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				 Sahrawi 
                  
                Il paese che non c'è 
                  
                reportage di Moreno Paulon 
                    
                Autodeterminazione dei popoli, discorso etnico e il campo minato più lungo del mondo. 
                
                     
                 Si dice che il diavolo nasconda 
                  la sua coda nei dettagli. Ebbene: a guardare la cartina politica 
                  dell'Africa nord-occidentale, decifrando tutte le linee rette 
                  che i colonialisti, mappe alla mano, hanno tirato col righello 
                  spartendosi terre non loro, si riconoscono a prima vista alcuni 
                  stati, come Tunisia, Algeria, Mali, Marocco, Mauritania. Fin 
                  qui tutte le carte sono concordi. Ma scendendo nei particolari, 
                  se si fa più attenzione e si osserva da vicino la costa 
                  atlantica, si noterà che sul versante meridionale del 
                  Marocco si apre un'intercapedine, un dubbio, una certa zona 
                  grigia. Alcune mappe in questo punto dichiarano un confine incerto, 
                  tratteggiato, che taglia il Marocco dritto in due parti; altre 
                  registrano invece una linea continua; altre ancora non mostrano 
                  alcuna interruzione di superficie ed estendono lo stato marocchino 
                  dal Mediterraneo giù fino alla Mauritania senza soluzione 
                  di continuità. 
                  Fra le fonti che sezionano il Marocco in due, c'è poi 
                  chi non precisa ulteriormente cosa si trovi al di sotto della 
                  riga e c'è chi invece, con più ardire, proclama 
                  un nome: Western Sahara. Ma alla domanda “Che cos'è 
                  il Sahara Occidentale?” molti marocchini rispondono che 
                  “Non c'è nessun Sahara Occidentale, c'è 
                  solo il Marocco”, mentre altri si spingono fino a dire 
                  che “È un'invenzione di quei pazzi dei Sahrawi, 
                  che odiano il Marocco e vogliono l'indipendenza”. Vero 
                  è che una linea immaginaria esiste eccome, e visto che 
                  idee e parole si fanno volentieri cose, a sud di Guelmim, lungo 
                  la strada desertica che conduce verso Assa-Zag, si erge improvvisa 
                  un'enorme frontiera marocchina alle porte del deserto. Poco 
                  oltre la porta, sotto Zag, ecco che la linea si fa tutt'altro 
                  che immaginaria, e a forza di scendere verso Al-Mahbes diventa 
                  un oggetto vero e proprio: il Muro Marocchino, il muro più 
                  lungo del mondo dopo la Grande Muraglia cinese, che separa l'ultimo 
                  baluardo dell'odierno Marocco da un vasto deserto conteso. 
                
                   
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                    |   Frontiera del Sahara Occidentale  | 
                   
                 
Il muro 
                Il Muro Marocchino è il risultato storico della stratificazione 
                  di otto diversi terrapieni difensivi, costruiti dal Marocco 
                  lungo una linea che supera i 2.720 km di lunghezza e si estende 
                  dal confine algerino sopra Tindouf giù fino al centro 
                  portuale di Guerguerat, a un passo dalla Mauritania. Il muro 
                  di per sé non fa un grande effetto, è una berma 
                  alta sì e no un metro nel bel mezzo di un immenso deserto 
                  di rocce e sabbia. Ad impressionare sono piuttosto i bunker, 
                  le postazioni di controllo ogni 5 km, i 160.000 militari sparsi 
                  lungo la serpentina e il fatto non trascurabile che tutto intorno 
                  alla sua linea, come l'alone di una galassia, siano state sparse 
                  oltre 5 milioni di mine anti-uomo, nota eccellenza made in 
                  Italy. Così, ad entrare nel dettaglio, si scoprono 
                  ben due confini all'interno dello stato marocchino: una frontiera 
                  colossale alle porte del Sahara e una berma immersa nel campo 
                  minato più lungo del mondo, come una spina dorsale che 
                  riposa nel mezzo del deserto. Il re del Marocco nega l'esistenza 
                  di un conflitto, soprattutto armato; ma allora perché 
                  il muro? Chi c'è dietro la parete che mette tanta paura? 
                  Ci sono i Sahrawi, il Polisario, gli indipendentisti del deserto. 
                  E se i re del Marocco tacciono, sono le sabbie a parlare. Il 
                  deserto, simile ai ghiacci, conserva memoria di ogni cosa, porta 
                  pazienza e col tempo restituisce senza rancore ciò che 
                  non gli appartiene. Nell'aprile 2013 otto corpi affiorano dalla 
                  sabbia, li trova un pastore e antropologi forensi iniziano a 
                  studiarli. A settembre il test del DNA e le ricerche di campo 
                  riannodano il filo tagliato: gli otto sahrawi, fra cui due bambini, 
                  erano stati arrestati da una pattuglia marocchina nel 1976, 
                  ufficialmente scomparsi, concretamente freddati con armi da 
                  fuoco e nascosti sbrigativamente sotto un lenzuolo di sabbia. 
				 Sahrawi  
                Sahrawi significa di per sé genti “del 
                  deserto”, un'etichetta che, vista l'estensione del Sahara 
                  e le mescolanze storiche e culturali dell'Africa nord-occidentale, 
                  indica un po' tutto e niente. Si concorda nell'affermare che 
                  i Sahrawi siano una famiglia mista i cui territori si estendono 
                  dal Sahara al Marocco, alla Mauritania e all'Algeria, ma fuor 
                  di nazioni i gruppi contemporanei sono il prodotto degli incontri 
                  e degli scambi nomadi e millenari fra arabi, berberi, yemeniti 
                  e persino popoli dell'Africa nera, con un nucleo originario 
                  che si fa risalire al XIII secolo ma con ascendenze rintracciabili 
                  fino agli antesignani preislamici dell'VIII a.C. In tempi precoloniali, 
                  tanto i sultani magrebini quanto i dey dell'Algeria ottomana 
                  guardavano alle genti del deserto come popoli dissidenti e ribelli, 
                  anarchici, raminghi e difficili da trattare, un'impressione 
                  condivisa anche dai Mori dell'odierna Mauritania e dall'Impero 
                  Songhai. La letteratura racconta di un dominio incerto e discontinuo 
                  da parte dei governi centralizzati, fatto di influenze saltuarie 
                  e accordi con capiclan carismatici e conniventi, più 
                  che di conquiste e lotte armate per un potere uniforme e capillare 
                  sulla popolazione. Tuttavia, poiché i vocaboli non sono 
                  case ma alberghi per significati in viaggio, l'accezione corrente 
                  del termine sahrawi è difficilmente concepibile 
                  fuori dal panorama delle contestazioni politiche, stataliste 
                  e nazionali del Novecento. 
                  Le prime linee di demarcazione nette tra le famiglie e i loro 
                  territori (il discorso del padrone parlerebbe di “etnie”) 
                  emergono piuttosto con l'intervento dell'uomo bianco, in particolare 
                  con il colonialismo francese e spagnolo. Infatti la maggioranza 
                  dei territori dell'Africa nord-occidentale fu conquistata dalla 
                  Francia della Terza Repubblica, ma anche la Spagna a suo tempo 
                  si prese parte del Marocco: qualche frammento strategico e il 
                  “Sahara spagnolo” (1884-1976), suddiviso in Rio 
                  de Oro e Saguia el-Hamra, che in arabo significa canale rosso. 
                  Allora come oggi, e come sempre, il padrone armato non conquistava 
                  né sottometteva nessuno, figurarsi, ma si qualificava 
                  piuttosto come mecenate del progresso, un generoso esportatore 
                  di civiltà (democrazia) fermo nell'intento di istruire 
                  e ed educare le popolazioni locali, arretrate e incivili (la 
                  Cina raccontava le stesse storie mentre violentava i tibetani). 
                  Così, per non fare la figura degli assassini predatori 
                  e per risolvere qualsiasi dissonanza cognitiva a venire, gli 
                  invasori chiamarono le colonie “protettorati”, che 
                  dovette suonare molto più edificante. 
                  Di fatto, Francia e Spagna si spartirono come al solito le terre 
                  altrui, inventando stati e tassonomie inesistenti prima del 
                  loro arrivo e creando con ciò confini netti fra popolazioni 
                  e famiglie locali, alterandone gli equilibri, gli stili di vita 
                  e le relazioni tradizionali. In più di un'occasione la 
                  resistenza (politica) del neonato Sahara Occidentale si innervò 
                  di assunti religiosi e fu vissuta quale guerra santa, jihad, 
                  contro l'invasore europeo cristiano. Ma dietro la maschera della 
                  fede possiamo leggere un espediente identitario innescato di 
                  fronte alla violazione territoriale, politica e culturale da 
                  parte delle potenze europee, le stesse che poi da canovaccio 
                  accusano le vittime di fanatismo religioso non appena queste 
                  si ribellano. Curiosamente, il famoso Ma al-Aynayn (condottiero 
                  della Jihad del 1904) è oggi celebrato tanto dal Marocco 
                  quanto dal Polisario: per il primo è un simbolo anti-colonialista, 
                  per l'altro uno stemma indipendentista del popolo Sahrawi. 
                
                   
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                    |   Nomade nel Sahara Occidentale  | 
                   
                 
				Anticolonialismo Sahrawi 
                Alcune fonti sostengono che l'astio sahrawi sia cominciato 
                  nel 1975, ma la storia ha radici più remote e discusse. 
                  Il 1975 fu un anno chiave per molte ragioni, tuttavia l'avversione 
                  anticoloniale più popolare risale piuttosto al '34, quando 
                  gli invasori spagnoli presero l'iniziativa di registrare e censire 
                  tutta la popolazione del Sahara Occidentale distribuendo carte 
                  d'identità negli insediamenti locali. Scaturì 
                  così un primo nucleo di resistenza allo sfruttamento 
                  coloniale e ai suoi dispositivi di controllo, che funse da esordio 
                  per le rivendicazioni contemporanee. 
                  Non molto tempo dopo, superata la guerra nel '45, il nord Africa 
                  partorì molti movimenti indipendentisti antieuropei (vale 
                  la pena di ricordare l'impegno dello psichiatra Frantz Fanon, 
                  espulso dalla Francia nel '57 proprio per la sua militanza filoalgerina), 
                  e fra le emergenti coscienze represse c'era anche quella “sahrawi”. 
                  È qui che la popolazione inaugurò il discorso 
                  etnico con propositi politici indipendentisti. La prima apparizione 
                  pubblica di un vero e proprio Fronte di Liberazione, sotto la 
                  guida di Mohammed Bassiri, avvenne nel 1970, e tre anni dopo 
                  nasceva il Polisario (Fronte Popolare di Liberazione di Saguia 
                  el-Hambra e Rio de Oro), inaugurando una guerriglia armata che 
                  durerà fino al 1991. Negli anni Cinquanta il governo 
                  francese concesse l'indipendenza al Marocco settentrionale e 
                  anche la Spagna, un po' in ritardo, si era ormai persuasa che 
                  tirava proprio aria di decolonizzazione. Dopo Tangeri, Tan Tan 
                  e Tarfaya, nel 1969 si risolse di lasciare Sidi Ifni e solo 
                  più tardi, nel 1975, sdoganò anche il Sahara Occidentale. 
                  Per sancire la ritirata, il 14 novembre 1975 Marocco, Spagna 
                  e Mauritania siglarono a Madrid gli Accordi Tripartiti, concordando 
                  fra loro una cospicua buona uscita per la Spagna e la spartizione 
                  delle terre sahariane fra Mauritania e Marocco, il quale, tutto 
                  felice dei territori “recuperati”, intraprese la 
                  Marcia Verde (il colore dell'Islam) su tutto il nuovo suolo 
                  nazionale. Ma c'era qualcun altro che voleva “recuperare” 
                  il Sahara: il Polisario, appunto, che il 27 febbraio 1976 proclamò 
                  la nascita della Repubblica Democratica Araba Saharawi (RASD). 
                  Durante la Marcia Verde circa 300.000 abitanti sahariani fuggirono 
                  in esodo nel deserto fino a sconfinare nell'Algeria, per stabilirsi 
                  nei campi profughi di Tindouf, dove tuttora risiede il governo 
                  in esilio della RASD. Il Fronte Polisario, finanziato ed armato 
                  tanto dall'Algeria quanto da al-Qaddafi (resterà sempre 
                  un mistero perché la stampa italiana l'abbia trasformato 
                  in “Gheddafi”), nel 1979 avanzò guerrigliando 
                  per liberare i territori sahariani contro il Marocco (il quale 
                  credeva di averli appena liberati), raccogliendo i consensi 
                  e le simpatie di una settantina di stati fra Europa, Africa 
                  e Sudamerica. In tutta risposta all'avanzata armata del Polisario, 
                  il re del Marocco incrementò lo sforzo bellico e fra 
                  1981 e 1986 fece costruire il Muro Marocchino, imbottendo la 
                  sabbia circostante di ordigni americani, italiani e francesi 
                  (ma si nega l'esistenza di un conflitto armato) arginando l'espansione 
                  del Polisario (che sostiene di parlare ed agire nell'interesse 
                  di tutti i Sahrawi). 
                  Sollevata l'attenzione internazionale, nel settembre 1988 la 
                  risoluzione n. 621 delle Nazioni Unite avviò un piano 
                  di pace fra Polisario e Marocco. Il Sahara Occidentale è 
                  un'area arida e desertica, ma il sottosuolo è ricco di 
                  solfiti e il mare che ne lambisce la costa è particolarmente 
                  pescoso (l'Europa versa annualmente al re del Marocco circa 
                  400 milioni di euro per diritti di pesca nell'area), e nessuna 
                  delle fazioni, a parte la Mauritania, era disposta a mollare 
                  l'osso. Il 1991 fu l'anno del cessate il fuoco e la risoluzione 
                  UN n. 690 istituì la missione MINURSO, con il proposito 
                  di fermare le violenze e promuovere un referendum “per 
                  l'autodeterminazione del popolo Sahrawi”, poi proseguita 
                  dal piano Baker. La prima data di questo referendum fu fissata 
                  per l'anno successivo, il 1992, ma da allora il re del Marocco 
                  non fa che rinviare l'appuntamento, la cui ultima scadenza era 
                  prevista per lo scorso 14 aprile 2014. 
                
                   
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                    |   Strada nel deserto verso Assa-Zag  | 
                   
                 
				Autodeterminazione: luci e ombre 
                Torniamo al diavolo e alla sua coda nei dettagli. Gli esponenti 
                  del Polisario sostengono di lottare per l'indipendenza “del 
                  popolo Sahrawi” e della loro terra: il Sahara Occidentale. 
                  Questa rivendicazione ci offre l'occasione di indagare alcuni 
                  concetti antropologici e certe prassi del diritto internazionale, 
                  per non cedere il passo agli esotismi, alla fiducia nelle istituzioni 
                  interazionali e al mito del buon selvaggio. Domandiamoci dunque: 
                  dove inizia e dove finisce questo popolo sahrawi? O meglio: 
                  dove inizia e dove finisce un qualsiasi popolo? Si dice “Sahrawi” 
                  credendo di riferirsi ad un tutto omogeneo, e “Polisario” 
                  come sinonimo di “Sahrawi”. Ebbene, a frugare nei 
                  particolari scopriamo che le milizie del Polisario, che parlano 
                  a nome di tutti, non esauriscono affatto “il popolo Sahrawi” 
                  nel suo insieme né le sue volontà dissonanti; 
                  scopriamo anzi che esistono Sahrawi che non ne vogliono sapere 
                  dell'indipendenza del Sahara, altri che odiano il Polisario 
                  per il suo passato di gruppo armato e per le alleanze con al-Qaddafi, 
                  altri ancora vogliono far parte del Marocco (sahrawi marocchini?), 
                  o non vogliono far parte di nessuna nazione (nemmeno quella 
                  che il Polisario vuole formare); vediamo che alcune famiglie 
                  disilluse scappano dai campi di Tindouf per tornare indietro 
                  e addirittura che il segretario in carica del Fronte Polisario, 
                  Mohamed Abdelaziz, è originario di Marrakech e non del 
                  Sahara Occidentale, senza contare che al momento la declamata 
                  democrazia sahrawi è a partito unico. 
                   Analizzando 
                  a lucido la questione, potremmo dire che un'istanza nazionalista 
                  anticoloniale ha assunto, ha incarnato, ha impugnato il discorso 
                  etnico sahrawi per affrancarsi da un governo centrale non appena 
                  l'invasore ha lasciato il campo aperto, o semichiuso. Ma ciò 
                  che è scivoloso, ancora una volta, è proprio l'appiglio 
                  ad un discorso etnico per perseguire un'autonomia politica statalista, 
                  e questo per il semplice fatto che non si danno etnie se non 
                  nelle parole che le affermano. Quella etnica è una prassi, 
                  una costellazione di tratti che si attivano o inibiscono declinandosi 
                  nelle situazioni e nella storia, un'identità performativa, 
                  non una cosa. Non c'è etnia fuori dal discorso etnico 
                  esattamente come non ci sono fatti privi di una narrazione che 
                  li esponga. Pensiamo al miglior Derrida, all'inestimabile valore 
                  della sentenza: il giornalismo non informa sui fatti, o dei 
                  fatti, ma informa i fatti; ed estendiamolo al racconto in 
                  senso lato. 
                  Il racconto manipola, inventa, interpreta e con ciò definisce 
                  i fatti narrandoli (Aristotele docet), per cui non contano 
                  i fatti, ma il convincimento che l'oratore sa suscitare esponendoli. 
                  Allo stesso modo il discorso etnico manipola i tratti etnici 
                  propri e altrui, inventa l'omogeneità identitaria nel 
                  descrivere e circoscrivere un'etnia, la quale viene spesso assemblata 
                  arbitrariamente per genealogia familiare, per appartenenza territoriale 
                  o per semplice opposizione ad un altro gruppo, poiché 
                  ci si conosce solo in relazione a qualcos'altro. I criteri oggettivi 
                  di comunanza “etnica” (lingua, geni, territorio, 
                  psicologia comune...) sono crollati da decenni per svelare il 
                  loro carattere fittizio e situazionale, poiché se esistono 
                  certo geni e DNA che determinano infallibili filiazioni biologiche, 
                  al contrario la storia comune di un popolo si scrive e riscrive 
                  a partire da un “noi” di passaggio (il Marocco, 
                  i Sahrawi, i nomadi arabo-yemeniti potrebbero scrivere la stessa 
                  storia o tre storie diverse); le abitudini comuni cambiano e 
                  così le idee; le lingue si somigliano e si differenziano 
                  persino al loro interno e non c'è tratto che possa descrivere 
                  ineludibilmente un'etnia meglio di quanto si possa fare con 
                  una comunità religiosa o linguistica. I gruppi umani 
                  vivono in un flusso che questi discorsi cercano di congelare, 
                  di fotografare e istituire mediante un linguaggio simbolico. 
                  L'etnia, cioè, si identifica con le parole dei soggetti 
                  che di volta in volta pronunciano un essenzialismo, un “noi 
                  siamo” contro un “loro sono”, con finalità 
                  e contesti particolari, esattamente come con i Sahrawi. L'ineluttabile 
                  identità statale si basa invece su un confine netto e 
                  fuori discussione, sulla sottomissione al monopolio della violenza 
                  e delle leggi e sull'appartenenza definitiva al recinto nazionale 
                  mediante dispositivi biopolitici. 
                  Il progetto del Polisario è di promuovere un brand etnico 
                  per ottenere la sovranità statale. Inoltre, se la reificazione 
                  e le rivendicazioni del discorso etnico assumono rilevanza politica 
                  internazionale per gli stati, è perché la parola 
                  etnia è stata oggettivata e investita di valore 
                  niente meno che dalle Nazioni Unite in una delibera del 18 dicembre 
                  1992, che associata al principio di “Autodeterminazione 
                  dei popoli”, concepito del Capitolo 1 della Carta UN, 
                  apre un percorso di legittimazione per l'indipendenza di un 
                  qualsiasi “noi” locale che desideri emanciparsi 
                  da un dominio, purché questo si presenti in tenuta etnica 
                  e con prospettive statali. 
                  A pensarci bene, non si può negare che l'autodeterminazione 
                  in sé potrebbe anche essere un percorso auspicabile per 
                  la fine degli stati – i sardi o i catalani o il Polisario 
                  ne sarebbero certo felici – ma ci sono degli ostacoli 
                  notevoli: da un lato le istanze progressiste devono vedersela 
                  con i fucili degli stati centralizzati da cui vogliono sottarsi 
                  (prima li ignoreranno, poi quando verranno alle mani li accuseranno 
                  di terrorismo), dall'altro nel panorama militarizzato mondiale 
                  il beneplacito etnico delle UN conta come il due di briscola 
                  senza un esercito a sostenerlo, e infine come si è detto 
                  le prospettive etniche appoggiate dall'unione degli stati UN 
                  non possono che essere ancora rivolte verso un nuovo stato (con 
                  l'interessante eccezione dei curdi). Che le alleanze giuste 
                  facciano la differenza non è certo un segreto, le larghe 
                  intese fra i discorsi etnicizzati e uno Stato forte sono garanzia 
                  di tolleranza persino di fronte alla violenza più spudorata 
                  (Israele non fu forse tollerato soprattutto perché gli 
                  Stati Uniti ne auspicavano la fondazione in Palestina fin dal 
                  1922?). 
                  Insomma si ricorre alle rivendicazioni etniche perché 
                  queste sono ancora le coordinate del discorso del padrone, delle 
                  regole dettate in casa d'altri, e ci si attacca alla terra perché, 
                  a differenza della fluidità del discorso etnico, questa 
                  rappresenta un ancoraggio universalmente riconosciuto dagli 
                  stati alle cui porte si va elemosinando attenzione. Ci si lega 
                  alla terra per non essere assorbiti, integrati, per dare garanzie 
                  di stabilità, perché la patria tascabile della 
                  Bibbia, che è stata la sola casa degli ebrei fino al 
                  '48, non bastava: serviva proprio la terra, promessa da Dio 
                  e mantenuta dall'ONU (memento: nessuna delle infinite risoluzioni 
                  UN sulla questione fu emanata ai sensi dell'articolo 7, quello 
                  che innesca azioni coercitive contro le aggressioni, ma piuttosto 
                  ai sensi del blando articolo 6, che prevede un dito indice che 
                  oscilla e dice “birbantelli voi”). Ma se la differenza 
                  fra un territorio occupato e uno stato, fra lotta terrorista 
                  e violenza legittima, fra un branco di sfollati e un gruppo 
                  di cittadini riposa sull'approvazione da parte dell'esterno, 
                  allora è chiaro che gli aghi della bilancia nell'autodeterminazione 
                  dei popoli restano il senso di colpa dell'Occidente, l'alleanza 
                  con un potente o gli scheletri nell'armadio della storia. 
                  Quindi, deposte le armi, quali sono gli strumenti concreti in 
                  mano ad una minoranza che desideri autonomia da un governo centrale? 
                  Si parla, si scrive, si legifera molto a proposito del diritto 
                  di un popolo all'autodeterminazione, a disporre delle proprie 
                  risorse, a definire il proprio territorio e regime politico; 
                  ma allo stesso tempo l'enfasi posta sul concetto di “popolo” 
                  manca di un correlativo oggettivo tanto nella prassi quotidiana 
                  quanto nel diritto internazionale, che conosce soltanto gli 
                  stati come suoi soggetti. Si spingono così i movimenti 
                  autonomisti a pensarsi quali futuri stati. Inoltre, posto che 
                  il diritto all'autodeterminazione di una minoranza lede la sovranità 
                  dello stato da cui questa intende separarsi, quale nazione sarebbe 
                  disposta a concedere l'indipendenza a tutte le minoranze religiose, 
                  linguistiche, “etniche” di cui è formata? 
                  Sarebbe la fine degli stati costituiti. Senza contare che, come 
                  nell'esempio marocchino-sahrawi, il processo di unificazione 
                  e identità (sempre fittizia, fatta di parole e generalizzazioni) 
                  esclude i soggetti che pur considerandosi sahrawi non vogliono 
                  l'indipendenza politico-territoriale, poiché il Polisario 
                  dà per scontato l'allineamento delle loro intenzioni 
                  (etniche?) con le volontà (etniche?) del Fronte. Siamo 
                  ancora di fronte ad una maggioranza che si impone su una minoranza, 
                  il canto del cigno dello stato-nazione. 
                
                   
                     | 
                   
                   
                    |   Uno scorcio del deserto roccioso  | 
                   
                 
				Pensare oltre 
                Per inaugurare una concreta autodeterminazione delle persone, 
                  dentro e fuori dai gruppi, occorre forse iniziare a pensare 
                  oltre i popoli, fuori delle coordinate cognitive delle etnie, 
                  delle nazioni, degli stati, delle famiglie, delle classi, delle 
                  comunità religiose per come esse sono state tramandate. 
                  Perché tutte queste omogeneità, osservate al microscopio, 
                  poggiano i piedi sul nulla. Basta che un hmong laotiano 
                  faccia un figlio con un'argentina di Buenos Aires a Oslo per 
                  mettere in crisi qualsiasi identità etnica. C'è 
                  senz'altro tanto da scoprire e da imparare nel considerare come 
                  soggetti del diritto, della vita politica e degli aggregati 
                  umani, singole e divergenti volontà da rispettare, 
                  da armonizzare, da incoraggiare in un universo di differenze 
                  globali, piuttosto che incoraggiare identità fittizie 
                  volte a legittimare questo o quell'abuso di potere istituzionalizzato. 
                  Occorre sconfiggere il desiderio stesso dell'identità, 
                  la nostalgia di identità, a meno che non si tratti di 
                  una comunione di intenti e di singole volontà. 
                  Perché i muri cominciano nella nostra mente e qualsiasi 
                  identità porta con sé il confine, l'altro e l'Altro, 
                  e se non il Muro più lungo del mondo, di certo il più 
                  alto e profondo. 
                  Insomma, afferrato il diavolo per la coda, forse dopo aver subito 
                  tante violazioni dei diritti umani il Polisario otterrà 
                  il suo stato, forse no, ma un dubbio rimane: siamo certi che 
                  inventare e sostenere un'essenza, una qualità identitaria, 
                  la finzione verbale e ideale di unità (etnica, linguistica, 
                  razziale, storica, culturale) sia la strada verso l'emancipazione 
                  e l'indipendenza dell'uomo, prima ancora che del cittadino? 
                  Non sarebbe ora di sviluppare piuttosto una cittadinanza internazionale 
                  che mettesse in crisi gli abusi e ai soprusi degli stati-nazione, 
                  la loro sovranità a confine, prefigurando il loro superamento? 
                 Moreno Paulon 
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