Siria/ 
                  Sulla via di Damasco 
                Atterrare a Damasco di notte: le luci verdi dei minareti dal 
                  finestrino dell'aeroplano. La prima volta che l'ho fatto è 
                  stato nel settembre del 2003. C'era una certa tensione tra i 
                  passeggeri, non tanto per la memoria ancora fresca delle Torri 
                  Gemelle, quanto piuttosto per via dell'onda lunga del conflitto 
                  iracheno, formalmente cessato – si pensava – con 
                  la caduta di Hussein nella primavera di quello stesso anno, 
                  ma di fatto ancora in corso. Insomma, a duecento chilometri, 
                  mezzora di volo, ci sono i caccia. La cosa fa una certa impressione. 
                  La Siria era governata, da circa tre anni, da un uomo che la 
                  stampa chiama Assad. Il suo nome completo è Bashar Afiz 
                  al-Assad. È un esponente di un partito che si chiama 
                  Ba'th, comunemente definito Partito Arabo Socialista, per distinguerlo 
                  dalla sua costola irachena, pure chiamata Ba'th, ma frutto di 
                  una scissione avvenuta nel 1966. 
                  Il Ba'th nasce nel 1947, fondato da al-Bitar, un intellettuale 
                  siriano che, nato nel 1912, era cresciuto nel contesto culturale 
                  della grande delusione che aveva seguito la fallita rivoluzione 
                  siriana del 1925, una rivolta contro il dominio coloniale francese 
                  che aveva tentato di ottenere l'indipendenza, senza riuscirci. 
                  Come anche l'altro fondatore, 'Aflaq, al-Bitar era damasceno 
                  e i loro ricordi della prima adolescenza si legavano alla difesa 
                  militare della città contro le truppe francesi, poi fallita. 
                  Cercare di comprendere le categorie politiche del mondo mediorientale 
                  attraverso le nostre definizioni di destra e di sinistra è 
                  un esercizio sterile e al contempo molto complesso. Questa precisazione 
                  vale per l'epoca in cui viviamo, e vale anche per le epoche 
                  che l'hanno preceduta. Vi sono, chiaramente, forti fattori economici 
                  e questioni di assi internazionali, e tutti questi fattori sono 
                  variabili nel tempo in base a contesti più ampi. 
                  La storia del Medio Oriente è, in gran parte, e nei decenni 
                  del dopoguerra quasi per intero, legata al partito del Ba'th. 
                  E il partito del Ba'th fu, prima di tutto e prima di qualsiasi 
                  asse di pensiero ideologico o socio-economico, una forza anticoloniale. 
                  Leggiamo i romanzi di Agatha Christie. Ci sono inglesi e francesi 
                  dappertutto. Leggiamo la storia delle scoperte archeologiche 
                  nel primo Novecento: inglesi, e francesi, dappertutto. Nel 1925, 
                  la Siria non era riuscita a scacciarli, ottenendo solo una ridiscussione 
                  dei termini dei mandati. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l'esigenza 
                  di un nuovo tentativo era imprescindibile. 
                  Il dominio francese in Siria datava al 1920. Il regno indipendente 
                  aveva avuto storia breve. Era nato nel 1918 con la caduta dell'impero 
                  ottomano, era stato smantellato dalle forze coloniali nel giro 
                  di un paio d'anni. La battaglia finale che portò alla 
                  conquista francese, avvenuta a Maysalun, a una decina di chilometri 
                  da Damasco, fu uno dei più vili massacri della storia 
                  coloniale nel Medio Oriente. 3000 soldati della resistenza, 
                  che appoggiavano la sovranità del re, vennero massacrati 
                  da un'armata di 9000 europei, meglio armati e meglio equipaggiati. 
                  E dalla dominazione francese, dopo la seconda guerra mondiale, 
                  la Siria non si era ancora liberata. Lo fece nel 1946. A una 
                  serie di manifestazioni da parte della società civile, 
                  cui la Francia rispose a suon di bombe, seguì un deciso 
                  intervento degli inglesi, che erano molto attenti a ridurre 
                  le influenze di altri europei nella regione: se non lo avessero 
                  fatto, forse, le prime battute della Guerra Fredda avrebbero 
                  preso una piega differente. 
                  Il Ba'th nacque l'anno successivo. Era una forza anti-colonialista 
                  che dal Libano e dalla Siria si diffuse in altri paesi dello 
                  scacchiere. All'epoca, la nascita di Israele costituiva un nodo 
                  cruciale del pensiero politico mediorientale. Era un aribitrato 
                  europeo, che prendeva forma in un momento in cui la regione 
                  spingeva in direzione di una forte autodeterminazione delle 
                  nazioni, e, in certe sue forme, di una macronazione araba. Ma 
                  non c'è religione forte abbastanza da tenere uniti i 
                  sentieri di realtà e nazioni differenti. Dopo “il 
                  disastro” (al-nakba), ovvero la rovinosa guerra arabo-israeliana 
                  del 1948, la Siria conobbe una catena di colpi di stato e cambi 
                  di governo e un breve periodo di unione con l'Egitto di Nasser. 
                  Fu solo dopo lo scioglimento della Repubblica Araba Unita che 
                  il Ba'th prese il potere a Damasco, nel 1963, ma l'etichetta 
                  socialista non era destinata a produrre un programma politico 
                  coerente nei diversi stati in cui il partito andava affermandosi. 
                  Nel 1966, all'alba della Guerra dei Sei Giorni, un nuovo conflitto 
                  incentrato sulla questione israeliana, il Ba'th siriano ebbe 
                  una svolta autoritaria, che portò alla scissione dal 
                  Ba'th iracheno (allineato alla cosiddetta “sinistra” 
                  araba), e alla presa di potere, nel 1971, da parte di un militare, 
                  Hafiz al-Assad, il padre dell'attuale presidente. Assad Sr. 
                  dovette far fronte a gravi problemi di stabilità interna 
                  al paese, che lo portarono a sviluppare una dittatura monopartitica 
                  con forte esercizio dell'autorità di polizia, e per perseguire 
                  questa stabilità percorse la via dell'uniformazione religiosa 
                  islamica: represse minoranze curde privandole della cittadinanza, 
                  ma la sua appartenenza alla setta alauita dell'islam sciita 
                  lo portò ad affrontare severe opposizioni dei sunniti 
                  conservatori, in particolare in seguito al suo sempre maggior 
                  allineamento al blocco sovietico. 
                  La crescita del movimento dei Fratelli Musulmani si colloca 
                  in questo contesto. Una delle prime sanguinose battaglie civili 
                  che opposero il movimento estremista sunnita alle politiche 
                  del dittatore prende il nome di Massacro di Hama. Avvenne nel 
                  1982, e vi persero la vita un migliaio di soldati dell'esercito 
                  regolare e dai seimila ai trentamila civili. Nel frattempo, 
                  mentre il Ba'th siriano inseguiva al tempo stesso una secolarizzazione 
                  delle istituzioni della cosiddetta repubblica e una generalizzazione 
                  del culto islamico nel paese, il Ba'th iracheno aveva preso 
                  il potere, prima con il colpo di stato di Hasan al-Bakr e poi 
                  con la successione del suo braccio destro Saddam Hussein, la 
                  cui politica interna mirava pure a una laicizzazione dello stato 
                  (l'Iraq abolì presto la Sharia in favore di un sistema 
                  di codice civile di stampo europeo), e la cui politica estera 
                  mirava alla supremazia politica ed economica sull'Iran, altra 
                  grande potenza sciita della regione. Per far questo, ottenne 
                  il sostegno degli Stati Uniti, che avrebbe perduto nel 1990 
                  quando invase il Kuwait. 
                  La Siria di Assad Sr. fu costantemente segnata da un forte interesse 
                  nei confronti del problema palestinese; tuttavia, occorre considerare 
                  il bilancio propagandistico della questione e la formazione 
                  di Yasir Arafat, per comprendere i motivi del mancato appoggio 
                  siriano alle organizzazioni locali palestinesi. Arafat si era 
                  formato nel movimento dei Fratelli Musulmani, i cui rapporti 
                  col Ba'th erano difficili. Assad preferì dunque sostenere 
                  altri tipi di gruppi anti-israeliani, come il libanese Hezbollah 
                  e, ovviamente, Hamas. Lo faceva con una mano, mentre con l'altra 
                  aderiva alle indicazioni delle Nazioni Unite. Sul fronte del 
                  Kuwait, Assad Sr. appoggiò gli americani nelle operazioni 
                  anti-irachene. Probabilmente, la memoria storica è breve 
                  nella campagne della jazirah, o forse l'unione culturale supera 
                  i confini dei disastri passati quando si affrontano quelli futuri, 
                  perché nel 2003, per le persone che ho conosciuto a Deir-ez-Zawr, 
                  Saddam Hussein era invece un martire e un eroe. 
                  Assad Sr. morì nel 2000, e dopo un breve interregno istituzionale 
                  fu succeduto, secondo il meccanismo monopartitico e plebiscitario 
                  della repubblica islamica, da suo figlio Bashar-al-Assad. Il 
                  suo tempo entra nella piccola storia della mia vita in Siria, 
                  durata circa cinque mesi, due e mezzo nell'autunno del 2003, 
                  due e mezzo nell'autunno del 2005. Bashar-al-Assad ha tentato 
                  un processo di graduale liberalizzazione della vita civile nel 
                  paese. Ad esempio, nel 2003, quando lasciai la Siria, in aeroporto 
                  dovetti consegnare le SIM del cellulare locale, che venne tagliata 
                  dai poliziotti davanti ai miei occhi. Nel 2005, questo fenomeno 
                  era cessato. Ma la liberalizzazione che aveva avviato Assad 
                  Jr. non se la poteva permettere, e lo capì molto presto. 
                  I tempi cambiavano, e si rendeva necessario un traumatico cambio 
                  di rotta. 
                  Quanto sia stato traumatico, non è difficile immaginarlo. 
                  Io ho lasciato la Siria per l'ultima volta ai primi di novembre 
                  del 2005. Era un paese in cui, sebbene da un po' di tempo l'accesso 
                  a internet fosse aperto, sebbene le donne, soprattutto a Damasco 
                  e Aleppo, mostrassero visi e persino gambe in maniera sorprendentemente 
                  libera, a seconda dei credi di adesione – resta inteso 
                  -, e sebbene nelle città gli uomini istruiti almeno al 
                  punto di saper leggere il giornale di moglie ne avevano una 
                  sola, le periferie iniziavano a dare segnali strani. 
                  Nel 2003, le barbe venivano tagliate. Nel 2003, Hussein era 
                  un martire, l'America un aggressore, ma si respirava ancora 
                  un senso di liberazione, per l'allentamento della morsa sulle 
                  libertà civili dopo la morte di Assad Sr. Gli italiani, 
                  gli europei, erano visti con simpatia. Nel 2005, le minacce 
                  occidentali e l'aumento della tensione erano vissute, dagli 
                  uomini della regione un po' sperduta in cui ho abitato, come 
                  delle gravi minacce alla sovranità della Siria. Le barbe 
                  si allungavano, le donne avevano il viso coperto. Voi state 
                  con Israele. Noi stiamo con Assad. (Non dite mai “Israele”, 
                  si raccomandavano i capi dello scavo archeologico. Dite “Disneyland”.) 
                  Il tema portante della politica estera di Assad Jr. era, infatti, 
                  rimasto più o meno quello che aveva caratterizzato quella 
                  di suo padre. Ma il contesto del conflitto palestinese, negli 
                  anni recenti, è cambiato. Il sostegno nei confronti di 
                  organizzazioni estremiste come Hezbollah comporta, dopo la crescita 
                  di visibilità di movimenti come quello dei Fratelli Musulmani 
                  nel contesto della cosiddetta Primavera Araba del 2010-2011, 
                  la nascita di una forte opposizione interna, che è stata 
                  una dei motori principali dello scoppio, anche in Siria, di 
                  una guerra civile. A questo punto, potrei prendere un tono patetico. 
                  Elencare i nomi di città e cittadine dove ho conosciuto 
                  delle persone, e che ora, stando alle ultime notizie che ho 
                  avuto, sono state devastate. O parlare della storia di un ragazzo 
                  siriano di 25 anni, rapito col suo taxi qualche mese fa, ad 
                  Aleppo. E dire che, ad Aleppo, il padre per riavere il figlio 
                  ha dovuto pagare 5000$ (lo abbiamo aiutato noi, i vecchi amici), 
                  ma per riavere il taxi ne avrebbe dovuti pagare 20'000. Ma queste 
                  forse sono le cose che accadono in ogni guerra. 
                  Mi accontento invece di aver raccontato una storia che mi appassiona, 
                  su un paese che ho, per un po' anche se per poco, vissuto in 
                  prima persona. Un pezzo di me, però, è rimasto 
                  a Damasco, nell'ufficio di un falsario “legale”, 
                  un artista che crea riproduzioni di antichità e le vende 
                  (repliche di tavolette cuneiformi, oggetti in metallo, in legno), 
                  un pomeriggio di novembre del 2005. C'era appesa una foto al 
                  muro, una foto che da noi, credo, farebbe fatica ad arrivare. 
                  Ritraeva un bambino di dieci anni, un musulmano palestinese, 
                  con una divisa verde. Il bambino guardava in camera, nell'istante 
                  in cui sulla sua fronte si apriva un terzo occhio, rosso, il 
                  foro di un proiettile. Ecco, io là ci ho lasciato qualcosa, 
                  in quella stanza, di fronte a un'immagine che rappresenta alla 
                  perfezione la complessità di un mondo che a volte l'Occidente 
                  osserva con occhio troppo distratto, finché non sono 
                  i suoni delle bombe a ricordarci quanto è piccolo il 
                  mare che lo separa dalle nostre vite. 
                 Federico Giusfredi 
                 
                 
                  Ricordando Antonia Fontanillas/ 
                  Una compagna instancabile e solidale 
                L'affetto che Antonia ha regalato, anche a me e a diversi compagni 
                  e compagne italiane, era forte come le sue convinzioni libertarie. 
                  Ci conoscemmo nel 1983, alle Giornate Culturali del Congresso 
                  della CNT che si svolgeva a Barcellona, e mi aiutò subito 
                  nelle ricerche storiche con puntualità e precisione. 
                  Le piaceva ricorrere alla sua vasta biblioteca, eredità 
                  di una famiglia di storica militanza, per fornirmi fotocopie 
                  di articoli di difficile reperimento. E accompagnava questi 
                  regali preziosi con una serie di considerazioni di più 
                  ampio respiro. Conversare con lei era un piacere che ci guidava 
                  dentro i problemi di ieri e di oggi dell'anarchismo (e non solo 
                  in Spagna), delle sue lotte, dei suoi principi e dei suoi inevitabili 
                  limiti e contraddizioni. 
                  Provava una particolare soddisfazione nel far visitare, purtroppo 
                  solo dall'esterno, gli edifici nei quali si realizzarono i passi 
                  avanti sulla strada della rivoluzione antiautoritaria nella 
                  Barcellona del 1936. Qui c'era la sede delle Juventudes Libertarias, 
                  lì dell'Ateneo Libertario e non molto lontano del cruciale 
                  Sindacato della CNT della Madera. E non trascurò, con 
                  un ritorno al passato più remoto, la modesta abitazione 
                  della famiglia Fontanillas Borras nella cupa Calle Robador del 
                  povero (e malfamato per i borghesi) Barrio Chino. Oggi quest'ultimo 
                  edificio non esiste più, vittima dello sventramento “modernizzatore” 
                  e “bonificatore” di qualche anno fa. Non poteva 
                  poi mancare la famosa ed enorme Casa della Regional della CNT, 
                  già Casa Cambò e al momento della nostra visita 
                  ormai sede del potente Fomento, struttura economica legata al 
                  franchismo. 
                  Di sicuro Antonia era assai sensibile ai valori delle organizzazioni 
                  libertarie che hanno costituito la costante di tutta la sua 
                  vita, ma disponeva, come ácrata coerente, di un'ottica 
                  individuale e non temeva di assumere talvolta posizioni critiche 
                  nei confronti di certe scelte, passate e presenti, dell'anarcosindacalismo 
                  e del movimento specifico. Più volte rievocò la 
                  sua personale scelta, condivisa da altre compagne, di non partecipare 
                  al movimento delle Mujeres Libres alle cui militanti peraltro 
                  attribuiva un grande significato. Su questo tema sorprendeva 
                  compagne e compagni stranieri abbeverati alle numerose pubblicazioni 
                  che esaltavano ML come l'avanguardia nella battaglia per la 
                  liberazione del genere femminile. La spiegazione di questa distanza 
                  risiedeva sia in un'evidente differenza generazionale (più 
                  mature le ML, più adolescenti lei e le altre delle Juventudes 
                  Libertarias) sia in una valutazione classica: la lotta delle 
                  anarchiche non poteva scindersi da quella più ampia che 
                  coinvolgeva tutte e tutti. L'ideale e l'obiettivo della totale 
                  emancipazione degli esseri umani dall'oppressione capitalista 
                  e statale costituivano un impegno comune. Secondo quanto ci 
                  comunicava Antonia, le compagne avrebbero dato un migliore contributo 
                  allo sforzo sovrumano del 1936-39 collaborando strettamente 
                  con i compagni dentro la CNT e la FAI. 
                  Questa presa di posizione poteva sembrare poco sensibile al 
                  nuovo clima diffuso anche in Spagna dopo la fine di Franco (che 
                  non significava la fine del franchismo, ci teneva a precisare). 
                  Ma non le impediva di dedicarsi a scrivere una biografia di 
                  Lucía Sánchez Saornil, una delle principali esponenti 
                  di ML. Antonia era affascinata dalla sua personalità 
                  controcorrente e dalla sua sensibilità poetica e letteraria 
                  e negli ultimi anni volle concretizzare questo sforzo di redazione 
                  storica. 
                  Un'altra valutazione poco scontata era la sua riserva sulla 
                  efficacia della lotta armata clandestina condotta dall'anarchismo 
                  spagnolo. Secondo lei, nel tracciare un bilancio complessivo 
                  dell'esperienza, alla quale aveva comunque partecipato, le organizzazioni 
                  libertarie fecero delle scelte e delle modalità sbagliate, 
                  per quanto eroiche. I militanti più generosi e coraggiosi 
                  si sacrificarono per portare a termine qualche azione di attacco 
                  al franchismo e ai franchisti in una cornice assai sfavorevole. 
                  Il contesto negativo era purtroppo insuperabile non solo per 
                  la prevedibile repressione capillare del sistema dominante, 
                  ma anche per la difficoltà di svolgere una propaganda 
                  di più ampio respiro. In quella Spagna terrorizzata dal 
                  regime era quasi impossibile far comprendere agli interlocutori 
                  naturali - il popolo degli sfruttati e degli oppressi -, le 
                  ragioni di fondo del movimento che – Antonia lo ricordava 
                  spesso -, risiedevano sostanzialmente in un messaggio, pratico 
                  e teorico, di uguaglianza nella libertà. Anche in questo 
                  caso, i suoi dubbi non le impedirono di solidarizzare con chi 
                  si trovava in prigione in seguito all'attività clandestina. 
                  Basti ricordare che la giovane Antonia conobbe Diego Camacho 
                  negli anni Cinquanta, quando il futuro Abel Paz era ristretto 
                  in un carcere barcellonese. E va ricordato che lei continuò 
                  a considerarlo, anche dopo la separazione, un “compagno 
                  speciale” nelle lettere che scrisse fino a qualche mese 
                  fa, l'estate scorsa. 
                  Nel complesso l'eredità di Antonia, al di là di 
                  ogni retorica e agiografia, ci mostra la dimensione individuale 
                  di un impegno ideale e concreto. Questa esistenza fornisce un 
                  esempio di come e quanto l'aspirazione ad un mondo denso di 
                  alti valori etici possa resistere durante una lunga vita. In 
                  quasi un secolo percorso, logicamente con i suoi alti e bassi, 
                  Antonia ha partecipato senza riserve a un movimento che ha l'ambizione 
                  utopistica di rendere libera l'umanità intera.  
                 Claudio Venza 
                 P.S. Il 30 dicembre 2014 a Barcellona, nella Biblioteca Arús, 
                  si è svolto un Homenaje a Antonia Fontanillas curato 
                  da Sonya Torres, storica dell'anarchismo e sua stretta collaboratrice. 
                  In precedenza c'era stata una manifestazione pubblica con la 
                  collocazione di una lapide in Calle Robador, nel popolare e 
                  centrale rione del Raval (o Barrio Chino). Durante le tre ore 
                  alla Arùs si sono susseguiti molti interventi dando vita 
                  a una “memoria trasformata in esperienza vitale”.Si 
                  sono recitati brani di e su Antonia, si è cantato, si 
                  sono eseguiti numerosi brani musicali e teatrali. Inoltre era 
                  visibile una ricca esposizione di documenti e immagini sulla 
                  sua lunga militanza e si è presentato il volume postumo 
                  con la biografia della militante di Mujeres Libres, Lucia Sánchez 
                  Saornil, un obiettivo che finalmente si è realizzato, 
                  anche se postumo. 
				  
                 
                
                   
                    Qualche 
                        fiore per Antonia 
                      Conobbi 
                        Antonia Fontanillas e Pepita Carpena nell'incontro “Anarchica, 
                        riflessioni sulla diseguaglianza sessuale” a Lyon 
                        nel 1987. 
                        Entrambe sono venute a Lussemburgo nel giugno del 97, 
                        per partecipare ai dibattiti sui film “Libertarias” 
                        e  “De toda la vida”. Chi potrebbe dimenticare 
                        queste due militanti e dirigenti libertarie, che non esitavano 
                        ad esprimere il loro disaccordo su parecchi aspetti? Niente 
                        a che vedere con i conferenzieri politici all'uso dovunque, 
                        e ancora meno in un paese che allora non aveva nemmeno 
                        l'università e dove tuttora la libertà d'espressione 
                        è troppo timida. Durante i giorni lussemburghesi, 
                        si sono consolidati gli affetti con tutte e due. Su Pepita 
                        mi esprimerò in un'altra occasione. In questa mi 
                        è stato chiesto di scrivere qualche riga in ricordo 
                        di Antonia. Poco facile. 
                        Oltre alla lucidità, cultura, vivacità ed 
                        intelligenza di Antonia, tre cose mi rimarranno impresse 
                        sempre: il suo coraggio di vivere, il suo amore per i 
                        fiori e la sua voce chiara, con la quale cantava un vastissimo 
                        repertorio messicano e catalano.  Era sempre felice 
                        quando le dicevo che ogni bel fiore che vedevo mi faceva 
                        pensare a lei. E, infatti, se le mandavo qualche cartolina 
                        con dei fiori, Antonia, che curava come nessuno gli scambi 
                        epistolari, mi faceva arrivare una lettera con delle fotocopie 
                        di fotografie di fiori fatte da lei. 
                        In una delle ultime conversazioni telefoniche, mi fece 
                        capire che era stanca, che si sentiva mancare le forze. 
                        Continui a cantare? –mi chiese. Certo –risposi. 
                        Allora abbiamo cantato insieme il passaggio di un bolero. 
                        La sua voce era rimasta chiara e la sua memoria intatta. 
                        Lei, però, non era soddisfatta. Vedi? –mi 
                        disse. Questo mi dispiace, di non avere più tanta 
                        forza per cantare, perché respiro male. Ma sai 
                        cosa faccio? Quando mi corico, mi canto mentalmente le 
                        canzoni che amo di più e così mi posso addormentare. 
                        Bella, cara, dolce, energica, coraggiosa Antonia, grazie 
                        dei fiori, delle canzoni, dell'esempio. Averti incontrata 
                        ci aiuta a voler essere migliori.  
                       
                        Paca Rimbau Hernández  | 
                   
                 
				 
                 
                
                   
                    Vita 
                        di Antonia 
                       
                        Nata a Barcellona nel 1917, in una famiglia di militanti 
                        anarchici, si trasferisce in Messico a otto anni restando 
                        fino al 1933, quando suo padre viene espulso per ragioni 
                        politiche. Nell'ambiente messicano effervescente e stimolante, 
                        sviluppa la grande attenzione di tutta la vita verso i 
                        libri, le riviste, la stampa di tipo sociale e letterario. 
                        Tornata con i suoi a Barcellona, trova lavoro in una litografia 
                        e si iscrive subito alla CNT e alle Juventudes Libertarias 
                        dove è molto attiva. Nell'estate del 1936 (come 
                        risulta anche dal suo racconto pubblicato sul numero speciale 
                        di “Volontà” dal titolo “Spagna 
                        1936. L'utopia è storia” del 1996) cerca 
                        di partecipare allo sfortunato sbarco su Majorca caduta 
                        in mano ai golpisti, ma è troppo giovane per un'impresa 
                        di quel tipo. Partecipa alla gestione della litografia 
                        Riusset dove spinge per la collettivizzazione che però 
                        non è accettata dagli operai. Lavora nell'amministrazione 
                        del quotidiano anarcosindacalista “Solidaridad Obrera” 
                        che viene soppresso dai franchisti nel gennaio 1939, appena 
                        conquistata la metropoli catalana. 
                        Si dedica quindi alla stampa clandestina della “Soli” 
                        e poi di “Ruta”, altro foglio libertario che 
                        ospita i suoi primi articoli. Nell'impegno di solidarietà 
                        verso i detenuti libertari conosce Diego Camacho, alias 
                        Abel Paz, a cui si unisce per rifugiarsi nel 1953 in Francia. 
                        Qui mantiene contatti stretti con il gruppo del guerrigliero 
                        Quico Sabaté, ucciso dai franchisti nel 1960 e 
                        si impegna intensamente nei campeggi internazionali promossi 
                        dalla gioventù anarchica e in attività teatrali 
                        e culturali di propaganda libertaria. Collabora alla rivista 
                        “Frente Libertario”, una testata di lunga 
                        durata, edita in Francia da esiliati, e su posizioni indipendenti 
                        dalle grandi organizzazioni spagnole. Dopo la morte di 
                        Franco è presente a tutti i congressi della CNT 
                        ricostituita fino al 1983 e poi della CGT, sorta come 
                        scissione dalla CNT. Partecipa a frequenti incontri culturali 
                        e politici di carattere antiautoritario in Francia, Spagna 
                        e Italia. A Torino, nel 1997, porta le critiche anarchiche 
                        alla propaganda filosovietica che ancora è presente 
                        in certe commemorazioni e ricostruzioni storiche antifasciste. 
                        Per decenni sostiene il superamento delle divergenze tra 
                        libertari e anarcosindacalisti di varie tendenze dando 
                        più spazio, teorico e pratico, alle notevoli affinità 
                        e meno alle indubbie differenziazioni. 
                        Scrive, da sola o con altri, vari libri preferendo dar 
                        corpo a biografie di importanti militanti, uomini e donne: 
                        dalle promotrici di Mujeres Libres a Lola Iturbe, redattrice 
                        di “Tierra y libertad”, da Germinal Gracia 
                        (alias Victor García), conoscitore di molti movimenti 
                        di rilievo internazionale, a Luce Fabbri. Anche grazie 
                        ad Antonia si realizza, nel Maggio del 2007, un numero 
                        eccezionale della “Soli” sia per gli articoli 
                        sia per l'inedito spirito di collaborazione. Quell'edizione 
                        della “Soli”, di notevole spessore e qualità, 
                        viene curata e diffusa da entrambi i rami principali dell'anarcosindacalismo 
                        spagnolo (CNT e CGT). Continua fino agli ultimi giorni 
                        a mantenere positivi rapporti con giovani militanti ai 
                        quali comunica un entusiasmo e una fraternità di 
                        livello elevato. 
                       
                        c.v. 
                      
                         
                            | 
                            | 
                         
                         
                          |   Antonia Fontanillas (Barcellona 1917-Dreux 2014)  | 
                         
                       
                       | 
                   
                 
                  
                 
                 
                  Naga 2014/ 
                  Stanno tutti bene 
                L'Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria 
                  e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti (Naga) ha 
                  svolto un'indagine sulle condizioni socio-sanitarie ed economiche 
                  della popolazione immigrata in Italia. L'analisi dei dati raccolti 
                  dal Naga tra il 2009 e il 2013 permette di ricostruire la composizione 
                  dell'immigrazione irregolare e di dare una lettura diversa degli 
                  effetti della crisi economica. 
                  I risultati della ricerca sono stati inseriti nel Rapporto Naga 
                  2014, di cui pubblichiamo le conclusioni.
                    
                  Il Naga offre da quasi trent'anni assistenza sanitaria gratuita 
                  ai cittadini stranieri - non in regola con il permesso di soggiorno 
                  o neocomunitari che non hanno accesso alle prestazioni del Servizio 
                  Sanitario Nazionale. Data la peculiarità della sua utenza, 
                  i dati Naga rappresentano una fonte di informazione originale 
                  e privilegiata sul fenomeno dell'immigrazione a Milano. Essi 
                  consentono di documentare l'evolversi nel tempo delle caratteristiche 
                  demografiche e socio-economiche di una popolazione che sfugge 
                  sostanzialmente alle rilevazioni statistiche ufficiali. 
                  Questo rapporto ha analizzato i dati raccolti dal Naga sui circa 
                  15.000 utenti che tra il 2009 e il 2013 si sono recati per la 
                  prima volta al Naga (il numero totale di visite nel corso di 
                  questi anni è stato circa 4 volte superiore, ma le informazioni 
                  socio-demografiche sul migrante sono relative solo al momento 
                  della prima visita). Particolare attenzione è stata prestata 
                  ai 2.417 utenti che hanno raggiunto il Naga per la prima volta 
                  nel 2013. Il Rapporto ha analizzato le caratteristiche del campione 
                  Naga, con riferimento, in particolare, a nazionalità, 
                  genere, situazione familiare, anzianità migratoria, livello 
                  di istruzione, situazione abitativa e condizione lavorativa. 
                  Lo studio ha anche considerato le interazioni più significative 
                  fra queste variabili. [...] 
                  Sebbene il profilo demografico dell'utenza Naga sia rimasto 
                  relativamente stabile nel tempo, a partire dal 2008 si assiste 
                  ad un fortissimo peggioramento degli esiti lavorativi del nostro 
                  campione. Lo studio documenta infatti come la crisi economica 
                  abbia sortito effetti molto pesanti sui tassi di occupazione 
                  degli utenti Naga e sulla stabilità percepita del posto 
                  di lavoro, per i pochi che ce I'hanno. In particolare, la percentuale 
                  di occupati sugli attivi nel campione Naga è passata 
                  dal 63% nel 2008 al 36% del 2013; la riduzione è stata 
                  di oltre 10 punti percentuali per la componente femminile. Contestualmente, 
                  la percentuale di coloro che percepisce come relativamente stabile 
                  il proprio lavoro (occupazione permanente) è passata 
                  dal 52% del 2008 a meno del 25% del 2013. È inoltre sensibilmente 
                  peggiorata la condizione abitativa del campione, con un preoccupante 
                  aumento dei senza fissa dimora. 
                  L'interpretazione delle cause di questi fenomeni estremamente 
                  complessi esula dagìi obiettivi del presente Rapporto, 
                  che più modestamente intende offrire evidenza statistica 
                  originale su un fenomeno altrimenti sconosciuto. Eppure, almeno 
                  due conclusioni possono essere tratte dallo studio. 
                  In primo luogo, il timore che l'immigrazione stia penalizzando 
                  i lavoratori italiani dal mercato del lavoro non trova riscontro 
                  empirico nei dati. Questo timore nasce dalla tesi secondo la 
                  quale i lavoratori immigrati (soprattutto irregolari) esercitano 
                  nel mercato del lavoro una concorrenza sleale “al ribasso” 
                  nei confronti degli italiani. Di conseguenza, la loro presenza 
                  spiazzerebbe la forza lavoro autoctona aumentandone la disoccupazione. 
                  Da un punto di vista empirico, questa tesi implica andamenti 
                  speculari nei tassi di occupazione nelle due popolazioni (immigrati 
                  e nativi), il che è ampiamente smentito dai fatti. In 
                  altre parole, non vi è evidenza di una riduzione dei 
                  tassi di occupazione degli italiani cui corrisponde un aumento 
                  (o una minore riduzione) dei tassi di occupazione dei lavoratori 
                  immigrati. Al contrario, i dati relativi ai tassi di occupazione 
                  di italiani, stranieri regolari e irregolari. provenienti da 
                  tre differenti fonti statistiche ISTAT, ISMU e, appunto, Naga 
                  puntano sulla crisi economica iniziata nel 2008 quale causa 
                  dell'aumento della disoccupazione. La riduzione dei tassi di 
                  occupazione ha colpito tutti i tre gruppi, ma si è abbattuta 
                  con particolare virulenza sulla popolazione irregolarmente presente 
                  in Italia. 
                  ln secondo luogo, i risultati dello studio suggeriscono con 
                  forza la necessità di appropriati interventi pubblici. 
                  I dati non consentono di distinguere fra due possibili cause 
                  fra loro complementari della maggiore vulnerabilità alla 
                  crisi del campione Naga. La prima vede gli immigrati del campione 
                  inseriti in un segmento del mercato del lavoro particolarmente 
                  fragile e maggiormente esposto alle conseguenze occupazionali 
                  della crisi economica. La seconda spiegazione rimanda al processo 
                  di autoselezione degli immigrati che si rivolgono al Naga: come 
                  ampiamente discusso nel rapporto, lo status occupazionale degli 
                  immigrati influenza sia la possibilità di avere il permesso 
                  di soggiorno che quella di accedere pienamente al Servizio Sanitario 
                  Nazionale. Di conseguenza, nell'utenza Naga sarebbero sovrarappresentati 
                  gli immigrati privi di (regolare) lavoro. 
                  ll corto circuito tra mancanza di lavoro (regolare o meno), 
                  difficoltà nell'ottenere (e mantenere) iregolari documenti 
                  di soggiorno e le limitazioni all'accesso alle cure attraverso 
                  il servizio sanitario pubblico è acuito dalla crisi e 
                  alimenta una condizione di rischio per la salute e in generale 
                  per le condizioni di vita delle persone che si trovano in questa 
                  morsa. Una situazione che richiede un'attenta riflessione e 
                  interventi mirati in termini di salute, legislativi - slegando 
                  il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro - e di tutela 
                  dei diritti in specifici segmenti del mercato del lavoro. 
                 Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria 
                  e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti 
                  Via Zamenhof 7/A, 20136 Milano 
                  Tel: 0258102599 - Fax: 028392927 
                  naga@naga.it 
                
                   
                    Chi 
                        siamo  
                      Il 
                        Naga è un'associazione di volontariato laica e 
                        apartitica che si è costituita a Milano nel 1987 
                        allo scopo di promuovere e di tutelare i diritti di tutti 
                        i cittadini stranieri, rom e sinti senza discriminazione 
                        alcuna. Il Naga riconosce nella salute un diritto inalienabile 
                        dell'individuo. Il contatto diretto e quotidiano con stranieri 
                        irregolari e non, rom e sinti permette di interpretarne 
                        i bisogni e di individuare risposte concrete, nonché 
                        di avanzare proposte, richieste, rivendicazioni nei confronti 
                        di strutture sanitarie e istituzioni politiche. Gli oltre 
                        300 volontari del Naga garantiscono assistenza sanitaria, 
                        legale e sociale gratuita a cittadini stranieri irregolari 
                        e non, a rom, sinti, richiedenti asilo, rifugiati e vittime 
                        della tortura oltre a portare avanti attività di 
                        formazione, documentazione e lobbying sulle istituzioni. 
                        L'associazione non si pone in alternativa o in concorrenza 
                        con i servizi sanitari pubblici, né desidera deleghe 
                        nell'ambito di un settore che rientra tra le funzioni 
                        preminenti dello Stato sociale; si propone, anzi, di estinguersi 
                        come inevitabile conseguenza dell'assunzione concreta 
                        e diretta del “problema” da parte degli organismi 
                        pubblici preposti. 
                        In un anno, vengono svolte dal Naga più di 15.000 
                        visite ambulatoriali, oltre 800 persone che vivono nelle 
                        aree dismesse della città vengono contattate dal 
                        servizio di Medicina di Strada, centinaia sono i lavoratori 
                        di strada cui i volontari dell'unità di strada 
                        Cabiria offrono un servizio di prevenzione e riduzione 
                        del danno sanitario, centinaia sono i soggetti cui l'associazione 
                        offre tutela legale gratuita. Dal 2001, inoltre, i volontari 
                        del Centro Naga Har prestano assistenza legale e sociale 
                        a richiedenti asilo, rifugiati e vittime della tortura. 
                         
                       
                        Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria 
                  e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti 
                  Via Zamenhof 7/A, 20136 Milano 
                  Tel: 0258102599 - Fax: 028392927 
                  naga@naga.it  | 
                   
                 
                 
                
  
                   
                Argentina/ 
                  Bicimacchine in Patagonia 
                Il progetto di costruire bicimacchine in Patagonia è 
                  nato con l'idea di aiutare la comunità/casa ecologica 
                  autosostenibile Kalewche, situata nel villaggio di Cholila (Chubut, 
                  Argentina). In quel momento a Kalewche il sistema per pompare 
                  l'acqua dal lago sottostante fino a casa, generato da un motore 
                  eolico, smise di funzionare. Così la casa restò 
                  senz'acqua mettendo in difficoltà i suoi abitanti e fondatori: 
                  Darìo Calfunao e Laura Volentini, attivisti mapuche e 
                  permacultori. Questa ci è sembrata una buona occasione 
                  per diffondere la tecnologia delle bicimacchine in questo territorio, 
                  e aiutare al tempo stesso Darìo e Laura. 
                  Abbiamo cominciato a pianificare e costruire un prototipo di 
                  bici pompa d'acqua della tipologia “da pozzo”, che 
                  secondo noi poteva permettere di pompare l'acqua dal lago (Mosquito) 
                  fino alla casa Kalewche (elevando l'acqua per un dislivello 
                  di 60 metri e per una distanza di 120 metri circa). Nel frattempo 
                  iniziò anche la ricerca di vecchie bici abbandonate, 
                  parti di bici e di macchinari (pompe, alternatori, frullatori, 
                  macine, ecc.) e tutto ciò che poteva servire per fare 
                  delle bicimacchine. 
                  Si cominciò anche a preparare lo spazio di lavoro nell'abitato 
                  di Cholila, all'ostello Piuke Mapu dove c'era disponibilità 
                  di energia elettrica, che a Kalewche mancava. Il progetto di 
                  costruire la bici pompa da pozzo restò in disparte, dopo 
                  aver parlato con Darìo e Laura che non vedevano così 
                  necessaria la possibilità di riuscire a pompare l'acqua 
                  dal lago fino alla casa con una o più bicimacchine, poiché 
                  avevano già preso misure per soluzioni convenzionali. 
                  Così abbiamo deciso di comune accordo di costruire altri 
                  tipi di bicimacchine per diffondere questa tecnologia nella 
                  regione, attraverso corsi e esposizioni. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Esposizione 
                        di bicimacchine e offerta di bici-frullati a un evento 
                        per i desaparecidos di Cholila  | 
                   
                  
                      | 
                   
                 
                 All'ostello Piuke Mapu vennero realizzate nel giro di una 
                  settimana una bici pompa mobile e un bici-frullatore. Questo 
                  utilizzando delle bici trovate nella discarica di Cholila, una 
                  pompa elettrica fuori uso regalata da alcuni amici di Lago Puelo 
                  e un vecchio frullatore semi-rottto che Laura aveva a Kalewche. 
                  Queste due bicimacchine vennero esposte ad un evento organizzato 
                  dai Vicini Autoconvocati di Cholila per il primo anniversario 
                  della scomparsa di due persone a Cholila. 
                  In questa presentazione abbiamo fatto bici-frullati e li abbiamo 
                  regalati ai partecipanti all'evento. La nostra azione richiamò 
                  molto l'attenzione e presto abbiamo preso contatto con varie 
                  persone che ci hanno offerto interviste alla radio e esposizioni 
                  nelle scuole. Ci è stato poi anche offerto di organizzare 
                  un corso nella Centrale di Trattamento di Esquel. 
                  Tre corsi, una tecnica 
                  Furono presenti al corso di Cholila 20 persone, tra gente del 
                  posto, della regione e viaggiatori che parteciparono portando 
                  bici, macchinari, strumenti e alcuni accessori. Altri solo prestarono 
                  il loro aiuto volontario. Il corso cominciò con una esposizione 
                  delle due bicimacchine che già avevamo costruito. I partecipanti 
                  poterono provare il bici-frullatore e per volontà di 
                  Darìo si provò anche la bici-pompa-mobile installando 
                  le tubazioni idrauliche e misurando i litri pompati al minuto. 
                  Dopo la tappa del primo corso abbiamo continuato a lavorare 
                  alcuni giorni per terminare la bici-macina e questo artefatto 
                  chiamò molto l'attenzione degli abitanti. Venne realizzato 
                  un secondo corso, promosso da alcune ragazze di un villaggio 
                  localizzato al limite tra le regioni di Rio Negro e Chubut. 
                  Questo corso fu molto particolare; abbiamo conosciuto gli abitanti 
                  del luogo che avevano molto interesse per le bicimacchine perché 
                  già avevano una macina per mele e un estrattore di sugo 
                  fatti di legno e adattati a un motore elettrico. 
                  Alcune persone del posto organizzarono la raccolta di materiali 
                  e noi abbiamo contribuito diffondendo il corso con mezzi digitali, 
                  nella gestione degli strumenti e con tre bicimacchine da esporre. 
                  Il corso andò molto bene, parteciparono persone che portarono 
                  banchi da lavoro e pezzi da adattare. 
                  Rientrati a Cholila, dopo alcune settimane di lavoro tra l'ostello 
                  e Kalewche, abbiamo realizzato diverse esposizioni nelle scuole 
                  della zona. Abbiamo partecipato a un'esposizione e ad un incontro 
                  nella scuola superiore di Cholila, una lezione nella Scuola 
                  d'arte di Lago Puelo e abbiamo fatto un'altra esposizione nella 
                  scuola elementare di Rio Blanco, un piccolo villaggio vicino. 
                  Avevamo già in programma un ultimo corso prima del nostro 
                  ritorno, quello all'impianto di trattamento rifiuti di Esquel. 
                  Durante questo corso siamo riusciti a terminare una bici-lavatrice 
                  e abbiamo cominciato la costruzione di un bici-frullatore con 
                  la partecipazione di varie persone di Esquel interessate alla 
                  tematica della tecnologia sostenibile. 
                  Il giorno seguente siamo andati alla comunità mapuche 
                  di Santa Rosa a Leleque, dove vive la famiglia Curiñanco 
                  nel territorio ancestrale recuperato all'usurpazione capitalista 
                  di Benetton e della Compañia de Tierras. Qui abbiamo 
                  consegnato la bici-lavatrice terminata durante il corso di Esquel 
                  alla comunità Santa Rosa. La bicimacchina venne accolta 
                  bene da questa famiglia e restò qualcosa in più 
                  del nostro passaggio per quelle terre. Lì a Santa Rosa 
                  abbiamo salutato Darìo che ritornò a Esquel, mentre 
                  noi ci siamo fermati per passare un po' di tempo nella comunità 
                  mapuche. 
                  È così che è terminato il progetto bicimacchine 
                  in Patagonia, un po' a malincuore perché ci sono state 
                  offerte possibilità di continuare a tenere corsi in altre 
                  parti della Patagonia, ma soddisfatti per quanto realizzato. 
                  Un documento video dal titolo “Bicimaquinas en Patagonia” 
                  è disponibile su YouTube. 
                 Questo scritto è dedicato alla piccola 
                  Wanda, che ha tragicamente lasciato sola sua madre Maga, nostra 
                  amica e compagna. 
                  “La saggezza consiste nell'arte di scoprire la speranza 
                  dietro al dolore.” 
                  Subcomandante Marcos 
                 Michele Salsi, Miguel Alberto Hidalgo 
                  del Collettivo Jaguar de Madera - Biocostruzioni e bicimacchine 
                  ark-michele@riseup.net 
                 Michele Salsi si è già occupato delle bicimacchine 
                  in “A” 
                  386 (febbraio 2014) con un articolo dal titolo “Teoria 
                  e pratica della tecnologia appropriata” 
                 
                 
                  Marco Camenisch/ 
                  Nuovo rifiuto della libertà condizionale 
                Dopo oltre un anno di temporeggiamento, il Tribunale Federale 
                  di Losanna ha rifiutato il rilascio condizionale di Marco. Come 
                  per le precedenti decisioni, anche a questo giro le motivazioni 
                  sono politiche: Marco non si distanzia dalle sue posizioni politiche, 
                  pertanto la libertà condizionale va rifiutata. 
                  Un breve riepilogo rispetto alla storia di questa richiesta 
                  per una liberazione condizionale da parte di Marco. 
                  Dal 2012 Marco dovrebbe beneficiare della libertà condizionale, 
                  dal momento che ha compiuto i 2/3 della pena inflittagli. La 
                  richiesta in questo senso inoltrata all'Ufficio delle Misure 
                  Detentive di Zurigo venne rifiutata il 13 aprile del 2012. Da 
                  qui il ricorso. 
                  In un primo momento, la Direzione del Dipartimento di Giustizia 
                  e degli Interni del Canton Zurigo aveva rifiutato l'ammissibilità 
                  del ricorso, e solo in seguito alla rivalutazione da parte del 
                  tribunale amministrativo, il tutto è ritornato nelle 
                  mani dell'Ufficio delle Misure Detentive, aka Feldstrasse di 
                  Zurigo. 
                  Venne dunque rinnovata l'audizione a Marco, ma ciò nonostante, 
                  nel febbraio 2013, il rilascio condizionale venne nuovamente 
                  rifiutato. Come motivazione a questo rifiuto fu: “una 
                  visione delinquenziale del mondo, nonchè una predisposizione 
                  cronica alla violenza” da parte di Marco - una motivazione 
                  che si squaglia da sola, mettendo ulteriormente in risalto il 
                  carattere politico della decisione di non-rilascio. Per tanto 
                  così avrebbero potuto evitare giri di parole e affermare 
                  chiaramente che se Marco non lo rilasciano è perché, 
                  oggi come ieri, rimane un anarchico rivoluzionario. 
                  Nella riformulazione data dal Tribunale Federale le parole sono 
                  diverse ma il significato è lo stesso: Marco non viene 
                  rilasciato in quanto “tuttora manca un credibile allontanamento 
                  dalla predisposizione alla violenza e una presa di distanza 
                  dall'utilizzo di questa come strumento per un confronto politico”. 
                  Ora, data la globale realtà contrassegnata da un acuirsi 
                  della crisi e della tendenza alla guerra, si ha a che fare con 
                  una disarmante ingenuità se si vuol considerare la violenza 
                  come estranea agli strumenti della politica. Non ci rimane dunque 
                  che constatare come al Tribunale Federale non solo vi siedano 
                  giudici assolutamente naive, ma che pure non rimanga che l'argomentazione 
                  politica. 
                  Marco non esce perché mantiene una posizione integra 
                  e diretta contro la violenza del dominio. Ovvio come questo 
                  non piaccia alla giustizia di classe, ovvio come vogliano continuare 
                  a vederlo dietro le sbarre. 
                  In un punto però si mostrano le contraddizioni interne 
                  tra i responsabili della detenzione di Zurigo ed i controllori 
                  della giustizia borghese di Losanna. Secondo i giudici federali, 
                  infatti, Marco deve da subito poter disporre degli alleggerimenti 
                  nella detenzione. Il Tribunale Federale scrive che entro maggio 
                  2018 al massimo è da considerare il rilascio, cosa che 
                  corrisponderebbe al termine definitivo della pena di Marco. 
                  Ciò nonostante questo non è stato un motivo sufficiente 
                  per concedere già ora un rilascio condizionale. 
                  Lo scopo della detenzione in Svizzera è che ogni detenuto/a, 
                  al termine della pena, sappia vivere senza più commettere 
                  reati. Secondo i giudici, per poter rendere possibile questo 
                  percorso verso una vita al di fuori del carcere, devono venir 
                  concessi i necessari alleggerimenti affinché possa esserne 
                  provata l'attuabilità. L'ufficio delle Misure Detentive, 
                  responsabile per questi alleggerimenti, ha finora sempre impedito 
                  ogni alleggerimento: dunque si vedrà se questa sentenza 
                  potrà influire sulle condizioni di detenzione di Marco. 
                   
                  MARCO LIBERO! 
                  indirizzo: 
                  Marco Camenisch, PF 38, CH - 
                  6313 Menzingen, Svizzera 
                 Soccorso Rosso Svizzera 
                 
                 
                  No Expo/ 
                  L'università chiude per “motivi di sicurezza” 
                Tutto era pronto per venerdì 16 e sabato 17 gennaio. 
                  A ridosso dell'imminente esposizione universale, la Rete No 
                  Expo aveva deciso di organizzare alcuni eventi culturali presso 
                  la sede di via Festa del Perdono dell'università statale 
                  di Milano. Agli appuntamenti del venerdì sarebbe poi 
                  seguita l'assemblea nazionale, prevista per il giorno seguente, 
                  convocata per fare il punto della situazione sulla resistenza 
                  ad Expo.
                 
                   
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                    |   Milano, sabato 17 gennaio - fuori dall'ex sede Anpi occupata  | 
                   
                 
                 Proprio nel periodo in cui, a seguito degli avvenimenti di 
                  Parigi, comuni cittadini e istituzioni si sono scoperti Charlie, 
                  strenui difensori della libertà di espressione, stampa 
                  e pensiero, l'università ha letteralmente chiuso le sue 
                  porte per fermare un evento No Expo. 
                  Senza precedenti avvisi, istituzionali o informali, il portone 
                  di entrata della sede di via Festa del Perdono è rimasto 
                  serrato. Su di esso, due fogli affissi comunicavano che ''per 
                  motivi di sicurezza'' l'università avrebbe riaperto il 
                  lunedì seguente, rimanendo chiusa nei giorni 16-17-18. 
                  Bloccate quindi le attività didattiche, lezioni, ricevimenti, 
                  richiesta e consegna di libri di testo, con tre esami spostati 
                  nella sede di via Mercalli. 
                  La decisione, presa dal rettore Vago e dal prefetto Tronca, 
                  appoggiata dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, 
                  è stata giustificata da motivi di ordine pubblico. Già 
                  da qualche giorno circolavano voci sulla presunta pericolosità 
                  della due giorni No Expo; con articoli apparsi anche su quotidiani 
                  nazionali si è cercato di spargere il seme della paura 
                  e della tensione per quello che era un appuntamento culturale, 
                  un momento di confronto e dibattito politico. Ecco il calendario 
                  che ha spaventato procura e rettorato: venerdì 16 gennaio 
                  - spettacolo teatrale, aperitivo bio, concerti hip hop, raggae 
                  e balkan; sabato 17 gennaio - workshop tematici in mattinata 
                  e assemblea plenaria prevista per il pomeriggio. Vista la chiusura 
                  degli spazi universitari, gli organizzatori dell'evento hanno 
                  ripiegato sull'area occupata di via Mascagni 6, ex Anpi, dove 
                  tutti gli appuntamenti hanno avuto luogo come da calendario. 
                  Più che una questione di ordine pubblico, la decisione 
                  sembra essere stata principalmente politica, un tentativo di 
                  impedire la diffusione delle ragioni di chi si dice contrario 
                  all'esposizione universale di Milano, con strategia di criminalizzazione 
                  nei confronti di chi per quelle idee si sta battendo. Quella 
                  dell'università, poi, è stata una chiara presa 
                  di distanza dalle critiche al mega-evento; tra le sue mura sono 
                  permessi corsi e conferenze ''in vista di Expo'', ma niente 
                  che sia critico con esso. 
                  Come denunciato già da un comunicato apparso sul sito 
                  No Expo, sembra che la costruzione di un nemico pubblico da 
                  combattere e la creazione di un clima di tensione vengano preferiti 
                  al confronto e al dibattito e la chiusura di un luogo come l'università 
                  rende questa idea molto più di un sospetto. 
                  Carlotta Pedrazzini 
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