  
                
  
                 Spagna 
                  1936-1964/Gli anarchici dimenticati (non solo dai comunisti) 
                   
                  Cari compagni, 
                  ho apprezzato la ricognizione 
                  di Massimo Ortalli intorno alla bibliografia sugli anarchici 
                  italiani pubblicata in “A” 391. 
                  Stimolato e incuriosito dalla nota in merito al misconoscimento 
                  del ruolo degli anarchici negli avvenimenti del Novecento ho 
                  voluto riprendere in mano proprio la monografia “Spagna 
                  quando?” de “Il Ponte” comparsa nel Dicembre 
                  1964 e presumibilmente presentata nel Marzo successivo a Roma 
                  nell'omonima citata iniziativa pubblica. 
                  Nel volume, edizione italiana del testo “España 
                  hoy” prodotto dal gruppo di “Ruedo iberico”, 
                  compaiono anche diversi contributi portati a commento e complemento 
                  dell'originale spagnolo da alcuni intellettuali italiani tra 
                  i quali Aldo Garosci, già miliziano giellista nella Colonna 
                  italiana sul fronte aragonese. Gli anarchici, scorrendo le pagine, 
                  compaiono poco e, direi, male. Forza di massa organizzata preponderante 
                  e determinante nella guerra civile tra il 1936 e il '39, sembrano 
                  qui quasi sparire, ostracizzati dalle componenti democratiche 
                  come una ormai trascurabile deriva settaria ostinata nella sua 
                  volontà rivoluzionaria, isolati nel loro tentativo di 
                  azione insurrezionale. 
                  È Maria Adele Teodori, giornalista radicale allora fresca 
                  autrice di “Spagna in ginocchio” per le Edizioni 
                  di Comunità, nel trattare de “L'opposizione”, 
                  articolo in cui si occupa ampiamente dei movimenti cattolici 
                  democratici spagnoli, che più sembra accorgersi dell'esistenza 
                  degli antiautoritari sul fronte antifranchista, ma pure a maggiormente 
                  calcare la mano: “Gli anarchici, i libertari, cresciuti 
                  alla scuola della violenza, camminano per loro conto, sono quasi 
                  tutti fuorusciti e i nuclei non hanno la consistenza di trenta 
                  anni fa”. La ritroveremo tuttavia nei primi anni Settanta 
                  tra i firmatari della nota “Lettera aperta a L'Espresso 
                  sul caso Pinelli”. 
                  È del resto lo stesso Garosci, cui pure nella conferenza 
                  romana Rossi riconosce il parziale merito di avere almeno accennato 
                  agli anarchici, a citarli nel suo apporto “Spagna, libertà, 
                  rivoluzione” una sola volta, en passant, accidentalmente, 
                  a proposito della borghesia che ”a Barcellona iscrivendosi 
                  in massa al Psuc e all'Ugt fece scacco alla poderosa maggioranza 
                  libertaria operaia della Cnt”. Tutto qui, e solo a proposito 
                  dunque del glorioso periodo della guerra civile. 
                  Ma è vero che di lì a poco, nel 1969, Garosci 
                  dovrà intervenire nuovamente e diffusamente con la sua 
                  relazione sui “Problemi dell'anarchismo spagnolo” 
                  al Convegno internazionale di studi “Anarchici e anarchia 
                  nel mondo contemporaneo” promosso dalla Fondazione Luigi 
                  Einaudi. Ancora una volta, come nel già citato caso della 
                  Teodori, saranno allora la contestazione studentesca, il conflitto 
                  operaio e poi le bombe della strage di Stato a svegliare le 
                  coscienze e l'interesse degli intellettuali liberali e progressisti. 
                  Questi dunque i minimi presupposti scritti del confronto alla 
                  Casa della cultura di Roma di tanti anni fa in cui dovette essere 
                  presentato quel numero speciale della rivista fondata da Piero 
                  Calamandrei. Bene fecero allora Aldo Rossi, redattore di “Umanità 
                  Nova”, e gli altri compagni della Federazione anarchica 
                  laziale a lamentare anche in quell'occasione la “strana 
                  dimenticanza dei relatori del contributo dato dagli anarchici” 
                  nella opposizione antifranchista attiva in Spagna dal secondo 
                  dopoguerra. “Veniva messo in rilievo il contributo dei 
                  comunisti, socialisti, repubblicani ed anche della tardiva -ma 
                  valida, secondo gli oratori- partecipazione delle forze cattoliche, 
                  mentre l'anarchismo sembrava non avere alcuna importanza circa 
                  la realtà spagnola”, protestava Rossi. Ma è 
                  indubbio che alla metà degli anni Sessanta il progressismo 
                  riformista de “Il Ponte” fosse sensibile e attento 
                  agli esperimenti di Governo del Centrosinistra imperniato proprio 
                  sulla nuova alleanza tra cattolici e socialisti, modello al 
                  quale in Spagna al tempo le forze democratiche, comunisti compresi, 
                  guardavano per il dopo Franco che sentivano ormai prossimo. 
                  Non ha torto dunque Ortalli quando afferma che la riduzione 
                  e rimozione del ruolo degli anarchici nelle vicende novecentesche 
                  fu opera non solo dei marxisti e della loro scuola storiografica, 
                  allora e per lungo tempo egemone, ma pure agita e comunque consentita 
                  da parte democratica e liberale, almeno fino alla strage di 
                  Piazza Fontana. 
                  Tornando alla conferenza romana del '65 sarebbe però 
                  per noi prezioso riflettere soprattutto sulla presenza critica 
                  che quei compagni di allora, esigua minoranza, in una fase non 
                  certo alta del loro movimento, seppero esprimere. Essi si presero 
                  il diritto di esserci andando ad ascoltare e legittimandosi 
                  a portare in prima persona il proprio pensiero e la propria 
                  parola, esercitando il contraddittorio e dialogando alla pari 
                  pure in un consesso alto della cultura del tempo. Facendosi 
                  dunque puntuale e adeguato presidio libertario nella società.
                
  Paolo Papini 
                  Roma 
				   
				 
                    
                  Dibattito nazionalismi/L'eterna seduzione della parola 
                   
                  Al di là delle diverse interpretazioni e considerazioni, 
                  una cosa è certa: il fatto che ci ritroviamo nuovamente 
                  qui sulle pagine di “A” per continuare un dibattito 
                  avviato da Steven Forti (Catalogna/L'eterno 
                  fascino del nazionalismo, in “A” 385, dicembre 
                  2013/gennaio 2014, quindi il nostro intervento Nazionalismi/Nazioni 
                  senza stato in “A” 390, giugno 2014, poi 
                  sullo scorso numero la replica 
                  di Steven Forti e l'intervento 
                  di Leo Melziade) che speriamo possa essere arricchito anche 
                  dalle riflessioni e dagli spunti di altri lettori e collaboratori, 
                  è già una cosa per noi preziosa. 
                  Ma, veniamo al dunque: seguendo la modalità del nostro 
                  compagno catalano, riprendiamo alcune delle sue risposte e riflessioni 
                  scritte in risposta al nostro articolo, per chiarire meglio 
                  e ampliare quanto avevamo accennato nella nostra precedente 
                  riflessione. 
                  1. È certo che le parole assumono sfumature e significati 
                  nel tempo e che il loro contenuto sia intrinsecamente legato 
                  alle esperienze storiche; eppure, il nostro tentativo di cercare 
                  insieme un significato risponde a qualcosa di ben più 
                  semplice della la ricerca della “chimera dell'origine”, 
                  che è capirsi sul senso che diamo alle parole affinché 
                  il nostro dialogo possa partire da un lessico quanto più 
                  possibile chiaro e condiviso. A ciò si aggiunge la necessità, 
                  da parte nostra, di ridare a certe parole un loro significato 
                  “originario”, perché spesso ideologie e propaganda 
                  ne hanno stravolto completamente il senso fino ad attribuirgliene 
                  uno totalmente differente quando non opposto. Per non andare 
                  troppo lontano, pensiamo alla parola “anarchia”: 
                  chiedete oggi ai ragazzi nelle scuole, a qualche cittadino medio 
                  o al vostro vicino di casa cosa significa anarchia. Ci saranno 
                  tante risposte ma molte purtroppo accomunate dal fatto che questa 
                  parola è stata completamente svuotata del suo significato 
                  reale e riempita di contenuti che niente hanno a che vedere 
                  con essa. Che facciamo, non cerchiamo di riappropriarci di ciò 
                  che è il senso delle parole, ancorché queste assumano 
                  sfumature diverse nel tempo? No, nessuna chimera, solo necessità 
                  di tornare all'essenza delle cose. 
                  2. La necessità di capirsi sui termini usati è 
                  evidente nella domanda che Forti fa: “perché difendere 
                  la propria terra deve portare alla lotta per la creazione di 
                  un nuovo stato?” nel nostro intervento non compare alcun 
                  riferimento alla creazione di nuovi stati, anzi la nostra è 
                  una posizione che va proprio in direzione contraria. non pensiamo 
                  che la parola “indipendentismo” significhi automaticamente 
                  creazione di un nuovo stato (essa si riferisce piuttosto alla 
                  creazione della possibilità per un popolo di autodeterminarsi). 
                  Il fatto che questo termine, per varie ragioni storico-politiche, 
                  sia stato fatto coincidere con la nascita di uno stato rientra 
                  nella problematica di cui al punto precedente. 
                  3. “Perché dovremmo declinare la lotta contro l'omologazione 
                  culturale e per la difesa e la riappropriazione della terra 
                  in un modo nazionalista e/o indipendentista? esistono molte 
                  esperienze di lotta di questo tipo che non abbracciano nessun 
                  tipo di lotta di liberazione nazionale anche in territori che 
                  vengono considerati nazioni senza stato”: punto strettamente 
                  collegato a quello precedente, anche in questo caso ci pare 
                  ci sia un fraintendimento di fondo. Per noi i processi di autodeterminazione 
                  ed emancipazione sociale non possono che essere strettamente 
                  correlati senza che questo significhi dare vita ad istituzioni 
                  gerarchiche. Quando utilizziamo la formula “nazioni senza 
                  stato” non intendiamo dire che vi sono nazioni (ovvero 
                  popoli che vivono in un territorio, hanno cultura, lingua, tradizioni 
                  ed sistemi economici propri) che devono dare vita ad un proprio 
                  stato ma esattamente il contrario. L'affermazione delle specificità 
                  dei popoli contribuirebbe a mostrare l'artificiosità 
                  dell'istituzione statale e dei sui confini. 
                  Ciò che ci domandiamo è perché spesso, 
                  anche tra i nostri compagni e le nostre compagne, si storce 
                  il naso di fronte a questi temi invece di discutere su come 
                  innestarvi la necessaria carica antiautoritaria. 
                  4. “[...] è sempre più urgente recuperare 
                  di questi tempi l'idea e la pratica internazionalista”: 
                  assolutamente concordi; il motto “agisci localmente, pensa 
                  globalmente”, forse più in voga in altri tempi, 
                  risponde per noi proprio a questa necessità. Non abbiamo 
                  mai negato l'importanza della solidarietà internazionale, 
                  anzi pensiamo che essa sia fondamentale ma ciò che ribadiamo 
                  è la necessità di non fare l'errore contrario, 
                  ossia di non pensare che chi lotta per la liberazione della 
                  propria terra non possa farlo in nome di una liberazione comune 
                  a tutti i popoli. La parola stessa che lo evoca: “inter-nazionale” 
                  cioè “tra-nazioni”, tra popoli che lottano 
                  insieme. 
                  5. “Che si fa? si appoggia la propria borghesia nazionale 
                  o no?”: su questo pensiamo di essere stati chiari: no, 
                  la lotta di un popolo è per noi lotta popolare, proletaria 
                  e antistatalista. Nel passaggio dedicato al concetto di lotta 
                  di liberazione nazionale abbiamo posto l'accento sul fatto che 
                  questa possa manifestare due aspetti che dobbiamo ben tener 
                  presenti: uno è incarnato dalle rivendicazioni delle 
                  comunità contro lo Stato, l'altro dalle istanze della 
                  borghesia compradora che mira solo a un passaggio di consegna 
                  del potere. Nel primo caso è lotta degli sfruttati, ossia 
                  lotta nella quale per noi è importante provare a dare 
                  il nostro contributo di proposte libertarie; la seconda è 
                  parte di un processo reazionario che è necessario combattere. 
                  Ma se staremo sempre fuori da queste lotte, finché non 
                  daremo il nostro apporto a questi dibattiti, come possiamo pretendere 
                  che la borghesia o le forze reazionarie non se ne impossessino? 
                  È proprio questo il punto: non esiste un prontuario su 
                  come si sviluppano le lotte di liberazione; ognuna delle lotte 
                  in atto ha le sue connotazioni. Dobbiamo solo capire in quali 
                  contesti poter agire e quali prospettive vi siano per portare 
                  il nostro contributo. Dobbiamo guardare alle lotte di liberazione 
                  non come un unicum caratterizzato dalle istanze stataliste e 
                  borghesi, perché ciò ci porterà a rimanerne 
                  sempre al margine senza capire che è invece necessario 
                  saper leggere ed interpretare le varie sfaccettature di ogni 
                  lotta in corso. 
                  p.s. sull'ultimo accenno di Forti agli “anarchici che 
                  abbracciarono l'interventismo durante la grande guerra” 
                  per poi finire tra le fila dei fascisti pensiamo non sia questo 
                  il piano della discussione, ma solo una deviazione dal reale 
                  senso del nostro dibattito.
                
  Laura Gargiulo e Igor Ninu 
                  Sardigna 
				   
				 
                    
                  Sulla naturalità dei conflitti 
                   
                  Sono sicura di non sbagliare nel pensare che a libertari e anarchici 
                  sia capitato, almeno una volta, di essere tacciati di sprovvedutezza 
                  o ingenuità durante una discussione o uno scambio di 
                  opinioni. “Siete degli idealisti e vivete su un altro 
                  pianeta”, “non siete abbastanza pragmatici per occuparvi 
                  di politica”. Per quanto mi riguarda sono in molti, all'interno 
                  della mia cerchia di conoscenze, a non avere, purtroppo o per 
                  fortuna, la mia visione del mondo. Dico per fortuna perché 
                  lo scambio di opinioni con chi ha un'idea radicalmente diversa 
                  dalla propria è arricchente, permette di fare esercizio 
                  di pensiero e dialettica, di cercare nuove soluzioni a problemi 
                  che magari non ci si era posti prima; dico anche purtroppo perché 
                  a volte è estenuante, soprattutto se capita di essere 
                  soli in un gruppo di persone poco propense ad ascoltare. In 
                  alcuni casi è anche un poco deludente: “come possono 
                  dei giovani della mia età pensare queste cose?”, 
                  mi chiedo. 
                  Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una discussione nata 
                  da una frase di Samuel P. Huntington sulla storia delle relazioni 
                  tra le grandi potenze del mondo, che si trova, secondo il politologo, 
                  ad essere caratterizzata da un incessante conflitto, alcune 
                  volte caldo, quando combattuto apertamente, altre volte freddo. 
                  Ripeto la frase nella mia testa e penso che alla fine è 
                  un verosimile riassunto delle dinamiche del mondo moderno, in 
                  cui gli stati nazionali giocano un ruolo da protagonisti, intriso 
                  di patriottismo, nazionalismo e prevaricazione del forte sul 
                  debole. Si tratta davvero di un susseguirsi di dinamiche di 
                  guerra, combattuta o minacciata. Per le risorse, per il potere. 
                  È la natura dell'uomo, dicono i miei interlocutori. È 
                  la natura del mondo. Le relazioni tra gli stati esemplificano, 
                  in larga scala, le relazioni tra i singoli uomini e all'interno 
                  delle comunità. La storia dell'uomo si riassume nel conflitto; 
                  non esiste, né è mai esistito, un istante di tregua 
                  reale o di cooperazione, un momento in cui le comunità 
                  e gli individui si siano trovati a collaborare senza il secondo 
                  fine del controllo o della prevaricazione. 
                  Mi fermo a pensare qualche secondo, la loro affermazione mi 
                  spaventa; la descrizione delle dinamiche delle grandi potenze, 
                  sempre in guerra fra loro, è calzante. Ma non può 
                  essere la natura degli uomini la causa di tutto. Ci penso ancora 
                  qualche istante, poi mi dico: se è vero che questo è 
                  ciò che accade ed è accaduto nella storia fino 
                  ad ora, non significa assolutamente che non esista un altro 
                  modo di intrattenere relazioni. Un modo che non implichi il 
                  conflitto e la prevaricazione. “Non esiste un'altra 
                  via. E se lo pensi sei, nel migliore delle ipotesi, un'utopista. 
                  Altrimenti una sprovveduta”. Questa è la risposta che 
                  presto ottengo. 
                  Sono in molti ad essere convinti che i conflitti tra gli esseri 
                  umani si possano risolvere solo con la prevaricazione da parte 
                  del più forte, il quale si comporta seguendo una condotta 
                  che ritiene giusta perché giustificata dalla propria 
                  posizione di potenza. Che la forza sia data dalla sua appartenenza 
                  ad una maggioranza, dalla sua influenza economica o da un vantaggio 
                  acquisito, poco importa. Il più forte sarebbe stupido 
                  a non utilizzare la sua posizione favorevole, chiunque al suo 
                  posto lo farebbe. Perché mediare? Perché dialogare? 
                  È così che va il mondo, lo si può leggere 
                  già tra le pagine scritte da Tucidide più di 2400 
                  anni fa. 
                  Il forte si impone e il debole perisce, fino a quando quest'ultimo 
                  non riuscirà a collezionare abbastanza potere da riuscire 
                  a restituire il torto. “Dipende tutto dalla natura 
                  degli uomini, dalla loro caratteristica violenta, che li porta 
                  a non poter fare a meno di competere e ad imporsi. Non puoi 
                  negare che essa esista”. È proprio in questo modo, attraverso 
                  la credenza di una presunta naturalità dei comportamenti 
                  bellicosi e utilitaristici, che si giustificano le guerre, che 
                  ci si limita a parteggiare sempre per l'una o per l'altra fazione 
                  coinvolta in uno scontro e mai a condannare il modus operandi 
                  scelto, basato sulla violenza applicata o minacciata. È 
                  così che si giustifica la presenza degli stati, degli 
                  amministratori, dei funzionari, dei giudici. Per tutelarci, 
                  nella triste convinzione che il più forte tenterà 
                  in tutti i modi di assoggettarci, imporsi e opprimerci; perché 
                  gli esseri umani concorrono tra loro, ognuno con il fine di 
                  ottenere il massimo per sé, senza curarsi troppo del 
                  prossimo. “È così” mi dicono “che 
                  va il mondo.” 
                  Non si può negare che la violenza sia tra le pulsioni 
                  umane, ma utilizzare questa caratteristica per giustificare 
                  le storture del mondo significa asserire che la violenza sia 
                  una “irresistibile forza” dalla quale l'uomo non 
                  ha modo di sottrarsi; eppure gli umani sono “esseri 
                  ragionevoli” e proprio per questo motivo è presente 
                  in loro la facoltà di decidere in che modo affrontare 
                  gli eventi, in quale maniera reagire alle situazioni. Pensare 
                  questo non significa essere buonisti, è biologia. 
                  Mi soffermo sull'idea che sia l'educazione la causa di tutto, 
                  della credenza che non esista rimedio ai mali del mondo; siamo 
                  educati fin da bambini alla competizione e al conflitto. Abbiamo 
                  interiorizzato queste modalità di comportamento, le idee 
                  sono penetrate in noi talmente a fondo che la cooperazione, 
                  il dialogo e la solidarietà tra gli esseri umani non 
                  sono nemmeno più contemplati tra le modalità di 
                  risoluzione delle problematiche. Ma non solo, vengono anche 
                  accusate di non essere applicabili perché contrarie alla 
                  natura umana. Crediamo così di aver bisogno di qualcuno 
                  che amministri i nostri affari, che interceda per noi, che risolva 
                  le nostre questioni e che faccia fronte ai nostri bisogni. 
                  Cerco di spiegare che, a mio avviso, questo tipo di idea sull'ineluttabilità 
                  dei conflitti sia stata creata da chiunque fosse interessato 
                  ad impadronirsi del potere, assoggettando il resto della collettività. 
                  Solo creando una società formata da individui incapaci 
                  di accordarsi e di dialogare è possibile proporsi come 
                  intermediari, e chiedere la delega di qualunque potere e libertà 
                  in cambio di protezione. “Da soli non troverete 
                  mai un accordo, né riuscirete ad organizzarvi”, ci dicono. 
                  Penso ai miei interlocutori, tutti dei giovani intorno ai venticinque 
                  anni; loro non sono certo tra coloro che hanno deliberatamente 
                  tessuto questo piano con il filo della paura, della prevaricazione, 
                  dell'odio, al fine di rendere utopica l'idea di una possibile 
                  convivenza pacifica, basata su relazioni in cui nessuno vince 
                  o si impone, ma sulla condivisione. I ragazzi con cui sto dialogando 
                  non hanno direttamente a che fare con questo piano; loro sono 
                  davvero convinti che non esista un altro modo. “E 
                  poi l'illusa sarei io”, ribatto. 
                  Mi sforzo allora di spiegare che il loro pensiero di stampo 
                  utilitaristico e conflittuale, che credono di adoperare come 
                  semplice conseguenza della natura delle cose, degli uomini e 
                  del mondo, è di fatto la causa prima di tutte le storture, 
                  degli abusi e delle prevaricazioni a cui assistiamo. Il mondo 
                  funziona in molti casi seguendo le logiche di dominio da loro 
                  descritte, ma ciò di cui non sembrano rendersi conto 
                  è che loro stessi ne sono gli artefici. Coinvolti in 
                  una perpetrazione dell'esistente che pensano essere naturale. 
                  “Il vostro atteggiamento non è la conseguenza, 
                  la risposta alle circostanze immutabili, ma la causa stessa 
                  di tutto. Pensate di difendervi dalle brutture del mondo, ma 
                  non vi rendete conto di crearle voi stessi. Forse se riusciste 
                  a liberarvi della convinzione di una presunta naturalità 
                  dell'ordine delle cose, allora potremmo finalmente arrivare 
                  ad intravedere dei cambiamenti”. 
                  I miei interlocutori non sono convinti di quel che sto dicendo. 
                  Sostenere che una soluzione ai complicati mali del mondo possa 
                  cominciare con un cambiamento del pensiero sull'ordine delle 
                  cose non ha nessun senso. “Le tue idee sono buone”, “sono 
                  belle ed apprezzabili, ma inconcludenti e astratte. Magari fosse 
                  tutto così semplice! Magari si potesse cambiare il mondo 
                  partendo dal pensiero!”. Immersi come siamo in una società 
                  iper-complessa e complicata, ci riesce assai difficile immaginare 
                  che le soluzioni, talvolta, possano rivelarsi meno ardue del 
                  previsto e che non debbano per forza comprendere macchinosi 
                  giochi geopolitici, segretissime manovre tra i 'grandi' della 
                  Terra o avvenire tramite un obbligo imposto dai vertici della 
                  società. 
                
  Carlotta Pedrazzini 
                  Gambolò (Pv) 
				   
				 
                    
                  Un popolo, una lotta 
                   
                  Il 26 settembre, nell'aula bunker del carcere delle Vallette 
                  di Torino, uno degli imputati nel “processone” per 
                  i fatti in Val Susa del 27 giugno e del 3 luglio 2011, ha letto 
                  questa sua dichiarazione spontanea. Per ulteriori informazioni 
                  ed aggiornamenti sul processo, www.tgmaddalena.it 
                  e www.tgvallesusa.it 
                   
                  Siamo giunti alla fine di questo dibattimento. A voi non resta 
                  che giudicarci secondo le norme del codice penale. 
                  Nonostante abbiano un soggetto, il legislatore, tanto impersonale 
                  quanto irraggiungibile – quasi un dio infallibile dispensatore 
                  di giustizia –, in realtà i codici non sono altro 
                  che una banale creazione umana. Non solo la loro compilazione, 
                  ma anche la loro interpretazione e applicazione non sono altro 
                  che semplici azioni umane. 
                  La giustizia, quella vera, si sottrae alla norma e non potrà 
                  mai essere codificata. Appartiene alla sfera dei valori e solo 
                  il giudizio storico – una volta che le passioni del presente 
                  saranno sopite – decreterà, attraverso il comune 
                  senso civile, se la vostra sentenza sarà stata o meno 
                  giusta. 
                  In quest'aula sono state delineate due visioni diametralmente 
                  opposte dei medesimi eventi. 
                  Una – quella della procura – che vede centinaia 
                  di agenti violentemente aggrediti e feriti nell'adempimento 
                  del proprio dovere. L'altra – quella che noi e le nostre 
                  difese abbiamo esposto – racconta di un movimento popolare 
                  pacifico aggredito brutalmente senza che avesse messo in atto 
                  nemmeno il semplice reato di disobbedienza civile. Sì, 
                  perché noi siamo stati violentemente attaccati mentre 
                  eravamo pacificamente attestati in un luogo in cui non solo 
                  avevamo il diritto di rimanere ma di cui avevamo persino pagato 
                  il suolo pubblico. Un'area che era al di fuori – e lo 
                  rimane tuttora nonostante le recinzioni illegittime che ne inibiscono 
                  l'accesso – dall'area destinata al cantiere. 
                  Non solo quindi il 27 giugno alla Maddalena le forze dell'ordine 
                  effettuarono un'azione illegale, da tutti noi percepita come 
                  tale, ma la fecero con altissimo disprezzo per la salute di 
                  chi si trovava di fronte. 
                  Io non temo di essere retorico affermando che quel giorno lo 
                  Stato italiano intraprese una vera e propria guerra chimica 
                  ad alta intensità contro i propri cittadini. 
                  In questi ultimi anni si è parlato molto di CS, il gas 
                  espulso dai lacrimogeni di cui è vietato l'uso bellico 
                  dalle convenzioni internazionali. Proibito nella guerra fra 
                  stati ma ammesso nella guerra interna contro i propri cittadini 
                  che dissentono. In Italia il primo uso massiccio di questo gas 
                  si ebbe nel 2001 a Genova contro i manifestanti che contestavano 
                  il G8. E tutti sanno della riprovazione a livello internazionale 
                  di cui fu oggetto la polizia italiana per come fu gestito in 
                  quei giorni l'ordine pubblico. Numerose testimonianze già 
                  allora descrissero quanto questo gas fosse micidiale, causando 
                  svenimenti nausea vomito problemi respiratori infiammazioni 
                  oculari irritazioni cutanee. Gli studi medici ci dicono che 
                  una forte e prolungata esposizione potrebbe creare danni permanenti 
                  a occhi polmoni stomaco fegato cuore reni e persino provocare 
                  aborti. E non si conoscono ancora le conseguenze nel lungo periodo, 
                  conseguenze cui patiranno non solo coloro che ne sono stati 
                  colpiti ma anche agli agenti che ne hanno fatto largo uso. Non 
                  a noi, quindi, dovrebbero rivolgersi i loro sindacati. Come 
                  ha insegnato la vicenda delle bombe all'uranio impoverito, gli 
                  apparati statali si disinteressano non solo della salute dei 
                  propri cittadini ma persino di quella dei loro servi. 
                  Ebbene, io ho partecipato alle giornate genovesi e vi posso 
                  dire in tutta tranquillità che – sotto questo profilo, 
                  confrontate alle giornate della Maddalena – furono meno 
                  traumatiche. In Val Susa – nelle giornate del 27 giugno 
                  e del 3 luglio 2011 – la quantità e la concentrazione 
                  di CS fu enormemente più alta. Fu decisamente la più 
                  massiccia da quando questo gas è in dotazione alle forze 
                  di polizia in Italia. 
                  Chi diede l'ordine di accerchiare la libera repubblica della 
                  Maddalena e, come in una tonnara, gasare tutti i presenti, precludendo 
                  ogni via di fuga e gasandoli anche tra i boschi dove avevano 
                  cercato scampo e riparo? I dirigenti sul posto, dai nomi secretati 
                  in questo processo? Il questore? Il prefetto? Il ministro degli 
                  interni? Il presidente del consiglio? 
                   
                  La nostra lotta è un dato di fatto 
                  Contro di noi, in questo procedimento, si sono costituiti come 
                  parti civili reclamando il risarcimento dei danni subiti, ben 
                  tre ministeri. Ebbene, io dichiaro apertamente che non sono 
                  loro le parti lese, anzi dovrebbero rispondere alla comunità 
                  per il grave attentato commesso alla salute di tutti i cittadini 
                  presenti a Chiomonte in quelle due giornate, per averli proditoriamente 
                  sottoposti per ore all'esposizione di gas venefici. Ora, pare 
                  che la legislazione italiana consideri il CS arma non-letale 
                  con effetti reversibili e ne consenta l'uso da parte della forza 
                  pubblica. Ma l'uso di uno strumento di dissuasione coercitivo 
                  dovrebbe essere sempre effettuato con moderazione e con dei 
                  limiti ben precisi. Come una mano può non essere letale 
                  in un semplice schiaffo, la stessa mano può diventare 
                  letale se strozza alla gola. E' della cronaca di questo periodo 
                  come a Ferrara l'uso spropositato di uno strumento ordinario 
                  in dotazione agli agenti di pubblica sicurezza, il manganello, 
                  abbia condotto a morte il giovane Federico Aldovrandi o come 
                  un altro strumento frequentemente usato nelle strutture psichiatriche, 
                  il letto di contenzione, abbia barbaramente assassinato il maestro 
                  salernitano Francesco Mastrogiovanni. 
                  Questo uso incontrollato esagerato e spropositato di CS è 
                  all'origine della nostra reazione. Era quello che serviva per 
                  trasformare con un colpo di bacchetta magica un movimento popolare 
                  pacifico ventennale in un'accolita di violenti. 
                  Perché, solo dopo il 27 giugno e il 3 luglio 2011 – 
                  improvvisamente – il movimento NO TAV diventa un problema 
                  di ordine pubblico, tanto da originare summit governativi, relazioni 
                  di servizi segreti e dichiarazioni deliranti di ministri e uomini 
                  politici? Solo per giustificare il conseguente accanimento giudiziario? 
                  Per arrivare ad accuse di terrorismo per il lancio di petardi 
                  o a condanne di anni di reclusione per la sola detenzione e 
                  trasporto di artifici pirotecnici? 
                  Chi ha decretato questo inasprimento di livello dello scontro? 
                  Il movimento NO TAV o lo Stato italiano? 
                  La risposta è di una banalità sconcertante. Non 
                  potendo controbattere pubblicamente con valide argomentazioni 
                  le ragioni del movimento, lo si è volutamente criminalizzato. 
                  Non potendo convincere si è scelto di agire con la forza, 
                  per schiacciare il dissenso manu militari. Questa è la 
                  moderna democrazia che ci governa, una vera e propria democrazia 
                  totalitaria. 
                  Noi in quelle due giornate fummo presi alla gola, aggrediti 
                  in maniera letale e ci siamo difesi. 
                  Non lo neghiamo e non abbiamo paura di rivendicarlo. Persino 
                  il codice riconosce la legittima difesa. Non credo abbia importanza 
                  – almeno sul principio – se chi offende veste una 
                  divisa e chi si difende no. Perché quel giorno, è 
                  evidente, la legalità non stava dalla parte di chi la 
                  difendeva. 
                  E in cosa è consistita praticamente la nostra difesa 
                  di fronte ad un'aggressione chimica di tale portata? Nel gesto 
                  più semplice e naturale, quello di tirare dei sassi. 
                  Quando andavo alle elementari ricordo che nel libro di testo 
                  vi era l'illustrazione di un ragazzino che scagliava un sasso 
                  contro dei soldati austriaci. E la didascalia ne parlava come 
                  di un eroe, autore di un gesto coraggioso che aveva innescato 
                  la sollevazione di tutta la città di Genova contro l'invasore. 
                  Era il Balilla. Solo più avanti scoprii che la sua figura 
                  era stata successivamente strumentalizzata in senso nazionalista 
                  dal fascismo. E ancora più avanti scoprii che molti altri 
                  sassi erano stati lanciati dalle folle in tumulto, come fece 
                  il popolo di Milano per chiedere il pane nel 1898, richiesta 
                  cui lo Stato sabaudo rispose con il cannone. Nella storia moderna 
                  i movimenti popolari hanno sempre usato questa forma di difesa, 
                  semplice spontanea diretta ed elementare. 
                  Io sono fermamente convinto che siano stati proprio quei sassi 
                  – impugnati, in svariate lotte, dalle generazioni ribelli 
                  che ci hanno preceduto – a permettere alla società 
                  civile di progredire, a permettere l'affermazione e il riconoscimento 
                  di tutti quei diritti sociali e quelle libertà civili 
                  che ormai sono patrimonio comune acquisito. Diritti per la cui 
                  difesa e ampliamento dovranno essere gettati ancora tantissimi 
                  sassi. 
                  Detto questo, mi auguro che ora la procura torinese non sequestri, 
                  per istigazione alla violenza, tutti i libri in cui compare 
                  l'immagine del ragazzino genovese. Secondo il governo e le sue 
                  fonti informative di sicurezza il nostro movimento sarebbe ormai 
                  ostaggio di frange violente e la Val Susa sarebbe diventata 
                  una palestra per i violenti di tutta Europa. Come a dire che 
                  coloro che hanno tirato dei sassi, tagliato delle reti o gettato 
                  dei petardi nel cantiere sono altra cosa rispetto a coloro che 
                  per anni hanno animato il movimento NO TAV. E oltre a essere 
                  diversi, la maggior parte non sarebbe nemmeno composta da valsusini. 
                  Nulla di più palesemente falso, perché in questa 
                  lotta tutti contribuiscono con le proprie capacità e 
                  possibilità. Non tutte le persone possono avere la prestanza 
                  fisica per arrampicarsi su per i sentieri, ma anche a chi resta 
                  indietro il cuore non cessa mai di battere all'unisono con tutti 
                  quelli che stanno tagliando le reti e sabotando i lavori. E 
                  che il movimento abbia raccolto con simpatia la solidarietà 
                  di numerose persone che, anche con sacrificio personale, sono 
                  accorse in Val Susa a sostenere la nostra lotta è un 
                  dato di fatto. Se il 27 luglio – a difendere la Maddalena 
                  – eravamo per lo più piemontesi, il 3 luglio sono 
                  giunti da tutta la penisola per protestare contro l'aggressione 
                  subita, che da tutti era considerata un atto di forza ingiustificato 
                  e violento da parte dello Stato italiano. Se non vi fosse stato 
                  questo alto grado di coscienza collettiva non si sarebbe certo 
                  radunata tanta gente. La parola d'ordine “Assediamo il 
                  cantiere” e l'obiettivo di quel giorno, l'abbattimento 
                  delle recinzioni, erano stati ampiamente pubblicizzati e condivisi 
                  da tutti. Per questo le reti furono attaccate in punti diversi, 
                  non solo dalla strada ma anche dai boschi, per questo finita 
                  la manifestazione, la gente non se ne era andata ma era rimasta 
                  sul posto a incitare coloro che le buttavano giù. 
                  E le forze dell'ordine ancora una volta sono ricorse alla guerra 
                  chimica, sparando migliaia di candelotti lacrimogeni, non solo 
                  su chi danneggiava le reti ma anche, proditoriamente, sugli 
                  inermi. E ancora una volta ci siamo difesi. 
                  Fra noi non ci sono differenze. Noi siamo un'unica comunità 
                  resistente. Si può resistere lanciando un sasso, sabotando 
                  le recinzioni e le attrezzature del cantiere, occupando un terreno, 
                  effettuando un blocco stradale, costruendo un presidio, intraprendendo 
                  un'azione legale, organizzando un dibattito o un volantinaggio 
                  e persino creando un gruppo di preghiera. E poi marciando tutti 
                  insieme. 
                  Il nostro è un movimento che, per condivisione di idee 
                  e unità di popolo, è stato giustamente paragonato 
                  – anche se in altro contesto storico e con altri mezzi 
                  – a quello della resistenza al nazifascismo. Sì, 
                  perché in Val Susa lo Stato italiano sta pesantemente 
                  militarizzando il territorio, continuando a inviare truppe che 
                  sono percepite dalla popolazione alla stregua di un esercito 
                  invasore. 
                  Più saremo attaccati, più ci mostreremo uniti. 
                  Un popolo, una lotta. 
                  Per portare un esempio personale, io sono stato obiettore di 
                  coscienza e resto tuttora convinto antimilitarista. Mai avrei 
                  immaginato nella mia esistenza di marciare in corteo assieme 
                  agli alpini NO TAV e di ritrovarmi dopo a bere e a scherzare 
                  con loro. Questa è la magia del nostro movimento. Un 
                  movimento di popolo che supera ogni divergenza, rispetta ogni 
                  differenza, e si stringe come un pugno solidale abbracciando 
                  tutti quelli vi si ritrovano. Questo è il motivo per 
                  cui nessuno riesce a dividerci. 
                  In questo processo si è parlato soprattutto di scontri, 
                  di agenti feriti, di manifestanti assetati di sangue. Chiunque 
                  abbia ascoltato le testimonianze degli agenti che hanno deposto 
                  si è reso conto di come molti di loro si siano accidentati 
                  da soli, per imperizia della montagna, distorcendosi cadendo 
                  o addirittura respirando il loro stesso gas, che i sassi dei 
                  manifestanti ben poco potevano contro caschi scudi e le robuste 
                  protezioni delle divise, che la maggior parte ha continuato 
                  il servizio fino alla fine per poi marcare visita e accorgersi 
                  delle “ferite” solo in serata. Quasi tutti i referti 
                  medici riportano prognosi brevi poi gonfiate a posteriori con 
                  presunte complicazioni. Lo stesso carabiniere, l'unico che il 
                  3 luglio ebbe un contatto diretto con i manifestanti, che ha 
                  dichiarato in quest'aula di essere stato massacrato di botte, 
                  ne è uscito con una prognosi esigua di 10 giorni, segno 
                  evidente che le percosse ricevute erano di lieve entità. 
                  Non così è accaduto a Fabiano Di Bernardino, NO 
                  TAV arrestato nella stessa giornata e poi pestato brutalmente 
                  all'interno del cantiere, riportando ulna radio e naso fratturati. 
                  Due pesi e due misure della stessa procura torinese, noi sul 
                  banco degli imputati, archiviazione per i massacratori in divisa. 
                  Noi non siamo fautori dello scontro a tutti i costi. Lo abbiamo 
                  accettato per legittima difesa ma non lo cerchiamo. Quello che 
                  ci interessa, ci anima e ci appassiona sono i momenti costruttivi 
                  di crescita collettiva della nostra lotta. Quei momenti in cui 
                  la storia si interrompe – anche se per un tempo brevissimo 
                  – e si può pensare e viversi in un mondo diverso, 
                  in cui condividere valori e speranze. E uno di questi momenti 
                  è stato la libera repubblica della Maddalena, che è 
                  stata una vera palestra, non di violenza ma di democrazia. Non 
                  della democrazia rappresentativa in cui si delega il potere 
                  ad altri che poi ne abuseranno a piacimento, ma della democrazia 
                  reale, quella in cui tutto un popolo si confronta, discute, 
                  decide e agisce in prima persona. 
                   
                  Un nuovo modello di democrazia 
                  Noi siamo un movimento che si oppone alla costruzione di una 
                  linea ferroviaria ad alta velocità che consideriamo inutile 
                  costosa e nociva. Nociva per l'ambiente, che verrà devastato 
                  in maniera irreversibile, e per la salute degli abitanti della 
                  Val Susa e di Torino, che saranno esposti per anni alla contaminazione 
                  di polveri d'amianto e persino radioattive. Inutile perché 
                  tutte le più elementari previsioni di traffico lo prospettano 
                  ampiamente. Costosa perché così vuole il sistema 
                  clientelare dei partiti che è alla base ogni grande opera 
                  nel nostro paese. Opere progettate per impinguare le casse di 
                  vari gruppi finanziari, di potenti lobbies di costruttori, di 
                  partiti politici e associazioni mafiose. La corruzione eletta 
                  a sistema. Costoro non hanno alcuna remora, per i propri miserabili 
                  tornaconti di bottega, a sottrarre sempre più risorse 
                  alla scuola, alla sanità, alla cultura, alle pensioni, 
                  alla salvaguardia del territorio e ai servizi per i cittadini. 
                  Di tutto questo – cioè delle ragioni e delle motivazioni 
                  degli imputati – in questo processo non se ne è 
                  voluto parlare. Come se le nostre ragioni – che dei tecnici 
                  competenti avrebbero ampiamente illustrato – non fossero 
                  attinenti al processo. E nemmeno di 'ndrangheta si è 
                  voluto parlare. Nonostante i giornali riferissero dei rapporti 
                  tra questa organizzazione mafiosa e le ditte appaltatrici del 
                  cantiere TAV di Chiomonte, proprio di quell'Italcoge che ha 
                  la faccia tosta di costituirsi parte civile contro di noi. 
                  Mentre noi venivamo denunciati, arrestati, vessati da misure 
                  cautelari sproporzionate, la mafia – dietro i reticolati 
                  – sotto la protezione delle forze dell'ordine e dell'esercito 
                  italiano, in tutta tranquillità faceva i suoi affari 
                  asfaltando le strade all'interno del cantiere. 
                  Gli svariati tentativi dei nostri difensori di introdurre questi 
                  elementi all'interno del processo sono sempre stati rigettati 
                  dal tribunale come non pertinenti. Si è deciso di fare 
                  in fretta e di chiudere gli occhi. 
                  Solo dibattendo su queste problematiche il tribunale avrebbe 
                  potuto avere un quadro esaustivo della posta in gioco, per entrambe 
                  le parti. Invece abbiamo assistito a un processo contro più 
                  di 50 oppositori del TAV in cui non si è discusso né 
                  del TAV né delle infiltrazioni mafiose che lo accompagnano. 
                  Qui si è preferito dibattere solo sulle distorsioni e 
                  sui lividi riportati dagli agenti per poi presentare il conto 
                  in pene detentive e pecuniarie. 
                  Io credo che sia impossibile giudicare qualsiasi fatto se lo 
                  si estrapola dal contesto in cui è maturato. La stessa 
                  azione che in una data circostanza può essere considerata 
                  riprovevole, all'inverso, può presentarsi virtuosa in 
                  altro contesto. Comunque le nostre ragioni – anche se 
                  non in quest'aula – sono ormai all'attenzione di tutto 
                  il paese. Una sempre più ampia fascia di persone sta 
                  cominciando a comprendere i meccanismi della truffa ad alta 
                  velocità della linea ferroviaria Torino-Lione. L'opposizione 
                  sta lentamente montando in tutta la penisola, e anche in Francia. 
                  Per noi lottare contro questa devastazione che lo Stato vuole 
                  imporre alla Val Susa è anche una questione morale. 
                  Noi abbiamo non solo il diritto ma anche il dovere di opporci. 
                  Non riconosciamo la regola che ogni decisione presa dalla maggioranza 
                  degli eletti sia indiscutibile e irrevocabile. Pensiamo che 
                  i cittadini debbano intervenire direttamente su ogni problema 
                  che li riguarda. 
                  Abbiamo indicato un nuovo modello di democrazia, in cui le minoranze 
                  hanno pari dignità delle maggioranze e non accettiamo 
                  diktat da parte dello Stato. E non ci fermeremo, nonostante 
                  la procura torinese continui a depositare decine di denunce 
                  nei nostri confronti, ipotizzando reati spropositati persino 
                  per episodi penalmente irrilevanti. Giustizia a tempo pieno 
                  e ad alta velocità solo contro il movimento NO TAV, che 
                  nelle aule di tribunale – a dispetto dei tempi lunghi 
                  – gode di una specifica corsia preferenziale. 
                  Non abbiamo paura. 
                  Noi, a differenza dei sostenitori del TAV, non abbiamo interessi 
                  particolari da difendere, non siamo qui seduti sul banco degli 
                  accusati per esserci illecitamente appropriati di qualcosa per 
                  mero tornaconto personale. Quello che ci muove è solo 
                  un'idea di giustizia. Noi siamo animati da alti valori etici 
                  e sociali. Coloro che in una determinata epoca storica sono 
                  ritenuti pericolosi delinquenti e come tali sono incriminati 
                  e sanzionati dalla legge possono diventare gli eroi di domani. 
                  Molti sovversivi che vennero condannati e patirono lunghe pene 
                  detentive durante gli anni bui del fascismo poi furono considerati 
                  i padri della repubblica, tanto che uno di loro ne è 
                  diventato persino il presidente. Lo stesso è accaduto 
                  a Nelson Mandela. 
                  Il movimento NO TAV – sia nel caso di vittoria, sia di 
                  sconfitta – sarà comunque riconosciuto dalle generazioni 
                  future come un modello eroico di resistenza. 
                  Per quanto ci riguarda, attendiamo il vostro verdetto senza 
                  timore, come sempre, con serenità e determinazione, con 
                  la coscienza e l'orgoglio di essere nel giusto. Perché 
                  le ragioni sono tutte dalla nostra parte. 
                  Il movimento NO TAV sta scrivendo la storia di questo paese. 
                  E la storia vi giudicherà. 
                 Tobia Imperato 
				
  
                
                   
                      
                        
                        Sardegna/Un 
                        consiglio di De André a Dio 
                         
                        Lodine 
                        è un piccolo paese della Barbagia, di 400 abitanti 
                        e immerso in un territorio ricco di siti archeologici 
                        pre-nuragici e nuragici, non lontano da Mamoiada, Orgosolo, 
                        Nuoro, Gavoi. 
                        Mi ci hanno condotto alcune amiche e amici di Nuoro e 
                        dintorni. 
                        È curioso come da qualche tempo, tutti gli abitanti 
                        di Lodine facciano disegnare sulle serrande metalliche 
                        dei propri garage, volti noti della musica, della politica, 
                        della vita civile. 
                        Fa eccezione questa foto che allego dove Fabrizio De André 
                        e la sua celebre citazione sulla vita in Sardegna non 
                        stanno su una delle tante serrande, ma nel muro di un 
                        bar con sovrastante abitazione. 
                        Le amiche e gli amici barbaricini, chiacchierando sulle 
                        curiosità della zona, mi hanno promesso che, essendo 
                        io un anarchico, un giorno mi avrebbero portato a Ovodda, 
                        il paese degli anarchici, talmente anarchici che il carnevale 
                        lo festeggiano il mercoledì delle ceneri. 
                        Saludos. 
                       Nicola 
                        Pisu 
                        Serrenti (Vs)  
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                          nostri fondi neri 
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                           Sottoscrizioni. Federico Andreini (Rimini) 
                            10,00; Remo Ritucci (San Giovanni in Persiceto – 
                            Bo) 20,00; Nazario Pignotti (Grottammare – Ap) 
                            10,00; Ettore Filippi (Empoli – Fi) 10,00; Gianandrea 
                            Ferrari (Reggio Emilia) 10,00; Arturo Schwarz (Milano) 
                            100,00; un compagno (Reggio Emilia) 200,00; Ivana 
                            Antonica (Frasso Telesino – Bn) per versione 
                            PDF della rivista, 4,00; Cristiano Draghi (Firenze) 
                            ricordando suo padre Gianfranco, 100,00; Aurora e 
                            Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello e Alfonso 
                            Failla, 500,00; Gianfilippo Gallo (Roma) 10,00; Ugo 
                            Fortini (Signa – Fi) ricordando Milena e Gasperina, 
                            30,00; Riccardo D'Agostino (Torino) 10,00; Libreria 
                            San Benedetto (Genova) 14,20; Igor Cardella (Palermo) 
                            20,00. Totale € 1.048,20. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Giuseppe 
                            Anello (Roma); Claudio Paderni (Bornato – Bs); 
                            Remy Perrot (Parigi - Francia). Totale € 
                            300,00. 
							Nell'elenco dei Fondi neri, pubblicato sullo scorso numero, abbiamo omesso di specificare che l'abbonamento sostenitore di Marco Galliari (Milano) era “dedicato” al ricordo di Franco Pasello. Ovviamo ora, unendoci a Marco nel ricordo di un caro amico e compagno, obiettore totale, antimilitarista, amico del popolo Rom, orgogliosamente panettiere, in assoluto il massimo diffusore (per oltre 30 anni) della nostra rivista nel corso della sua storia. Ciao Franco, ci manchi. 
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