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                  Segnaletiche americane Quando le foto servono per schedare 
				   
                Il vostro sguardo sta per incrociare, nelle pagine di questa 
                  rubrica, i volti di uomini e donne dichiarati dalla società, 
                  fuori legge, reietti, delinquenti. “Safe distance“ 
                  è una selezione di fotografie identificative americane 
                  scattate nell'arco del cinquantennio che va dal 1890 fino agli 
                  anni '40 del XX secolo. Una mostra di Fabrizio Urettini che 
                  si è tenuta tra ottobre e novembre a Milano presso lo 
                  spazio Pomo. 
                  Criminologi e forze di polizia dalla seconda metà dell'800 
                  hanno deciso dopo lunghi dibattiti di immortalare con una particolare 
                  tecnica questi soggetti criminali una volta arrestati o fermati, 
                  per creare un vero e proprio archivio del crimine. Inventata 
                  la fotografia subito è stata usata per affinare metodi 
                  repressivi. Prima di diventare uno strumento di indagine infatti 
                  la fotografia segnaletica è stata una disciplina clinica, 
                  un sistema di classificazione dell' “uomo delinquente“. 
                  Queste foto che a un primo sguardo superficiale possono sembrare 
                  semplici in realtà “dietro“ nascondono funzioni 
                  affinate di sorveglianza e controllo. 
                  Attraverso l'analisi antropologica appare chiaro che la fotografia 
                  è ben più di una tecnica o un'arte e che essa 
                  può essere letta come descrizione densa degli ambiti 
                  che rappresenta, schiudendo alla comprensione dei sistemi di 
                  relazione e di senso che una determinata società affida 
                  all'immaginario e alle immagini. 
                
                   
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                    |   Volantino della mostra di Fabrizio Urettini  | 
                   
                 
                Secondo Maurice Merleau-Ponty esponente di primo piano della 
                  fenomenologia francese del Novecento, il vedere rimanda alle 
                  effettive condizioni del guardare e dell'osservare, comprese 
                  le condizioni sociali dei regimi percettivi, condizioni che 
                  sono oggetto fondamentale della ricerca antropologica. Ora, 
                  una convinzione di senso comune è che la visione sia 
                  fondamentalmente una questione individuale, ovvero l'azione 
                  di un individuo qualsiasi posto di fronte alla realtà. 
                  Io sono invece convinto che dobbiamo considerare la visione 
                  come un'attività eminentemente sociale e culturale, una 
                  pratica esperta che dipende in modo fondamentale dalla costruzione 
                  culturale dell'individuo che guarda e dalla specificità 
                  di ambienti e artefatti rilevanti presenti, in questo caso (mostra 
                  “Safe distance“) nella fotografia guardata. 
                
                   
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                    |   Seattle (Stati Uniti), 1926 - Una scheda segnaletica  (dalla 
                  collezione di Fabrizio Urettini)  | 
                   
                 
                Vale la pena ricordare che la percezione è culturale. 
                  È cioè il prodotto dell'attività umana, 
                  così come, al tempo stesso, ne è la guida. Oltre 
                  a orientare in senso stretto l'uomo a muoversi nell'ambiente, 
                  la percezione ne orienta il comportamento, condiviso con altri 
                  nella società. Insomma la natura del guardare è 
                  al tempo stesso «fenomenologica e storica» 
                  Quello che questa mostra richiede sono visioni abili, addestrate 
                  e competenti. L'abilità visiva non è di per sé 
                  una forma di rappresentazione. Non si tratta di rappresentazioni 
                  del mondo ma di codici di lettura del mondo, di diversi modi 
                  di guardare il mondo – che sono spesso invisibili. Problematico 
                  è quindi studiare questi diversi modi di guardare il 
                  mondo, e farne una rappresentazione. 
                  Ha perfettamente senso chiedersi quali siano le leve profonde 
                  che ci smuovono ogni volta che guardiamo un'immagine, in generale 
                  – se ci siano connessioni e meccanismi innati che ci fanno 
                  propendere per determinate composizioni estetiche, che ci fanno 
                  riverberare rispetto a determinati colori, forme, architetture 
                  fondamentali. Ha altrettanto senso chiedersi se c'è qualcuno 
                  a cui una stessa immagine dica qualcosa di più che non 
                  a noi, e perché. Per essere più chiari sarà 
                  differente la percezione di un poliziotto che guarda questa 
                  mostra da quella di un detenuto, ma non solo in questo caso 
                  estremo sarà differente anche tra un fotografo e un operaio 
                  o tra uno studente e un professore. 
                  I saperi dello sguardo sono quindi competenze socialmente coltivate: 
                  un saper notare, evidenziare, seguire, capire, indicare, cogliere, 
                  rappresentare, comprendere si modifica a seconda della costruzione 
                  culturale-esperienziale del soggetto osservante. 
                  Non dimentichiamo e soprattutto non sottovalutiamo il fatto 
                  che alcune caratteristiche spontanee ed intrinseche della coscienza 
                  come l'attività analogica e associativa, l'istinto mimetico, 
                  la capacità di comporre sequenze narrative, si attivano 
                  grazie a quei catalizzatori morfologici, percettivo-cognitivi, 
                  che sono le immagini. Guardare è una “tecnica del 
                  corpo“ culturalmente inculcata e socialmente performata, 
                  per questo mentre guardate queste foto dovete stare molto attenti 
                  a non cadere subito nella narrazione del dominio che vuole mostrarci 
                  questi uomini e queste donne fermi immobili nel momento del 
                  loro arresto. Vuole dirci: ecco i nemici della società, 
                  mostrarci la faccia del male. 
                
                   
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                    |   Brooklyn, New York (Stati Uniti), 1940 - Line up 
                        (dalla collezione di Fabrizio Urettini)  | 
                   
                 
                In questa mostra non osserverete solo volti nelle foto ma anche 
                  piccoli testi descrittivi sul fotografato. In un ottimo testo, 
                  La vita degli uomini infami, Michel Foucault si sofferma 
                  sulla questione della scrittura di “biografie sintetiche“ 
                  di soggetti anonimi, reperibili negli archivi di istituzioni 
                  disciplinari come ospedali e commissariati. Lo stesso interesse 
                  che ha mosso Foucault muove gli autori della mostra, condividono 
                  la necessità di pensare un problema centrale nella storia 
                  delle forme discorsive, quello della resa visibile di esistenze 
                  e pratiche di vita di uomini senza rilievo, senza fama; vite 
                  anonime, destinate a transitare nel solo ordine del ciclo naturale 
                  o in quello puramente statistico della popolazione. Una mostra 
                  come questa invece li riporta al centro dell'attenzione. Come 
                  vedrete soprattutto per la parte relativa ai Wanted le 
                  istituzioni disciplinari hanno senza volerlo preservato dalla 
                  cancellazione totale queste “vite infami“, perché 
                  hanno “raccontato“, qualificandoli e caratterizzandoli 
                  con piccoli frammenti di immagini e testo le loro particolari 
                  esistenze. 
                  La straordinarietà dell'ordinario e la significatività 
                  del banale appartengono all'anima stessa dell'invenzione della 
                  fotografia; per cui l'assunto di Barthes – la fotografia 
                  rende significativo il banale che fotografa – è 
                  sicuramente uno dei pregi di questa mostra, ovvero quello di 
                  rendere importante e significativo proprio quel banale. 
                 Andrea Staid 
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