rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014


r/esistenze

La città informale

di Laura Antonella Carli


Dharavi (Mumbai, India) è il regno dell'economia sommersa.
Kibera (Nairobi, Kenya) è un piccolo, efficiente angolo di libero mercato.
Gli slum come eterotopie, tra economia informale, spazi di resistenza e tentativi di assorbimento.

Il giardino persiano anticamente era un rettangolo diviso in quattro parti – le quattro parti del mondo, i quattro elementi – con al centro una fontana o un tempio, e intorno esemplari della vegetazione di tutto il mondo: tutto il mondo conosciuto in un unico, perfetto rettangolo di terra.
Per Foucault è proprio il giardino persiano, riprodotto sui tappeti orientali, veri e propri “giardini d'inverno”, a essere l'archetipo dell'eterotopia, assieme a una varietà di altri spazi che fanno del concetto un'espressione più evocativa che definitoria – dai cimiteri agli ospizi, dagli hammam ai teatri. Perfino il viaggio di nozze delle fanciulle e, in genere, i luoghi di transizione.
Per il pensatore, ogni civiltà crea al suo interno degli “spazi assolutamente altri”, luoghi che si oppongono a tutti gli altri, la cui funzione è “cancellare, compensare, neutralizzare o purificare” i luoghi in cui si inseriscono, e giustapporre in un luogo reale – in questo l'eterotopia si distingue dall'utopia – più spazi che normalmente sarebbero incompatibili. Si tratta sostanzialmente di contro-spazi, un concetto che, secondo Foucault, i bambini conoscono molto bene: sono i nascondigli, le soffitte, il bosco, la notte; persino il grande letto dei genitori. Luoghi in cui è possibile rintanarsi, isolarsi, pensare all'altrimenti.
Anche la società adulta crea i suoi contro-spazi, le sue utopie situate. Luoghi di evasione – il cinema, il teatro, il villaggio-vacanze –, luoghi in cui racchiudere il tempo – la biblioteca, il museo –, luoghi di segregazione – il manicomio, la casa di riposo, il carcere.
Ogni società crea, distrugge, modifica le proprie eterotopie. Ma cosa succede se dei luoghi altri sorgono spontaneamente? È possibile per la società riassorbirli all'interno delle sue dinamiche o deve necessariamente distruggerli? Ed è davvero possibile che un'eterotopia sorga indipendentemente dalla società entro cui nasce?

La città-alveare

Mumbai è la città più ricca ed elegante dell'India. In seguito al boom edilizio degli anni settanta è diventata la prima città al mondo per densità di abitazione. A partire dalle liberalizzazioni del 1991 è diventata anche la capitale economica del paese, il cuore pulsante della nuova potenza indiana, culla di Bollywood e della nuova borghesia cosmopolita che parla inglese e studia all'estero. Accanto a questa economia trionfale però esiste un'economia parallela: un brulicare di piccoli negozianti, sarti, tassisti, venditori ambulanti: è “l'economia informale” di Dharavi, lo slum più grande d'Asia.
L'India non ha seguito il modello di sviluppo dell'Asia orientale: non possiede giganteschi distretti industriali, nonostante il governo abbia cercato per anni di attirare le grandi imprese creando zone economiche speciali. “Dharavi è una zona economica speciale per poveri che si è creata da sola” scrive Jim Yardley sul New York Times “che incarna il fallimento della politica e la sua incapacità di dare un alloggio decente ai milioni di immigrati che arrivano dalle campagne”.
A Dharavi infatti vivono circa un milione di persone, distribuite in 60mila abitazioni, soprattutto baracche. I vicoli sono così stretti che in alcuni non filtra la luce del sole, i gabinetti sono in comune e le acque di scolo scorrono attraverso canali scoperti.
Nel bel mezzo della città-simbolo del miracolo economico indiano, Dharavi è l'incarnazione della disuguaglianza: una ferita nella metropoli. Ma allo stesso tempo è parte attiva di questa economia galoppante: una città-alveare estremamente laboriosa, che frutta una produzione annuale che va dai 600 milioni a più di un miliardo di dollari.
Regno dell'economia sommersa, Dharavi offre un'opportunità anche a chi non avrebbe mai potuto ottenere un finanziamento o uno spazio per iniziare la propria attività: per questo lo slum attira sempre nuovi abitanti, ed è talmente dedito al business che alcuni studenti che ci abitano hanno deciso di sfruttare la sua “alterità” organizzando tour guidati per i turisti, per un prezzo che si aggira intorno alle 400 rupie a testa (circa 6 euro). Non stupisce che questo triangolo di terra cosparso di baracche di lamiera sia diventato col tempo oggetto di piani di investimento e riqualificazione da parte di politici e imprenditori. Un grande progetto approvato nel 2006, attualmente ancora fermo per questioni burocratiche, prevede la costruzione di spazi abitativi e commerciali gratuiti per gli abitanti, ma anche la possibilità di intervento per investitori privati e costruttori.
È l'economia ufficiale che irrompe tra le maglie dell'economia informale per assorbire l'eterotopia.

Kibera, Nairobi (Kenya), gennaio 2008. Un falegname
lavora alla costruzione di un mobile nel suo studio:
una capanna di lamiera ondulata
Luoghi “fuori luogo”

Il caso di Dharavi non è isolato: più di un miliardo di persone nel mondo vive nei sobborghi delle metropoli, in quartieri costruiti spontaneamente e illegalmente da chi li abita.
Gli slum possono essere molto diversi tra loro. Si va dal crawl di Dharavi – un monolocale di 15 metri quadrati, abitato in media da sei persone, che evoca molto bene la struttura dell'alveare – alle note favelas brasiliane. In Perù, e in particolare a Lima, le baraccopoli sono chiamate “pueblos jóvenes”, ovvero “città giovani” e le abitazioni più diffuse solo le collejones, case con intelaiatura di legno e copertura di paglia e fango, edificate per lo più su aree di proprietà del maggior immobiliarista della capitale peruviana: la chiesa cattolica.
Molti slum, come quello di Algeri, sono semplicemente il prodotto della degradazione di vecchi quartieri residenziali; altri hanno richiesto un'inventiva maggiore, come al Cairo, dove circa un milione di persone ha convertito in abitazioni le tombe di un vecchio cimitero di mamelucchi.
La parola turca gecekondu significa letteralmente “costruita durante la notte”, e si riferisce alla sola abitazione, ma per estensione indica i quartieri totalmente abusivi. Qui in Turchia, fino agli anni ottanta, alcuni di questi sobborghi nati abusivamente sono stati regolarizzati con atti di proprietà e quindi riassorbiti. Recentemente, alcuni di essi sono stati addirittura riadattati e trasformati in abitazioni per la classe medio-bassa.
Il giornalista Robert Neuwirth, nel suo libro Città ombra (Fusi Orari, 2007), invita a non liquidare sbrigativamente gli slum come luoghi di pigrizia e povertà, ricordando tra l'altro come anche l'Upper east side di New York fosse un tempo una baraccopoli. Secondo lui “gli slum non sono luoghi disperati”, non possono essere definiti come “luoghi dove finiscono i perdenti, ma incubatrici dei vincenti di domani”.
“Vero e proprio spot per l'ambizione umana” è infatti definita dall'Economist Kibera, la più grande baraccopoli africana, a pochi chilometri dal centro di Nairobi. Come per Dharavi, si tratta di una città nella città, un microcosmo vivo e variegato, in cui nessun gruppo etnico predomina sull'altro. Se di notte può risultare pericolosa (per essere sicuri di transitare indenni è possibile “affittare” delle guardie del corpo masai), di giorno è quasi totalmente dedita al lavoro. L'economia informale di Kibera ha sviluppato proprie regole e proprie usanze. Ad esempio il sistema delle lattine da mezzo litro, che nei bar di Kibera sostituiscono i bicchieri: quando il prezzo del mais aumenta, il proprietario del bar taglia una striscia a ogni lattina; i clienti preferiscono questo metodo all'aumento del prezzo, e non riducono il consumo.
Dello stesso avviso di Neuwirth è Mike Davis, autore de Il pianeta degli slum, il quale, parlando del lavoro di Neuwirth, commenta: “Gli uomini e le donne che emergono da questo spaccato di vita sono i veri costruttori del nostro futuro urbano globale”.
Tralasciando il tono da film yuppie americano dei due scrittori (il quartiere degradato che conquista la sua fetta di felicità attraverso la produzione e il consumo) il dato è interessante: sobborghi come Dharavi e Kibera “fanno muovere l'economia” attraverso un sistema informale che prende a modello l'economia ufficiale, con la quale, a tratti, si interseca. Le due economie, formale e sommersa, sono in antitesi e allo stesso tempo dipendenti l'una dall'altra, fino a forme estreme di ingerenza da parte dell'economia ufficiale. Come sostiene Davis, in virtù del loro stesso proliferare gli slum attraggono sempre di più la speculazione, che vede nelle abitazioni di fortuna potenziali ottimi affari in termini di affitto o riqualificazione. In Egitto infatti l'acquisto di suoli edificabili “è diventato il terzo maggior investimento non petrolifero dopo l'industria manifatturiera e il turismo”, e lo stesso accade a Lagos, in Nigeria; a Karachi, in Pakistan, o nei sobborghi di San Paolo, in Brasile.

Abitare altrimenti

Se le eterotopie sono, come sostiene Foucault, “la contestazione di tutti gli altri spazi”, e se questa contestazione si può esercitare in due modi: “o creando l'illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un'illusione” (come nel caso delle case di prostituzione) oppure “creando realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico” (come nel caso delle colonie o di alcune comuni) – gli slum di Mumbai e Nairobi soddisfano entrambe queste condizioni contemporaneamente.
Come le case di prostituzione, questi microcosmi denunciano l'ipocrisia della società in cui sorgono, ponendosi come sfacciato e inequivocabile emblema della disuguaglianza sociale: l'altra faccia del progresso, la baracca che sorge ai piedi del grattacielo. D'altra parte, come le meticolose colonie gesuite citate da Foucault, la loro economia minuziosa e organizzata ci mette di fronte a un'efficienza sorprendente, ottenuta mettendo in campo meno forze, meno regole, meno capitale rispetto all'economia ufficiale. Kibera, con la sua economia priva di pedaggi, in cui non esiste il pizzo, è un piccolo, perfetto esempio di libero mercato.
E tuttavia, come abbiamo visto, le eterotopie non sono esenti dal rischio di sparizione: la scomparsa (relativa) delle case di prostituzione è per Foucault l'esempio perfetto di come ogni società sia in grado di riassorbire un'eterotopia. Il cimitero, invece, luogo altro nella sua accezione più drastica, ci mostra come un contro-spazio possa cambiare ruolo e caratteristiche a seconda dei mutamenti sociali. Se fino al XVII secolo infatti si trovava nel centro della città, accanto alla chiesa, pur senza essere investito di particolare solennità, proprio nel momento in cui la civiltà ha iniziato a secolarizzarsi e a diventare più laica – alla fine del settecento – si è cominciato a “individualizzare gli scheletri”, a costruire per ciascuno la propria lapide e la propria “scatoletta”, nel contempo relegando questi luoghi ai margini della città, come “luoghi di infezione”.
Qualcosa di analogo è accaduto per un particolare tipo di eterotopia, molto discussa nell'attuale società europea: il campo nomadi. Con il progressivo imporsi della stanzialità sul nomadismo, con la crescita – a dir la verità ancora molto lacunosa – delle nostre conoscenze della comunità rom e sinta, e quindi con il riconoscimento e l'individualizzazione di questi popoli da parte della società, si è diffusa anche la pratica della segregazione in riserve, il più possibile lontane dal centro, il più possibile lontane dagli occhi.
Pur inserendosi perfettamente nel campo delle “eterotopie di deviazione”, ovvero spazi – come i manicomi, le carceri o gli ospizi – destinati a individui il cui comportamento è considerato deviante rispetto alla norma, i campi nomadi sembrano sfuggire in qualche modo al controllo della società che li ha prodotti, incarnando un altrimenti troppo radicale.
A differenza degli slum di cui abbiamo parlato, in qualche modo funzionali o comunque riassorbili nonostante la loro alterità; a differenza anche delle periferie europee e statunitensi (i sobborghi londinesi, le banlieues parigine) consapevoli dello propria marginalità e in conflitto più o meno latente con il resto della società, e pertanto in dialogo con essa, i campi nomadi si limitano a essere altrimenti. La loro economia interna non ricalca quella ufficiale, se non nelle aspirazioni al possesso di alcuni beni della società dei consumi. Tolta la produttività e i possibili interessi economici resta dunque solo l'imbarazzo di dover gestire un viver altro che nessuno capisce completamente. Al di là di quale soluzione abitativa sia più auspicabile per i diretti interessati – la questione non è francamente così semplice – resta il fatto che in questi insediamenti si realizza alla perfezione quella che Antonella Moscati, curatrice di Utopie Eterotopie (Cronopio 2006), definisce la “funzione fondamentalmente anarchica delle eterotopie”: spazi altri come luoghi di resistenza, non tanto per coloro che vi stanno dentro ma, forse, per alcuni di coloro che ne stanno fuori. Si tratta di luoghi che, per la loro stessa esistenza, contestano tutti gli altri spazi, incarnando una differenza assoluta. Sono luoghi di resistenza anche quando diventano spazi di reclusione. Perché insinuano un dubbio nei confronti del nostro “incosciente e autarchico benessere”.

Laura Antonella Carli