sua scelta 
                  politica antifascista e comunista. Dopo una prima fase nella 
                  quale frequenta l'ambiente dei gruppi dell'estrema sinistra 
                  lucchese, a metà degli anni Ottanta aderisce a Democrazia 
                  proletaria e quando quest'ultima si scioglie aderirà 
                  al Partito della Rifondazione comunista, assumendo nel 1994 
                  l'incarico di segretario provinciale. Va detto che la sua permanenza 
                  in Rifondazione comunista non sarà continua, uscirà 
                  dal partito quando la direzione guidata da Bertinotti abbraccerà 
                  la scelta politica filo governativa. Rientrerà nel partito 
                  solo nel 2008, con la segreteria Ferrero, a seguito del Congresso 
                  di Chianciano 
                  Nel 2009 costituisce, insieme ad altre compagne e compagni, 
                  soprattutto giovani e immigrati, la Società popolare 
                  di Mutuo soccorso “Giuseppe Garibaldi”, con lo scopo 
                  di riproporre il mutualismo come strumento di lotta, resistenza 
                  e crescita politica contro la grave crisi economica e politica 
                  che investe il nostro paese. Ricoprirà fino alla morte 
                  il ruolo di presidente della “Garibaldi”. 
                  Questo in sintesi l'aspetto politico della figura di Francesco, 
                  ma esiste un altro aspetto, forse meno conosciuto in ambiente 
                  militante, ma che ha fatto dell'uomo una persona amata e stimata 
                  dall'intera comunità del suo territorio, quella del maestro 
                  elementare. Francesco inizia la sua attività di maestro 
                  alla fine degli anni Settanta insegnando in molte scuole della 
                  provincia di Lucca e avviando con i propri alunni un rapporto 
                  profondo che si manterrà anche negli anni seguenti. Francesco 
                  concepisce il ruolo di educatore, come una “figura antica” 
                  depositaria di sensibilità e cultura umanista. Alcune 
                  generazioni di alunni hanno trovato in lui un creativo pronto 
                  a inventarsi percorsi didattici ricchi di stimoli e approcci 
                  culturali volti alla formazione dell'individuo libero da pregiudizi. 
                  Francesco era anche un lettore accanito, un amante della cultura 
                  e della storia, e pur partendo da una formazione comunista non 
                  esprimeva una concezione settaria della politica, tanto che 
                  era sempre pronto a confrontarsi e a ideare iniziative dove 
                  idee e culture politiche della sinistra potessero trovare momenti 
                  di positiva contaminazione comune. In questa dimensione Francesco 
                  incontra gli anarchici di cui era affascinato. Era uno dei pochi 
                  coerenti comunisti che il Primo maggio preferiva andarlo a festeggiare 
                  a Carrara partecipando al corteo degli anarchici, dove secondo 
                  lui maggiormente si sentiva il vero spirito arcaico della festa 
                  dei lavoratori, piuttosto che ad altre iniziative legate al 
                  mondo sindacale e/o politico della sinistra. 
                  Ciò che attraeva maggiormente Francesco verso l'utopia 
                  anarchica era forse l'essenza stessa delle sue contraddizioni: 
                  l'essere un'idea esagerata di libertà che si dipana tra 
                  un istinto antropologico distruttivo dell'ordine esistente e 
                  una spasmodica ricerca della costruzione di una nuova società. 
                  Una contraddizione che Pier Carlo Masini, storico dell'anarchismo, 
                  così raffigura: “Una volta un giudice che gli chiedeva 
                  di definire in poche parole il suo ideale politico, un anarchico 
                  rispose con spirito biblico che per lui l'anarchia era l'arca 
                  di Noè senza Noè. Ma un altro anarchico subito 
                  protestò che quello era riformismo e che semmai l'anarchia 
                  era il diluvio universale senza l'arca. In questo scontro di 
                  battute si fronteggiano le due anime dell'anarchismo, quella 
                  ottimista e razionale e quella romantica e nichilista, le 
                  siècle des lumières e lo Sturm und Drang”. 
                  Masini poi continua: “Errico Malatesta nel primo dopoguerra, 
                  a qualcuno che chiedeva forche per i nemici del popolo sulle 
                  piazze, rispondeva che Åese per vincere dovessi innalzare 
                  delle forche, preferirei perdere'. Tutto il pensiero anarchico 
                  vibra fra questi due poli: l'individualismo e la solidarietà, 
                  l'irrazionale e il richiamo della ragione, l'apocalisse e la 
                  salvezza. Anche i colori nei quali gli anarchici amano riconoscersi 
                  sembrano riflettere questi contrastanti stati d'animo: rosso 
                  speranza e nero disperazione. Lo diceva anche Pietro Gori, salutando 
                  l'anno 1905: Che, i proscritti d'ogni patria ... di questa 
                  idea rossa come l'aurora invincibile, e di questo sudario, nero 
                  come la sciagura umana, sappiano farsi la simbolica bandiera 
                  della liberazione”. 
                  Non a caso sono state richiamate le riflessioni di Pier Carlo 
                  Masini perché lo storico toscano fu uno dei principali 
                  protagonisti della bella serata organizzata nel 1992, proprio 
                  da Francesco e dagli amici del Circolo Utopia e dell'Istituto 
                  storico della Resistenza lucchese, per ricordare Carlo Cafiero 
                  in occasione del centenario della morte. Un'occasione quasi 
                  unica nel panorama di allora della sinistra italiana. L'iniziativa, 
                  dal titolo Carlo Cafiero 1892-1992: pensiero e azione nella 
                  Prima Internazionale, si svolse il 18 dicembre nel bel salone 
                  della Villa Bottini e vide la partecipazione di un folto pubblico 
                  attento e appassionato e, al tavolo degli oratori, oltre a Masini 
                  anche Johannes Agnolli, Adriana Dadà e Italino Rossi. 
                  L'interesse per la storia del movimento operaio affascinava 
                  Francesco, il quale non perdeva occasione per richiamare l'attenzione 
                  dei compagni e degli amici sulla necessità di affrontare 
                  le lotte del futuro e del presente per una società egualitaria, 
                  libera e fraterna, avendo ben chiaro il proprio passato e senza 
                  dimenticare le proprie radici, quelle radici plurali e originali 
                  che avevano caratterizzato fortemente la nascita del primo socialismo 
                  italiano. 
                  Francesco, infine, amava moltissimo un altro personaggio dell'anarchia: 
                  Pietro Gori, che riteneva ingiustamente, anche all'interno dello 
                  stesso movimento libertario, troppo presto dimenticato e accantonato. 
                  Questa passione avvicinò Francesco alla Biblioteca Franco 
                  Serantini con cui ha condiviso e promosso molte iniziative proprio 
                  dedicate al “cavaliere dell'ideale”. 
                  Il libro Caro Maestro, che raccoglie 36 testimonianze 
                  sulla vita di Francesco, ci riconsegna per intero la complessa 
                  e ricca figura di un comunista sui generis che amava 
                  il mondo libertario, la sua storia e la sua cultura. 
                  Per richieste rivolgersi a: Studio Bibliografico Pera, Corte 
                  del Biancone, 5 – 55100 LUCCA. Tel. 0583 955824 email: 
                  libreria@pera.it. 
                 Franco Bertolucci 
                     Medardo Rosso... 
                  e Nero 
                Spirito anarchico e ribelle, anarchico e pacifista, con aspirazioni 
                  di socialismo umanitario e di anarchismo repubblicano, omaccione 
                  anarchico fin nel midollo: nei commenti alla bella mostra La 
                  luce e la materia che la Galleria d'Arte Moderna di Milano, 
                  in collaborazione con il Museo Rosso di Barzio, ha dedicato 
                  a Medardo Rosso si sprecano le declinazioni del termine “anarchico” 
                  per definire la personalità e l'opera del maestro. 
                  Ma da dove viene la fama di anarchico a Medardo Rosso? Forse 
                  più dalle sue inclinazioni e dalle frequentazioni giovanili 
                  che da una sua reale militanza politica. Nato a Torino, si ribella 
                  sin da giovane alla famiglia che intendeva avviarlo alla carriera 
                  ferroviaria e marina la scuola per frequentare come apprendista 
                  la bottega di un marmista. Trasferitosi a Milano, si iscrive 
                  al'Accademia di Brera dove viene dopo poco tempo espulso per 
                  il suo carattere ribelle e per aver malmenato uno studente che 
                  non voleva firmare un appello di protesta da lui stesso redatto. 
                  Il suo stile ed il suo atteggiamento rivoluzionario vengono 
                  profondamente influenzati dal movimento della Scapigliatura 
                  che in quegli anni a Milano in funzione anti-romantica propugnava 
                  un'arte civilmente impegnata, laica ed anti-clericale che si 
                  scagliava contro l'accademismo e la retorica dell'arte monumentale. 
                  Gli scapigliati, vicini agli ambienti anarchici creavano eventi 
                  di critica corrosiva alle istituzioni artistiche dell'epoca. 
                  In contemporanea alle Esposizioni Nazionali ufficiali, ad esempio, 
                  organizzavano le “Indisposizioni di Belle Arti” 
                  con azioni, esposizioni ed happening che anticipano le 
                  provocazioni futuriste ed i ready made delle avanguardie. 
                  Con questo retroterra di ribellismo rivoluzionario Rosso, trasferitosi 
                  a Parigi influenza lo stesso mostro sacro della scultura francese, 
                  Auguste Rodin, che dapprima suo ammiratore ed amico entra con 
                  lui in contrasto dopo che la critica suggerisce un'influenza 
                  del Rosso sulla sua scultura, soprattutto nella famosa imponente 
                  figura del ritratto di Balzac. La modernità di Rosso 
                  sta anche nell'uso della fotografia e della creazione di esposizioni 
                  in cui si mescolano sculture, fotografie ed assemblaggi di oggetti, 
                  anticipando ciò che oggi definiamo “installazione”. 
                  Il Sacrestano realizzato nel 1883, nel suo periodo milanese, 
                  è la testa di un vecchio ubriaco, probabilmente il sacrestano 
                  della chiesa di San Marco, che ha come piedistallo un'acquasantiera 
                  di marmo rosso e una targhetta con la scritta “Indulgenza 
                  plenaria”. Rosso realizzò diverse versioni, in 
                  bronzo e in gesso della scultura, con diverse basi, una delle 
                  quali un vecchio mappamondo. Non solo realizzò anche 
                  una serie di stampe fotografiche con la testa del Sacrestano 
                  appoggiata su una sorta di altare con alle spalle un santino 
                  di Nostra Signora del Sacro Cuore. Sotto l'acquasantiera una 
                  scritta: se la fuss grapa! E tempo dopo, la riproduzione 
                  della stessa fotografia venne esposta con tracce di usura e 
                  macchie di vino e la dedica scritta dell'autore: “Alla 
                  mia amica Signora Rosa Rosso”, un'operazione concettuale 
                  in cui si mescolano il nome dell'autore, il colore rosso della 
                  rosa, fiore dedicato alla Madonna. Laico ed anticlericale rimase 
                  sempre fedele al suo detto: ci vogliono “meno madonne 
                  e più donne” nell'arte. 
                   Per 
                  Rosso è importante vincolare l'opera di scultura ad un 
                  punto di vista ben preciso, anche per questo crea installazioni 
                  e costringe l'osservatore ad una posizione definita. Le sue 
                  opere seguono più i dettami della pittura che della scultura 
                  tradizionale attorno alla quale si poteva/doveva girare per 
                  una piena comprensione dell'opera. Rosso dichiara di voler affrancare 
                  la scultura dall'antica dipendenza dall'architettura e rifiuta 
                  il lavoro di bottega, di ascendenza rinascimentale, che prevedeva 
                  numerosi collaboratori, come faceva ad esempio ancora Rodin, 
                  per privilegiare la dimensione artigianale ed il lavoro individuale, 
                  escludendo sin dall'inizio la grande dimensione e la tronfia 
                  retorica della statuaria dell'epoca. La scultura di Rosso è 
                  stata anche definita pittura tridimensionale, per la sua scelta 
                  forzata del punto di vista e per il suo tentativo di dare corpo 
                  materiale alla luce di cui ogni corpo, secondo la sua poetica, 
                  è esclusivamente composto. Per questa sua tecnica fu 
                  considerato scultore impressionista e sicuramente il primo grande 
                  moderno che aprì la strada alle sperimentazioni del '900. 
                  Si dice che Edgar Degas, il grande maestro impressionista, davanti 
                  ad una sua opera esclamasse: “Ma questa è pittura! 
                  È Magnifico!” 
                  I soggetti di Medardo Rosso non sono mai celebrativi o monumentali, 
                  le sue sculture ritraggono gente del popolo, macchiette come 
                  il Gavroche, sottoproletari, come El Looch o La 
                  Portinaia bambini, il Bambino ebreo, il Bambino 
                  malato e il capolavoro del 1897: Bambino alle cucine 
                  economiche. Soggetti colti in momenti della quotidianità, 
                  come La Rieuse, istantanee fotografiche come il Bookmaker 
                  o l'Uomo che legge. 
                  Alcune sue opere “site specific” sono andate perse 
                  nel turbinare di nuove installazioni e di trasferimenti come 
                  Impressione d'omnibus, di cui resta solo una fotografia, 
                  in cui paga tributo al quadro Interno di un omnibus di 
                  uno dei suoi maestri, Honorè Daumier, come lui cantore 
                  della povera gente, ironico e ribelle. Altri suoi maestri furono 
                  Degas e gli impressionisti che conobbe a Parigi, insieme a Emilé 
                  Zola, Gustave Courbet e tanti altri. Nell'ultima parte della 
                  sua produzione Medardo Rosso fu ponte verso le avanguardie ed 
                  in particolare il Futurismo Italiano. Umberto Boccioni nel suo 
                  Manifesto tecnico della scultura Futurista definisce 
                  Medardo Rosso il “solo grande scultore moderno che abbia 
                  tentato di aprire alla scultura un campo più vasto, di 
                  rendere con la plastica le influenze di un ambiente e i legami 
                  atmosferici che lo avvincono al soggetto”. 
                 Franco Bunc¨uga 
                     L'ultima àncora 
                  prima del vuoto 
                 Brigitte 
                  Schwaiger, scrittrice e poetessa austriaca, classe 1949, esordisce 
                  giovanissima, con la sua prima opera Perché il mare 
                  è salato?. Ricompare dopo anni di malattia e cure 
                  psichiatriche con Lasciarsi cadere. Racconto da un mondo 
                  minore (traduzione di Giovanni Giri, Edizioni Gran vía, 
                  Narni – Tr, 2013, pp. 134, € 11,80). Molto più 
                  di un'autobiografia, la scrittura convulsa a tratti liberatoria 
                  di Schwaiger trova spazio nella Collana altrevie, aperta 
                  anche a nonfiction novel, memoir e alle autrici e autori meno 
                  omologati. 
                  Il racconto da un mondo minore squarcia le ombre che si abbattono 
                  sulla psiche di una donna dalla scorza tenera, fagocitata da 
                  un padre medico, fanatico del lavoro, nazista, molestatore di 
                  bambini. Una nonna sopravvissuta al campo di Theresienstadt 
                  e una madre guardiana della morale, facciata da borghese. Donna 
                  rigida, ostile, chiusa, sempre da assecondare, morirà 
                  suicida a sessant'anni. Intanto, le mortificazioni attanagliano 
                  l'infanzia, un bambino è cattivo se non vuole bene ai 
                  genitori. 
                  In seguito, sensi di colpa per la morte del padre, rimorsi per 
                  avere contratto un matrimonio cattolico non voluto, gli aborti, 
                  un figlio, il divorzio, l'omosessualità repressa confessata 
                  come un delitto. L'indigenza economica e l'umiliazione di una 
                  scrittrice che non riesce più a scrivere, la creatività 
                  trasformata in psicosi. La vergogna di andare per strada sbronza 
                  con il certificato di povertà. E da beneficiario di sussidio 
                  sociale a malato psichiatrico il passo è breve. Nelle 
                  pagine, una critica anche alla società e al sistema sanitario 
                  austriaco: “Come si può vivere in Austria con una 
                  malattia mentale, la burocrazia e la prepotenza dei suoi uffici?” 
                  Ancora: “In Austria, nessuno deve morire di fame, ma la 
                  gente muore di fame psichicamente”. 
                  Poi il ricovero alla clinica Otto Wagner, nel Baumgarten Höle. 
                  A dispetto della bella architettura floreale, immersa in un 
                  parco boschivo con sentieri fin sulla cima della collina, qui 
                  finisce la dignità di ogni essere umano. Sozialschmarotzer, 
                  parassiti sociali, feccia dell'umanità. La malattia mentale 
                  deve essere nascosta. 
                  Si gira con una chiave al collo, e chiusi nei letti gabbia quando 
                  non si prendono le medicine. L'accoglienza è un ferro 
                  freddo sul torace per scuotere i sensi, in attesa di vegetare 
                  nella struttura rifugio-lager dell'istituzione totale. Il risveglio 
                  comincia con il male di vivere. Farmaci producono senso di sicurezza, 
                  suppliscono all'assenza di chi dovrebbe prendersi cura. La malattia 
                  trascorre nel mutismo quotidiano del lavoro a maglia, alla ricerca 
                  spasmodica di una giustificazione per meritarsi il diritto a 
                  vivere, e strapparsi le sopracciglia per mostrare al mondo la 
                  propria ferita. Fino alla convinzione che solo chi è 
                  “normale” ha diritto alla vita. 
                  Un sollievo la lettura, le camminate lente tra i sentieri del 
                  parco. La sopravvivenza nell'ergoterapia, a pelare le patate 
                  il giorno di turno in cucina o distrarsi nelle ore di uscita 
                  per la spesa, sempre con le medicine in borsetta come una carta 
                  d'identità. 
                  Brigitte Schwaiger rimette a fuoco i materiali della sua psiche 
                  in continua lotta con le sovrapposizioni baluginanti di voci 
                  e immagini. 
                  Sferzano come fulmini nella sua scrittura allo stesso tempo 
                  lucida ed eruttiva. Turbinii di pensieri e parole vagolano in 
                  tondo senza posa dentro una mente creativa e visionaria. Il 
                  tormento dell'anima si lenisce: “Scrivere è la 
                  via più lunga”, permette di ritardare l'ora del 
                  “diritto alla dolce morte”, con dignità. 
                  Nel 2010, la forza generatrice e affannata approda al silenzio. 
                  Un'autobiografia del dolore, quindi, e di testimonianza della 
                  scrittura come un'ultima àncora, prima di lasciarsi cadere. 
                
  Claudia Piccinelli
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