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				 violenza di genere 
                  
                Al centro, i centri 
                  
                di Francesca Cuccarese e di Milena Scioscia 
                    
                Sono i centri antiviolenza: sessantasei in tutta Italia. 
Due operatrici di centri attivi in Toscana, rispettivamente a Prato e San Miniato, ne raccontano il contesto culturale e sociale,  spiegandone le modalità di funzionamento e gli strumenti di intervento. 
                 
                
                   
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                    |   Zapatos Rojos (Scarpe rosse), progetto d'arte pubblica  contro la violenza sulle donne dell'artista Elina Chauvet  | 
                   
                 
                 
 Donne che sostengono donne 
                   
                La pratica della differenza per il contrasto della 
                violenza di genere nella concreta esperienza dei centri antiviolenza.   
				 
                La cultura di genere come antidoto 
                 Quotidianamente si tenta di negare, eludere, far scomparire 
                  quanto di più universale e trasversale esista nella relazione 
                  tra donne e uomini: la differenza di genere e di conseguenza 
                  la violenza di genere. 
                  La violenza di genere è un fenomeno trasversale. Le vittime, 
                  così come gli autori, sono di tutte le età e di 
                  tutte le professioni, e gran parte della violenza avviene in 
                  famiglia, per mano di un partner o marito, spesso dinanzi ai 
                  figli. 
                  È un errore pensare che la violenza alle donne si verifichi 
                  solo in ambienti in cui ci sia qualche disagio sociale, o povertà 
                  culturale. Nessuna società o cultura ne è immune. 
                  La violenza colpisce le donne in ogni parte del mondo, nella 
                  sfera pubblica come in quella privata, in tempo di pace o durante 
                  i conflitti. Esiste una dimensione sociale della violenza 
                  alle donne perché essa attiene a profonde motivazioni 
                  culturali e ai modelli di relazione tra generi: la violenza 
                  altro non è che un modo per riappropriarsi di un ruolo 
                  gerarchicamente dominante, a cui sono da sempre stati concessi 
                  privilegi. Un modo per riappropriarsi di un potere. 
                  Con il termine contrasto alla violenza di genere intendiamo 
                  un universo di attività che nel loro complesso sono impegnate 
                  a condurre chi ha subito violenza verso la riscoperta della 
                  propria identità, del proprio valore, delle proprie competenze, 
                  per ritrovare così il desiderio di un nuovo progetto 
                  di vita. 
                  Nei centri antiviolenza vengono accolte e, se necessario – 
                  e possibile – ospitate donne di ogni paese, cultura e 
                  religione. Il capitale principale è costituito dalla 
                  motivazione, dalla competenza e dall'esperienza delle operatrici 
                  e ricercatrici, i cui migliori investimenti sono i programmi 
                  di libertà che mettono in atto. 
                  I centri antiviolenza non sono pensati in chiave assistenzialistica, 
                  nella convinzione che le forme dell'assistenza lascino i problemi 
                  così come sono, senza modificarne alcun aspetto, tanto 
                  da farli resuscitare nel momento stesso in cui l'aiuto cessa. 
                  Il sostegno dei centri tende invece a restituire nelle mani 
                  della donna, accolta o ospite, la sua stessa vita, ma arricchita 
                  dall'esperienza che l'ha condotta verso la conquista dell'autonomia, 
                  fattore indispensabile per proiettarsi verso un futuro scelto 
                  e non imposto con il sopruso. Una donna libera di scegliere, 
                  forte nella sua identità, capace di una analisi critica 
                  delle relazioni, consapevole delle sue competenze, è 
                  una donna preziosa per l'intera società.1 
                  Nelle associazioni di genere e nelle case delle donne si riversa 
                  tutta l'attualità difficile in materia di genere e sessualità; 
                  questi luoghi sono infatti come degli oblò attraverso 
                  i quali si scorgono le relazioni dispari fra i sessi, ma anche 
                  i disagi sociali e i traumi dei più piccoli. 
                  Qui dentro entrano tutte le forme della violenza sociale e culturale, 
                  realtà dolorose come lo stupro perpetuato dal genitore 
                  o da un parente, il rischio di morte per aggressione da parte 
                  della persona amata, la negazione dei più elementari 
                  diritti umani, il malessere e il dolore dei minori. Il nucleo 
                  di ogni intervento che si attua nei centri antiviolenza è 
                  costituito dalla capacità di ascoltare la donna e dalla 
                  disponibilità a sostenerla. La maggior parte delle donne 
                  che si rivolgono a uno sportello o centro antiviolenza per rompere 
                  il silenzio e chiedere aiuto mostrano sorpresa e sollievo nella 
                  scoperta, finalmente, semplicemente, di essere credute. 
                  Talvolta uscire dalla violenza può essere particolarmente 
                  difficoltoso; ci sono infatti dei fattori che portano la donna 
                  a non riuscire ad uscirne, o a ricaderne vittima. Per fattori 
                  situazionali intendiamo quelli che inducono la donna a rimanere 
                  o a tornare dal partner violento; le donne maltrattate sono 
                  infatti nella maggior parte dei casi dipendenti economicamente, 
                  terrorizzate rispetto a ripercussioni fisiche e psicologiche, 
                  vittime di stalking, impaurite dalla perdita dell'affidamento 
                  dei figli, prive di informazioni, carenti di relazioni parentali 
                  ed amicali che le facciano sentire accettate e comprese, spaventate 
                  di fronte all'ignoto, prive di un posto dove potersi rifugiare 
                  e dove sentirsi accolte. 
                  Questione di sopravvivenza 
                 I fattori emozionali sono quelli che condizionano la 
                  donna rendendo difficoltoso il percorso di fuoriuscita dalla 
                  violenza: l'insicurezza, la paura di non farcela, il crollo 
                  del progetto di vita costruito con il compagno violento e i 
                  sentimenti di lealtà verso di lui (lo devo capire), 
                  il desiderio di aiutarlo a cambiare, i sensi di colpa nei confronti 
                  dei figli e/o della famiglia d'origine per averne disatteso 
                  le aspettative, i sentimenti di amore e di speranza che le cose 
                  cambino, la bassa autostima indotta dalle umiliazioni subite, 
                  il senso di impotenza e di esaurimento. 
                  Influiscono poi le credenze personali, fattori che condizionano 
                  la donna nelle proprie scelte: idealizzazione della famiglia, 
                  forte senso religioso e/o forte credo nel vincolo del matrimonio, 
                  e altre false credenze indotte dal contesto sociale (i bambini 
                  hanno bisogno di un padre anche se violento, la salvezza della 
                  famiglia dipende da me). 
                  La donna vittima di violenza tende a proteggere il violento 
                  e cerca di giustificare il suo comportamento, rifiuta di collaborare 
                  per proteggersi dal dover prendere consapevolezza, esprime rabbia 
                  ed aggressività verso le forze dell'ordine e i servizi 
                  sociali se cercano di aiutarla, si assume la responsabilità 
                  della violenza del partner. 
                  La motivazione, nella maggioranza dei casi, è la sopravvivenza 
                  personale. 
                  Per questa ragione, uno dei punti cardine della metodologia 
                  d'accoglienza dei centri è quello per cui deve essere 
                  la donna stessa a doversi rivolgere alla struttura: parenti, 
                  amici, istituzioni non possono sostituirsi a lei, poiché 
                  il primo passo per allontanarsi da un uomo violento è 
                  avere la consapevolezza di essere vittima di violenza. 
                  È da qui che nasce la propria, personale determinazione 
                  e volontà di fuoriuscita. 
                  La pratica della relazione 
                 Nella maggioranza dei casi il primo contatto è telefonico: 
                  la donna chiama il centro antiviolenza per chiedere aiuto, spesso 
                  dopo un episodio o una serie di episodi particolarmente violenti, 
                  e fissa un appuntamento con la struttura. Anche in questo caso 
                  la volontà di scelta viene messa alla prova, fissando 
                  la data dell'appuntamento a qualche giorno dopo la telefonata 
                  (tranne in casi di emergenza) e non richiamando la donna in 
                  caso non si presenti. Può sembrare un metodo incoerente 
                  con la gravità e il pericolo che il fenomeno della violenza 
                  porta in sé, ma il know-how delle operatrici dei 
                  centri nasce dall'esperienza quotidiana con le donne vittime 
                  di maltrattamento, e trova conferma e riconoscimento in studi 
                  di livello internazionale. Nelle situazioni di vero e proprio 
                  pericolo di vita, la donna viene invece ospitata nel centro 
                  per un periodo di tre mesi. Durante il primo colloquio la donna 
                  esterna dubbi, paure e riceve tutte le informazioni necessarie 
                  a comprendere quali siano i propri diritti e le possibilità 
                  pratiche per uscire dalla condizione che sta vivendo. La donna 
                  elabora così un primo progetto di uscita dalla violenza, 
                  costituito da varie tappe, ciascuna delle quali caratterizzata 
                  da obiettivi specifici: richiesta di separazione, stesura di 
                  denunce-querele, consulenze specialistiche. Il percorso legale 
                  viene accompagnato dal percorso di elaborazione del proprio 
                  vissuto attraverso una serie di colloqui strutturati con le 
                  operatrici. Le operatrici dei centri, adeguatamente formate, 
                  conoscono bene le dinamiche della violenza. 
                  La metodologia che attuano durante i colloqui con le donne è 
                  finalizzata a ripercorrerne le tappe con la donna, ad accogliere 
                  il suo racconto personale senza apporre alcun segnale di giudizio, 
                  spogliandosi dei pregiudizi, delle aspettative e dei desideri 
                  salvifici, per mettersi in una posizione di ascolto sincero. 
                  Il percorso di fuoriuscita dalla violenza di cui le operatrici 
                  si fanno guida, attraverso i colloqui e le attività con 
                  le donne, è teso ad accogliere la donna nella sua interezza, 
                  rendendola consapevole delle proprie debolezze, dei punti di 
                  forza e di criticità, delle ansie personali e delle proprie 
                  motivazioni e attitudini. Gli anni di maltrattamenti perpetrati 
                  da parte del partner minano profondamente l'autostima della 
                  donna, che arriva a credere di essere la responsabile della 
                  situazione in cui si trova, di non essere una brava madre, una 
                  brava moglie, di essere brutta e stupida, di essere un'incapace. 
                  Non sono capace a fare niente, da sola non ce la farò 
                  mai, era meglio se morivo, queste sono le parole 
                  che spesso ascoltano le operatrici durante i colloqui. 
                  La formazione di genere e l'esperienza permettono alle operatrici 
                  di ascoltare, ricordare, guidare e valorizzare, non consentendo 
                  a intrusioni esterne, rappresentate da pregiudizi e stereotipi, 
                  di inficiare i momenti di condivisione. I colloqui non hanno 
                  il solo scopo di accogliere il dolore, ma di ricostruire l'autostima 
                  della donna, attraverso la lettura della sua storia in un'ottica 
                  di genere, che colloca cioè la violenza in una dimensione 
                  culturale e come tale ne riconosce il fenomeno. La donna ripercorre 
                  a ritroso la sua vita, fino a prima dell'incontro con l'uomo 
                  violento; si riscopre, si riconosce, ritrova la sua forza, che 
                  la violenza ha l'obiettivo di annullare e sottomettere. Si tratta 
                  di riprendere in mano le redini della propria vita, uscire dallo 
                  stato di vittima e ricominciare a decidere per sé, 
                  senza paura. 
                  Riconoscere la propria storia come simile a quella delle altre 
                  donne vittime di violenza di genere è un momento fondamentale 
                  per la presa di consapevolezza della sua origine culturale: 
                  la donna si spoglia del senso di colpa e di inadeguatezza personale 
                  e si identifica come parte di genere. 
                  L'intero cammino è segnato dalla scelta costante di riconoscere 
                  la donna come una sopravvissuta alla violenza, una forza 
                  viva a cui si deve dare la possibilità di essere sostenuta 
                  affinché possa liberarsi dal senso di colpa e ritrovare 
                  un senso di sé. Aiutare le donne a ritrovare il 
                  senso di sé e far rinascere in loro il desiderio di progettualità 
                  è il risultato finale a cui tende il lavoro dei centri 
                  antiviolenza. Un simile obiettivo non può che avere come 
                  strumento privilegiato quello della comunicazione profonda 
                  ed empatica generata dalla pratica della relazione femminista. 
                  Perché solo in questo modo possono essere scorti i bisogni 
                  e le risorse reali di ogni donna, in quanto donna. Taluni 
                  sono turbati nell'immaginare quest'attività come dolorosa. 
                  È invece una straordinaria avventura collettiva di donne 
                  che si incontrano su un desiderio comune: conquistare per sé 
                  e per le altre una liberazione mai raggiunta, ma tenacemente 
                  perseguita. Per mezzo di una solidarietà profonda, i 
                  centri trovano nella politica delle donne le fondamenta 
                  del fare e dell'elaborare. 
                  Attraverso la pratica della relazione con le operatrici 
                  specializzate, basata sull'affidamento e la disparità, 
                  gli strumenti principe esercitati dal femminismo della differenza 
                  attraverso l'autocoscienza, la dignità della donna, ascoltata, 
                  creduta e accolta, lentamente riemerge, permettendole nuovamente 
                  di ritrovare il piacere delle cose della vita. 
                  
                 La 
                  spirale della violenza  
                 Il vissuto personale di ciascuna donna vittima di maltrattamento 
                  in famiglia viene ripercorso nei centri attraverso i passaggi 
                  descritti dalla spirale della violenza. Da quanto emerge 
                  da numerose indagini2, la violenza 
                  domestica presenta delle peculiarità comuni, caratterizzate 
                  da alcuni meccanismi che si susseguono e si ripetono ciclicamente 
                  in maniera sempre più grave, fino ad intrappolare la 
                  vittima in una spirale, “immobilizzata come in una tela 
                  di ragno, tenuta a disposizione, psicologicamente incatenata, 
                  anestetizzata”3. L'uomo 
                  che perpetra tali maltrattamenti annienta gradualmente 
                  la sua preda fino a renderla incapace di reagire, senza 
                  mai ammettere siano modalità di potere e di controllo, 
                  giustificandone anzi le condotte come manifestazioni di eccessiva 
                  gelosia e affetto esasperato. La matrice culturale del fenomeno 
                  della violenza impedisce a sua volta alla donna di riconoscerli 
                  come tali, poiché i messaggi introiettati fanno rientrare 
                  nella normalità culturale certi comportamenti 
                  maschili. 
                  Durante il percorso di fuoriuscita dalla violenza, la donna 
                  viene sottoposta al modello della spirale, ripreso dal 
                  modello Duluth, Minnesota, della Power and Control Wheel 
                  (La ruota del potere e del controllo, 1993); il vantaggio 
                  è la portata globale di questo modello poiché, 
                  fermo restando le differenze culturali esistenti in ogni paese 
                  e quelle che possono essere le caratteristiche particolari di 
                  una realtà rispetto a un'altra, la modalità con 
                  cui viene agita la violenza all'interno di una coppia segue 
                  una strategia, un modello appunto, riscontrabile nella 
                  maggioranza dei casi.4 
                  In genere non ha inizio con maltrattamenti di tipo fisico, bensì 
                  di tipo emotivo psicologico, attraverso azioni subdole e meno 
                  evidenti. La prima tappa della “spirale” consiste 
                  nelle intimidazioni che avvengono attraverso la coercizione, 
                  minacce atte a spingere la donna a comportarsi come l'uomo vuole 
                  (se esci vuol dire che non ti manco, che non mi vuoi bene... 
                  se fai questo mi arrabbio...). Intimidazioni e minacce 
                  indeboliscono la donna e creano insicurezza nelle sue capacità 
                  decisionali autonome. 
                  Parallelamente viene attuato un progressivo isolamento 
                  della donna dal suo contesto familiare, lavorativo, sociale. 
                  L'uomo tenta di limitare i contatti della donna con i suoi amici, 
                  la possibilità di coltivare interessi, di lavorare (tua 
                  madre si mette sempre in mezzo... la tua amica è poco 
                  seria...). L'isolamento può arrivare a forme di segregazione, 
                  quali chiudere a chiave la donna in casa, portar via il telefono 
                  di lei o controllare le chiamate al rientro in casa. 
                  Una fase ulteriore è quella della svalorizzazione. 
                  Ogni attività della donna viene sminuita, ogni sua capacità 
                  e risorsa viene irrisa; l'obiettivo è la totale privazione 
                  dell'autostima della donna, al fine di privarla di qualunque 
                  possibilità di libera scelta e autodeterminazione. La 
                  svalorizzazione avviene anche attraverso la distruzione di oggetti 
                  e beni della vittima, la quale introietta in questa fase la 
                  sensazione di totale annullamento di se stessa (senza di 
                  me non sai fare niente...non sei capace a far nulla... 
                  non capisci niente... ma chi ti credi di essere... ma ti 
                  sei vista?) 
                  L'aggressione fisica, preceduta dalle tappe di violenza psicologica, 
                  arriva nel momento in cui una donna comincia a ribellarsi o 
                  cerca di uscire dalla violenza. Sono violenze fisiche e sessuali, 
                  in cui l'uomo usa la forza per obbligare la donna a essere toccata 
                  nella parti intime, ad avere rapporti sessuali (fai il tuo 
                  dovere coniugale...), o per picchiarla, incuterle terrore 
                  e impedirle così di ribellarsi o andarsene, ripristinando 
                  lo status quo di potere e manipolazione. 
                  Questi meccanismi della violenza sono alternati a momenti determinanti 
                  per il mantenimento della spirale e la crescita della tela di 
                  ragno: le false riappacificazioni. L'uomo violento alterna 
                  gesti e periodi di falso pentimento e di apparente normalità 
                  ad altri di improvvise, inaspettate fasi di aggressività 
                  e violenza, prostrando la vittima in un perenne stato di ansia, 
                  in cui non si conoscono mai né il tempo né la 
                  ragione dell'aggressione. Questa non continuità 
                  della violenza è una delle cause più rilevanti 
                  ad indurre una donna a restare, a non uscire dalla sua 
                  condizione. Questa sorta di fase da luna di miele induce 
                  la donna a credere che la situazione sia tornata come prima, 
                  che il suo compagno sia cambiato per amore (se la 
                  violenza fosse stata continua me ne sarei subito andata... c'erano 
                  sempre periodi di speranza e la cosa strana è che durante 
                  i periodi buoni, in cui faceva regali, mi aiutava in casa, andavamo 
                  fuori, io a malapena mi ricordavo dei brutti tempi...). 
                  Un'ulteriore fase che caratterizza la spirale della violenza 
                  è il ricatto sui figli. Per sostenere questa affermazione 
                  e utilizzarla realmente come minaccia, l'uomo si affida all'isolamento 
                  e alla paura in cui ha segregato la donna e al fatto, consequenziale, 
                  che le informazioni di cui ella necessita per confutare tale 
                  timore le siano inaccessibili. Maggiore è il tempo in 
                  cui la vittima permane in questo abuso psicologico, maggiore 
                  è quello in cui a tale abuso sono esposti i figli. È 
                  proprio questo il momento in cui la vittima si rivolge generalmente 
                  al centro: per salvaguardare l'integrità psichica dei 
                  figli. L'esperienza nei centri antiviolenza e numerose ricerche 
                  scientifiche dimostrano infatti che dalla spirale della violenza 
                  non si riesce a uscire da sole. Sono necessari percorsi 
                  di consapevolezza, scelte coraggiose e impegnative, figure di 
                  supporto competenti. 
                  Diamo i numeri? 
                 “Dire che c'è crisi economica, e quindi le donne 
                  possono continuare ad essere maltrattate e uccise, sinceramente 
                  non lo accetto. Perché è vero, siamo in un momento 
                  molto difficile, ma quello che manca in questo paese è 
                  l'assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni”. 
                  A parlare è l'avvocato Titti Carrano, presidente dell'Associazione 
                  Nazionale DiRe, Donne in rete contro la violenza, che 
                  rappresenta sessanta tra centri antiviolenza e case delle donne 
                  in tutta Italia, quasi il 50 per cento dell'offerta nazionale, 
                  dal momento che in Italia si contano 150 associazioni di questo 
                  tipo.5 
                  L'associazione DiRe è attiva sul territorio nazionale 
                  con due strumenti: i centri antiviolenza e le case 
                  delle donne. In questi luoghi le donne in difficoltà 
                  possono trovare un aiuto concreto, ospitalità in caso 
                  di pericolo, un luogo accogliente e sicuro per sé e per 
                  i propri figli. 
                  Le operatrici delle associazioni sono donne competenti e specializzate, 
                  che hanno frequentato formazioni ad hoc e hanno praticato 
                  tirocini sul campo, affiancate da operatrici esperte, in un 
                  passaggio e una condivisione di competenze professionali e risorse 
                  umane che le donne sono capaci di sviluppare e restituirsi in 
                  ogni ambito, in nome di quella solidarietà femminile 
                  che le ha unite nelle lunghe lotte per la libertà e l'autodeterminazione. 
                  Nel 2011 si sono rivolte ai centri di DiRe 13.137 donne, di 
                  cui 70 per cento per la prima volta, il 70 per cento italiane. 
                  Questo dato, da solo, è sufficiente a riflettere sull'urgenza 
                  di sportelli, centri, posti letto. Dei sessanta centri dell'associazione, 
                  invece, neanche la metà ha la possibilità di ospitare 
                  donne in difficoltà: in Sicilia c'è un solo centro 
                  con qualche posto letto, a Palermo, per 2 milioni e 600mila 
                  donne siciliane. Uno solo. In caso di emergenza, di una donna 
                  in pericolo di vita, si attiva la rete, ma si isola la donna. 
                  In Calabria, un solo centro, a Cosenza, ma non ha fondi, ed 
                  è senza posti letto. In Puglia due centri, a Barletta 
                  e a Polignano, in gravissime difficoltà economiche, entrambi 
                  senza posti letto. In Basilicata e in Molise non esistono centri, 
                  ne case rifugio. In Campania ci sono per fortuna tre case rifugio, 
                  aperte di recente in luoghi confiscati alla camorra. A Napoli 
                  invece il centro ha dovuto sospendere le attività perché 
                  dal 2009 non percepisce i fondi che il Comune gli deve. Le regioni 
                  italiane che contano il maggior numero di case sono la Lombardia, 
                  l'Emilia Romagna, la Toscana e il Lazio: laddove i centri ci 
                  sono, le donne arrivano a decine di migliaia. Il Centro Maree 
                  è uno dei tre centri finanziati dalla Provincia di Roma, 
                  Istituzione Solidea, con un milione di euro all'anno. È 
                  considerata una priorità della giunta della Provincia, 
                  ch'è riuscita a non tagliare i fondi a lei dedicati. 
                  Nel 2011 sono passate per questi centri più di 5.000 
                  donne, solo per un colloquio, mentre moltissime altre negli 
                  anni vi hanno trovato un rifugio in cui essere protette, uscire 
                  dalla violenza, ricostruirsi una vita per sé e per i 
                  propri figli. 
                  Statistiche comparate ed elaborate dall'associazione Women 
                  Against Violence Europe dicono che la forbice tra le Women 
                  Shelters (linguaggio militare che sottolinea l'urgenza di 
                  protezione, a dispetto del più morbido case delle 
                  donne) e quelle degli altri paesi europei, si allarga inesorabilmente 
                  nella conta dei posti letto: la Germania ha 7.000 posti disponibili 
                  all'anno, corredati da assistenza sanitaria, psicologica, sociale 
                  e legale; la Spagna, grazie al governo Zapatero, ha 4.500 posti 
                  letto, l'Inghilterra 3.890. 
                  I dati che impressionano sono quelli che ci vedono indietreggiare 
                  di fronte a paesi quali la Turchia, con un numero tre volte 
                  superiore rispetto al nostro e, se si prende come riferimento 
                  lo standard europeo di un posto letto per 10.000 abitanti, è 
                  impressionante leggere che la nostra percentuale è relativa 
                  allo 0,09 per cento. Il Consiglio d'Europa, nelle raccomandazioni 
                  che basterebbe seguire, ci dice che l'Italia dovrebbe avere 
                  1 posto d'emergenza per le donne ogni 10.000 abitanti, per un 
                  totale di 5.700 posti letto: attualmente, ne abbiamo 500. Undici 
                  volte in meno: 1 posto letto ogni 110.000 abitanti. 
                  Hanno fatto meglio di noi la Grecia, l'Albania, l'Armenia, la 
                  Bosnia-Erzegovina, la Croazia, Cipro, la Georgia, l'Islanda, 
                  l'Irlanda, la Macedonia. Abbiamo battuto, sul filo dei decimi, 
                  l'Azeirbaigian, la Bulgaria, l'Estonia.6 
                  Il Consiglio d'Europa, nelle raccomandazioni che basterebbe 
                  seguire, ci dice che l'Italia dovrebbe avere 1 posto d'emergenza 
                  per le donne ogni 10.000 abitanti, per un totale di 5.700 posti 
                  letto: attualmente, ne abbiamo 500. Undici volte in meno: un 
                  posto letto ogni 110.000 abitanti. 
                  Costi sociali e tagli ai bilanci 
                 Se una donna prigioniera già da molto tempo delle percosse 
                  e della paura non ha vicino a sé un posto a cui rivolgersi, 
                  a cui chiedere aiuto, o se quel luogo è stato aperto 
                  per qualche anno o per molti, accumulando esperienza, capacità, 
                  contatti, capitale umano, risorse, ricchezza, e poi chiude e 
                  disperde tutto a causa dei fondi a singhiozzo e di scelte politiche 
                  diverse, quanto costa all'intero paese questa assenza gravissima, 
                  in termini di salute, di welfare, di mancata crescita, di partecipazione 
                  sociale, lavorativa, professionale, umana? Nei casi in cui queste 
                  risorse mancano, o sono distribuite in modo disomogeneo sul 
                  territorio nazionale, creando territori di serie A e di serie 
                  Z, a farne le spese sono sempre le donne che poi vengono uccise 
                  anche perché non hanno potuto fare affidamento su una 
                  rete funzionale di servizi che le proteggesse. 
                  In termini di costi, sociali oltre che umani, alcuni studi del 
                  2003 di Dugan, Nagin, Rosenfeld7 
                  dimostrano che i tagli che i governi operano a sfavore dei servizi 
                  di tutela per la vittima per prevenire la reiterazione della 
                  violenza, fanno lievitare i costi che ne derivano (spese sanitarie, 
                  legali, forze dell'ordine, della giustizia, perdita di produttività, 
                  costi legati all'infanzia privata della madre, che deve sopravvivere 
                  al doppio trauma della violenza assistita e della perdita dei 
                  genitori). Allo stato in fin dei conti costerebbe molto meno 
                  spendere per la prevenzione e affidarsi alle competenze preziose 
                  maturate negli anni dalle donne che sostengono altre donne, 
                  salvando loro la vita. 
                  In Italia la variabile della continuità a quanto pare 
                  però, non è prevista: nel 2012 sono stati lanciati 
                  dei bandi ministeriali, 20 milioni di euro in più, con 
                  lo scopo di coprire i territori regionali scoperti e aprire 
                  12 nuove case delle donne. Il problema è che il piano 
                  viene finanziato per pochi anni, e già con il dubbio 
                  che nell'anno in corso non si trovino i fondi per rinnovare 
                  il finanziamento. I progetti vengono infatti coperti per 24 
                  mesi, dopodiché il rischio è aver aperto strutture 
                  che gli enti locali non riescono a sostenere o che non percepiscono 
                  come priorità nella loro agenda politica, e che quindi 
                  dovranno chiudere. 
                  Tutto chiede che sulla violenza non si tagli, ogni nome, ogni 
                  dato dice che sulla violenza non si può tagliare, perché 
                  se si taglia sulla violenza avremo per sempre donne vittime 
                  e bambini che pagheranno le conseguenze di quanto vissuto. Tutto 
                  dice che le donne che escono dalla violenza tornano attive nella 
                  vita sociale, culturale, tornano a lavorare, tornano ad essere 
                  una risorsa per tutti. Le operatrici delle case delle donne 
                  insegnano: prima si esce dalla violenza, meno tempo serve per 
                  ricostruirsi una vita. 
                  Solo i paesi che combattono la violenza e ogni forma di oppressione 
                  contro le donne figurano di diritto tra le società più 
                  avanzate.  
                Note
 
                  - differenzadonna.org/attivita/centri-antiviolenze/index.html. 
                  
 - M. A. Gainotti e S. Pallini (a cura di), Uscire dalla violenza. 
                  Risonanze emotive e affettive nelle relazioni coniugali violente. 
                  Edizioni Unicopli, Milano 2006, pag. 32.
                  
 - A. C. Baldry, Dai maltrattameti all'omicidio. la valutazione 
                  del rischio di recidiva e dell'uxoricidio. FrancoAngeli, 
                  Milano 2008, pag. 39.
                  
 - Ibidem, pag. 39.
                  
 - R. Iacona, Se questi sono gli uomini, Chiarelettere, 
                  Milano 2012, pag. 114.
                  
 - Ibidem, pagg. 119-120. 
                  
 - A. C. Baldry, Op. Cit. pag. 59.
                  
  
                 
                 
                     
                 Come operano i centri antiviolenza 
                   Assistenza legale, gruppi di auto mutuo aiuto, gruppi di conoscenza 
                  e di cura di sé, gruppi di sostegno alla genitorialità, 
                  incontri protetti, codice rosa, servizi anti-stalking. Viaggio 
                  tra i mille modi per affrontare un fenomeno molto più 
                  diffuso di quanto si creda.  
                   
                  a) Assistenza legale 
                  
                L'assistenza legale dei centri è specializzata in materia 
                  di violenza di genere e nella difesa dei diritti delle donne 
                  e dei loro figli minorenni. Si compone di avvocate specializzate 
                  afferenti a tre settori: diritto civile, diritto penale e tribunale 
                  per i minorenni. Le donne che lo richiedono sono poi seguite 
                  lungo tutto l'eventuale percorso legale fino alla sentenza definitiva. 
                  Il valore più alto del supporto legale dei centri antiviolenza 
                  sta nel suggerire un cambiamento nello sguardo colpevolizzante 
                  e discriminatorio che spesso le leggi gettano sulle donne che 
                  hanno subìto violenza e coloro che le rappresentano, 
                  quando chiedono che ciò sia riconosciuto, chiedendo giustizia 
                  per questo. 
                  Gli obiettivi più specifici dell'ufficio legale sono: 
                  - innovare la cultura giudiziaria attraverso lo studio delle 
                  fonti dell'Ue e delle organizzazioni internazionali in materia 
                  di violenza di genere; 
                  - elaborare strategie difensive e le prassi giudiziarie a vantaggio 
                  delle donne e dei figli minorenni che hanno subito violenza; 
                  - ricercare la giurisprudenza penale, civile e internazionale 
                  più innovativa. 
                  Questo tipo di assistenza mira a realizzare un intervento interdisciplinare 
                  e interistituzionale operando in stretta sinergia con le psicologhe, 
                  le operatrici e tutte le altre figure professionali presenti 
                  nelle associazioni di genere per assicurare a ciascuna donna 
                  un intervento mirato e specifico. I servizi prevedono la formazione 
                  e la stretta collaborazione tra i centri, le forze dell'ordine, 
                  i tribunali, e tutti i servizi di giustizia coinvolti. 
                  b) I gruppi di auto mutuo aiuto 
                 Sono rivolti essenzialmente alle operatrici dei centri ma 
                  in alcune associazione si formano anche gruppi per le vittime 
                  di violenza domestica. I gruppi di “auto mutuo aiuto” 
                  si basano su una cultura solidaristica e si pongono come nuovi 
                  modi per far fronte a situazioni di disagio personale. 
                  Attraverso questi gruppi si rende possibile una ricca e diversificata 
                  circolazione di esperienze, modi di pensare che si traducono 
                  nella opportunità di ampliare i confini della propria 
                  esperienza e delle proprie prospettive. I feedback diventano 
                  informazioni condivise significative riguardanti il modo di 
                  essere e di comportarsi di ognuna, contestualizzando così 
                  la propria esperienza personale nel più ampio spettro 
                  della violenza di genere quale fenomeno culturale. Attraverso 
                  le esperienze delle altre vengono compresi in modo differente 
                  i vissuti di ciascuna donna, e quindi le modalità per 
                  affrontare e superare le diverse problematiche che l'impegno 
                  nei centri richiede. Anche se questi gruppi vivono essenzialmente 
                  del valore del confronto fra le partecipanti, si rivela preziosa 
                  la presenza di una operatrice competente ed esperta che coordini 
                  gli incontri. 
                  c) I gruppi sulla conoscenza e cura di sé 
                 Sono rivolti alle ospiti dei centri. Sono incontri sull'igiene 
                  della persona e sull'igiene alimentare. Sono condotti da specialiste 
                  di informazione medica e da dietologhe, in aiuto alla scoperta 
                  delle motivazioni che impediscono alle donne di aver cura di 
                  sé e al confronto sui percorsi idonei per il raggiungimento 
                  del proprio benessere. Tali interventi si rendono necessari 
                  poiché molto spesso le donne che vengono ospitate, sopraffatte 
                  dalle difficoltà vissute, dimenticano la propria persona 
                  in un crescendo di trascuratezze personali. Si ritiene 
                  un prodromo di cambiamento positivo, quando una donna ospite 
                  migliora visibilmente il suo aspetto e la cura che dedica agli 
                  eventuali figli. 
                  Le operatrici ormai sanno che il primo momento di un progetto 
                  di successo è sempre la scoperta della cura di sé. 
                  d) I gruppi di sostegno alla genitorialità 
                 Per le donne accompagnate da figli minori è previsto 
                  un percorso di rafforzamento della relazione affettiva e del 
                  rapporto tra madre e figlio attraverso il sostegno alla genitorialità. 
                  I centri propongono alle donne la possibilità di condividere 
                  con le altre le proprie scelte e le proprie difficoltà, 
                  per riconoscere la comune appartenenza ad un contesto sociale 
                  in cambiamento, promuovendo gruppi che rappresentino delle reti 
                  sociali che consentano alle mamme di riappropriarsi e di rivitalizzare 
                  le proprie reti sociali naturali. Un gruppo di sostegno può 
                  accompagnare le mamme a sviluppare ciò che è già 
                  presente in loro internamente, senza sostituirsi al loro ruolo, 
                  aiutandole però ad esprimerlo e ad approfondirlo. 
                  e) Gli incontri protetti 
                 A volte il tribunale dispone che il genitore non affidatario 
                  possa incontrare il figlio solo in condizioni protette. Le ragioni 
                  possono essere molteplici. Può accadere semplicemente 
                  perché il genitore è stato per lungo tempo lontano 
                  dal piccolo e deve quindi lentamente ristabilire con lui una 
                  relazione. Spesso però le ragioni sono più gravi: 
                  il bambino può aver assistito alla violenza esercitata 
                  sulla madre, e dunque teme che il genitore sia una minaccia 
                  anche per lui, o può essere stato maltrattato, o rischia 
                  di essere portato oltre il confine nazionale nel caso in cui 
                  il genitore è cittadino di un altro paese. In questi 
                  casi particolarmente problematici il tribunale tutela il minore 
                  disponendo per lui questo sistema di protezione, evitando così 
                  di interrompere definitivamente il rapporto fra il genitore 
                  e il figlio. 
                  Spesso il tribunale o i servizi sociali incaricano i centri 
                  antiviolenza di svolgere gli incontri protetti all'interno dei 
                  propri centri. In ognuno dei centri antiviolenza vi è 
                  un locale accogliente e fornito di giocattoli destinato a questi 
                  incontri. 
                  Inizialmente il genitore viene convocato dalla struttura ospitante 
                  e messo al corrente delle modalità in cui si svolgono 
                  questi incontri, che potranno iniziare solo dopo che il genitore 
                  abbia accettato e firmato il regolamento che li norma. 
                  Un'operatrice specializzata dell'associazione accompagna il 
                  bambino e resta come testimone attenta durante le ore di incontro 
                  (due ore circa). 
                  L'operatrice scrive poi una breve relazione sui comportamenti 
                  del genitore, sui miglioramenti nella relazione fra padre e 
                  bambino o sulle difficoltà a volte insormontabili che 
                  questi incontri denunciano. Semestralmente il tribunale riceve 
                  una relazione complessiva dove si può dedurre se gli 
                  incontri hanno dato buoni risultati o se invece i rischi iniziali 
                  si sono attenuati o accentuati. Le operatrici dei centri svolgono 
                  quindi non solo una funzione di tutela del bambino, ma anche 
                  di garanti dei provvedimenti del tribunale lavorando in stretto 
                  contatto con i servizi territoriali e con le istituzioni. 
                  f) I servizi antistalking 
                 Ancor prima che venisse promulgata la legge antistalking 38/2009 
                  l'associazione Differenza Donna di Roma, riconoscendo la gravità 
                  del fenomeno, si è dotata in ogni suo centro di sportelli 
                  antistalking che offrono: counselling psicologico; consulenza 
                  e assistenza legale per le vittime di stalking; sostegno psicologico, 
                  indispensabile in particolar modo durante quella delicata fase 
                  dove alla vittima si richiede collaborazione nel processo di 
                  raccolta delle prove; valutazione del rischio di recidiva e 
                  di escalation, utilizzando per i casi di stalking tra 
                  ex partner il metodo Thais (Threat Assessment of Intimate 
                  stalking) e il Sara (Spousal Assault Risk Assessment); 
                  monitoraggio dei casi attraverso studi di follow-up per 
                  la verifica dell'efficacia dei vari percorsi giudiziari ed extragiudiziari 
                  intrapresi; contatto diretto con lo stalker, qualora non ci 
                  sia un procedimento in corso, per informarlo dei rischi legati 
                  alla sua condotta e delle possibili conseguenze, e per proporgli 
                  un percorso di sostegno e di elaborazione delle sue problematiche; 
                  promozione di percorsi di formazione e aggiornamento rivolti 
                  ad altre associazioni di genere, psicologhe, educatrici, operatori 
                  dei servizi sociali, forze dell'ordine e della giustizia, operatori 
                  sanitari, scuole, professionisti, università, istituzioni 
                  nazionali e internazionali. 
                  
                 g) 
                  La salute delle donne: il Codice Rosa  
                 La violenza denunciata spontaneamente dalle donne è 
                  solo una parte del reale numero delle vittime di violenza. 
                  Così come le forze dell'ordine a cui esse si rivolgono 
                  hanno il dovere di informarle sui propri diritti, piuttosto 
                  che consigliar loro di non rovinare una famiglia, tanto 
                  il medico o l'infermiere che incontra una donna con lesioni 
                  dirette o indirette, presumibilmente dovute ad uno o più 
                  episodi di maltrattamento, ha il dovere di renderla consapevole 
                  della correlazione tra lo stato di salute in cui versa e le 
                  conseguenze traumatiche del suo vissuto. 
                  Le vittime di violenza utilizzano frequentemente i servizi legati 
                  alla salute: medico di famiglia, pronto soccorso, consultori 
                  per Ivg o visite ginecologiche, centri specialistici per cefalee 
                  o altri disturbi cronici. Eppure, anche in questo caso, gli 
                  operatori addetti tendono a non vedere, a non riconoscere, 
                  e ad attuare quindi gli schemi stereotipanti di cui abbiamo 
                  già parlato, correlati cioè all'esonero del 
                  violento e ad atteggiamenti di biasimo/colpevolizzazione 
                  della vittima fino a ritenere, nei casi dei peggiori pregiudizi, 
                  la possibilità che le vittime siano masochiste, 
                  o complici della violenza. L'emergenza codice rosa 
                  nasce per individuare i fattori predittivi di una situazione 
                  presumibilmente correlata alla violenza di genere, a partire 
                  dalla constatazione di uno stato di malattia, con l'obiettivo 
                  di individuare ed attivare gli interventi più adeguati 
                  allo specifico caso. 
                  L'associazione Differenza Donna, attuatrice della sperimentazione 
                  del codice rosa presso alcune strutture mediche della 
                  capitale, tra cui il policlinico Umberto I, ha attivato negli 
                  ultimi anni un servizio in loco grazie al quale ha affiancato 
                  gli operatori sanitari, per individuare con loro gli indicatori 
                  di violenza atti a redigere l'anamnesi del malessere e della 
                  violenza da accludere all'anamnesi clinica della donna o 
                  del minore, realizzando le buone pratiche dell'accoglienza 
                  in sinergia con gli operatori sanitari. 
                  Il codice rosa, attualmente attivo, garantisce: 
                  - un attento ascolto del contesto sanitario, in cui è 
                  possibile individuare situazioni di violenza; la possibilità 
                  di attivare le risposte necessarie attraverso il coinvolgimento 
                  immediato di altre figure (forze dell'ordine, magistrato competente); 
                  - il confronto tra l'operatrice specializzata in violenza di 
                  genere e gli operatori sanitari, per il riconoscimento dei singoli 
                  casi come parte di un fenomeno sociale più ampio; 
                  - la possibilità di documentare le attività svolte 
                  per produrre dati utili a ricerche epidemiologiche e qualitative, 
                  e dunque per monitorare e convalidare le prassi adottate; 
                  - la sperimentazione di un approccio prognostico per individuare 
                  i fattori predittivi di un probabile rischio di recidiva, utile 
                  a realizzare un piano efficace di gestione e contrasto della 
                  stessa. La rete messa in atto dal codice rosa prevede 
                  l'intervento della magistratura penale e civile dei tribunali 
                  ordinari e dei tribunali dei minorenni, le forze dell'ordine, 
                  le aziende ospedaliere, le aziende sanitarie locali, i servizi 
                  socio-assistenziali e socio-sanitari, le scuole e, ovviamente, 
                  i centri antiviolenza. 
                  Specializzare, sensibilizzare, informare, comunicare  
                  a) Formazione 
                 
                 Una delle attività fondamentali dei centri antiviolenza 
                  è la formazione, intesa come crogiuolo di azioni volte 
                  a sensibilizzare, informare, specializzare, 
                  raggiungendo in tal modo il maggior numero di persone e attori. 
                  Dal 1993 l'associazione Differenza Donna nello specifico offre 
                  gratuitamente ogni anno a circa 45 donne un corso teorico pratico 
                  di nove mesi per future operatrici, e una formazione permanente 
                  alle operatrici già attive nei suoi centri antiviolenza. 
                  Ogni associazione di genere e centro antiviolenza promuove, 
                  all'interno di progetti finanziati da enti locali, dipartimento 
                  pari opportunità della presidenza del consiglio, ministero 
                  della salute, ministero del lavoro, ministero degli affari sociali, 
                  provveditorati agli studi, regione di competenza, corsi di formazione 
                  specializzata per operatori del settore, magistrati, forze dell'ordine, 
                  polizia municipale, psicologi, operatori sanitari, assistenti 
                  sociali, associazioni di donne, nonché corsi di sensibilizzazione 
                  per studenti e docenti delle scuole pubbliche primarie e secondarie 
                  e corsi specialistici o laboratori promossi da alcune università. 
                  b) Prevenzione 
                 Contrastare la violenza di genere significa lavorare non solo 
                  sulle conseguenze e i traumi che questa comporta per le donne 
                  e i loro figli, ma anche e soprattutto nel contribuire a prevenirla. 
                  Ogni attività di formazione promossa dai centri antiviolenza 
                  è intesa come occasione di prevenzione. 
                  Le associazioni di genere scelgono spesso di lavorare con le 
                  adolescenti e gli adolescenti con l'obiettivo di favorirne la 
                  crescita, portando l'ottica di genere quale apprendimento 
                  necessario per la costruzione dell'identità di sé 
                  e il riconoscimento di quella degli altri e delle altre attorno 
                  a sé. 
                  Dall'esperienza delle metodologie proprie del lavoro politico 
                  tra e per le donne vittime di violenza fatta nei 
                  centri antiviolenza, le socie hanno messo a punto, grazie a 
                  professionalità diverse, percorsi didattici di prevenzione 
                  rivolti ai ragazzi e alle ragazze delle scuole pubbliche primarie 
                  e secondarie con i principali focus sull'alfabetizzazione 
                  emotiva, la de-strutturazione degli stereotipi di genere e l'attivazione 
                  di letture critiche del fenomeno della violenza, attuati con 
                  metodologie relazionali innovative e secondo un'ottica di genere. 
                  Nascono così progetti di prevenzione primaria che di 
                  volta in volta trovano la collaborazione delle istituzioni nazionali 
                  e locali, delle associazioni professionali, della scuola, del 
                  mondo della ricerca. 
                  I percorsi didattici di prevenzione alla violenza sulle donne 
                  permettono di entrare in contatto con i bambini e gli adolescenti 
                  attraverso uno scambio intergenerazionale non-giudicante sui 
                  temi di genere, di costruire con loro una presa di coscienza 
                  critica della propria identità di genere, di ri-leggere 
                  le loro relazioni tra pari in un'ottica di rispetto e 
                  apprezzamento delle differenze. 
                  c) L'Osservatorio che comunica la violenza di genere 
                 Solidea, l'Istituzione di Genere femminile e Solidarietà 
                  della provincia di Roma, attiva nel 2005 un osservatorio sulle 
                  donne vittime di violenza e i loro bambini. 
                  Questo spazio provvede da allora alla costruzione di strumenti 
                  di diffusione e di divulgazione delle informazioni diretti sia 
                  ai cittadini che agli operatori del settore, al fine di supportarne 
                  la difficile gestione delle quotidiane criticità. 
                  A partire dalla raccolta sistematica dei dati, l'organizzazione 
                  e lo studio di alcuni aspetti del fenomeno, l'esperienza maturata 
                  a livello locale è divenuta un esempio di buona pratica 
                  nel campo della diffusione e della disseminazione delle informazioni, 
                  tanto da allargarsi alla provincia di Vibo Valentia in Calabria 
                  e in Toscana, attraverso la formazione delle operatrici dell'associazione 
                  Frida di Ponte a Egola (Pi). 
                  L'Osservatorio copre diverse aree di studio e di ricerca: 
                  - l'area giuridico-normativa (leggi promulgate sul tema, livelli 
                  di attuazione delle norme, aree tematiche e territorio); 
                  - l'area statistica (sistema di indicatori di genere, contesti, 
                  approfondimenti tematici, soggetti specifici); 
                  - la mappatura dei servizi presenti sui territori; 
                  - la diffusione delle pubblicazioni dell'osservatorio e dei 
                  link utili. 
                  L'osservatorio ospita inoltre un'area riservata (intranet) 
                  nella quale è in fase di sperimentazione l'attivazione 
                  di un flusso informativo basato sulla rilevazione di una serie 
                  di dati socio-demografici e dei bisogni specifici relativi alle 
                  donne che si rivolgono ai centri, che alimentano una base di 
                  micro-dati. 
                  Attraverso un sistema di warehousing, la raccolta e l'incrocio 
                  dei dati garantisce la produzione di mini-report aggiornati 
                  con le informazioni statistiche aggregate per vari livelli. 
                  L'area riservata alle operatrici dei centri per l'inserimento 
                  dati è ovviamente governata in base alle norme sulla 
                  tutela della privacy (d.lg. 196/2003). 
                  L'analisi della totalità dei dati inseriti permette un 
                  approfondimento sulle condizioni della donna nelle aree che 
                  fanno parte dall'osservatorio, sulle forme di espressione della 
                  violenza di genere, sulle azioni più efficaci attuate 
                  per accrescere la consapevolezza della gravità della 
                  situazione nelle vittime, sui percorsi virtuosi intrapresi per 
                  affiancarle nel momento di fuoriuscita dalla violenza. 
                  La homepage dell'osservatorio è nel sito: solideadonne.org. 
                  Una porta che apre ad un mondo che non è fatto solo di 
                  donne, ma di donne e di uomini. 
                  Perché la violenza dell'uomo sulla donna impone una riflessione 
                  che li comprenda entrambi: affinché il cambiamento culturale 
                  si traduca in comune consapevolezza del valore reciproco e paritario 
                  della dignità umana e della ricchezza delle sue differenze. 
                  La più felice espressione di tale consapevolezza si realizza, 
                  infatti, nella relazione.
                  Francesca Cuccarese e Milena Scioscia
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