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				 pedagogia 
                  
                Educare alla libertà 
                  
                relazioni di Liana Borghi, Pierpaolo Casarin e Silvia Bevilacqua 
                    
                Con questo titolo si è tenuto lo scorso maggio alla Spezia un incontro pubblico. 
Sottotitolo: Dopo l'educazione di stato, ci sarà un'educazione pubblica? 
Pubbichiamo tre delle sei relazioni/comunicazioni presentate. 
                
                 
 Prospettive libertarie e strategie queer in una scuola estiva 
                   
                  di Liana Borghi
                
  Parlerò di una scuola 
                  estiva dove si pratica l'“intercultura di genere”1, 
                  ma poiché ho uno spazio di parola limitato darò 
                  per scontato che tutte le persone presenti – femmine, 
                  maschi, o altro che si definiscano – sappiano cos'è 
                  il genere, e che in genere per intercultura si intende l'incrocio 
                  tra forme culturali diverse. Cosa poi si intende per intercultura 
                  di genere diventerà chiaro, spero, durante il mio intervento 
                  dove userò il passato per evidenziare lo scarto tra le 
                  prime edizioni della nostra scuola estiva e quelle più 
                  recenti. Raccontare i cambiamenti avvenuti negli anni occuperebbe 
                  troppo tempo; spesso però userò anche il presente 
                  per rendervi partecipi della continuità riscontrabile 
                  nelle varie edizioni della scuola. 
                  Dall'inizio del 2000 e prima ancora, ho organizzato uno spazio 
                  sperimentale dove praticare intercultura di genere insieme a 
                  un gruppo di studiose di letteratura. Il progetto è nato 
                  dalla frustrazione di non poter insegnare ufficialmente i women's 
                  studies/gli studi delle donne che per altro, e non sono 
                  certo la sola, ho comunque sempre inserito trasversalmente nei 
                  miei corsi di anglo-americanista, incrociando studi di genere, 
                  studi culturali, studi queer, studi sul post-coloniale e la 
                  subalternità, e quant'altro mi sembrasse e ci sembrasse 
                  utile per trasmettere e condividere quella che abbiamo chiamato, 
                  appunto, intercultura di genere. 
                  A dire proprio la verità, il mio primo progetto della 
                  scuola era stato una proposta di studi queer, presentata e fatta 
                  circolare al World Gay Pride di Roma nel 2000, ma senza successo. 
                  La proposta di una settimana estiva dedicata alla letteratura 
                  di genere piacque invece a Clotilde Barbarulli dell'Associazione 
                  Il Giardino dei Ciliegi di Firenze. Fu quindi accettata dalla 
                  Società Italiana delle Letterate della quale ambedue 
                  eravamo e siamo socie, e nacque così nel 2001 il Laboratorio 
                  Raccontar/si, che si rivolgeva a donne native e migranti insieme. 
                  Come tutte le nostre iniziative congiunte, il Laboratorio portava 
                  l'impronta del femminismo storico di Clotilde e del mio altrettanto 
                  storico attivismo lesbo-femminista, ormai più interessato 
                  agli studi queer. Aggiungo che già a quel tempo ero la 
                  referente dell'università di Firenze per la rete tematica 
                  europea di studi di genere, Athena, all'interno della quale 
                  ho continuato a studiare, insegnare e pubblicare insieme a un 
                  piccolo gruppo internazionale – e ne trovate tracce in 
                  internet. 
                  Stare, pensare fare in relazione 
                 Questo aggancio nazionale e internazionale non deve farvi 
                  supporre che il progetto avesse o abbia un finanziamento adeguato. 
                  La scuola è autofinanziata grazie alla generosità 
                  di tutte le persone che hanno partecipato a spese proprie, ai 
                  piccoli doni ricevuti per le borse di studio, a qualche minuscola 
                  sovvenzione, e all'amministrazione economa di Clotilde e mia, 
                  abituate alla scarsità del femminismo diffuso. Chiedere 
                  un contributo per la partecipazione era cruciale all'inizio, 
                  quando cercavamo di far partecipare molte immigrate che andavano 
                  assolutamente sovvenzionate, e purtroppo lo è altrettanto 
                  ora, in tempi di precariato selvaggio. Inoltre, il laboratorio 
                  e poi la scuola hanno sempre cercato di avere un ampio numero 
                  di docenti – anche se ciascuna di loro rimane pochi giorni 
                  – circa 30 docenti su 40 iscritte, perché l'impianto 
                  si basa sullo scambio: insegnare imparando, imparare insegnando: 
                  dalla teoria alla pratica e viceversa, condividendo affetto 
                  e saperi. Quindi è di un impegno collettivo che 
                  vi parlo, e non soltanto per gli anni del Laboratorio e per 
                  i convegni e seminari, ma fino alle edizioni di Duino nel 2011 
                  e 2012, e ora il mese prossimo a Livorno. 
                  Raccontar/si era intesa come una comunità di pratica 
                  dell'intercultura di cui ci facevamo portatrici; un luogo dove 
                  incrociare discipline con testimonianze e letture, prestando 
                  attenzione al modo in cui lo stare, pensare, fare in relazione, 
                  ci cambiava, perché questo succedeva. All'inizio dei 
                  laboratori era previsto uno spazio di orientamento per chiarire 
                  quanto fosse necessario collaborare a creare insieme una condizione 
                  di benessere e di apertura. Per questo ci sembrava importante 
                  rispettare e apprezzare le differenze, riconoscere e accogliere 
                  le somiglianze, dare valore, dare spazio anche nel parlarsi, 
                  fare autocritica, osservare le dinamiche interpersonali, domandarsi, 
                  “da dove parlo, con chi e perché, chi parla per 
                  me e attraverso di me, dove mi colloco” (ecco un prodotto 
                  degli studi subalterni). Senza dirlo esplicitamente, stavamo 
                  chiedendo ogni volta di contribuire a realizzare una piccola 
                  utopia effimera, contingente – costruita nell'immediato 
                  praticando una socialità amorevole, costruttiva, trasformativa, 
                  creando “legami fatti di interrelazione, di reciprocità, 
                  di partecipazione... e vicinanza”. E davvero la scuola 
                  finiva per diventare un soggetto collettivo, una rete per esprimere 
                  desideri e necessità. 
                  Avevamo cominciato con la premessa femminista di essere situate 
                  in corpi di “donne” – un termine tra virgolette, 
                  perché donne non si nasce, ma si può diventare 
                  – però con il passare del tempo il discorso sul 
                  genere ha assunto connotati decisamente postgender e queer, 
                  specie in relazione all'identità e alla sessualità. 
                  A lungo abbiamo usato l'“intersezionalità” 
                  come metodo per leggere contesti “material-semiotici”, 
                  incrociando genere, razza, classe, sessualità, abilità, 
                  lingue, storie, culture – per poi ridefinire il concetto 
                  in termini di “complessità” nell'anno in 
                  cui abbiamo lavorato su frattali e soggetti frattalici per discutere 
                  meglio di differenze nella somiglianza, di interconnessioni 
                  rizomatiche nei processi democratici diffusi (Jamie Heckert). 
                  Dal nostro punto di vista di attiviste e studiose, ci importava 
                  molto interrogare l'incrocio di teoria e pratica, ma tenendo 
                  ben presente sia la disomogenea situazione socio-culturale delle 
                  partecipanti, sia le necessità individuali di parlare 
                  di situazioni concrete, di raccontarsi, chiedere ascolto. E 
                  doveva esserci spazio di solidarietà per le passioni 
                  tristi. Quindi erano e sono previsti incontri e discussioni 
                  per piccoli gruppi che poi confluiscono nelle sessioni allargate. 
                  Allo stesso tempo era necessario creare l'atmosfera per pensare 
                  insieme anche teoricamente e politicamente. Si cercava di farlo 
                  contaminando lettura e letteratura, storia, tecnoscienza, geografia, 
                  arte – prestando bene attenzione ai processi di trasmissione 
                  e apprendimento – un presupposto derivato non tanto dalla 
                  pedagogia critica, quanto dai decenni di buone pratiche femministe. 
                  E si prometteva di dare importanza al corpo, chiedendo a tutte 
                  di esserne coscienti nel comunicare. Il laboratorio ne avrebbe 
                  evidenziato la costruzione normativa e storica, perché 
                  – nelle nostre esercitazioni su trasversalità, 
                  glocalizzazione, globalizzazione, immigrazione, muri, guerre 
                  e non-violenza, oppressione ed emarginazione, il lavoro frantumato 
                  e la precarietà, l'assistenza sanitaria che scompare, 
                  la scienza che avanza, i beni comuni e il debito pubblico – 
                  le biopolitiche dei corpi ci sono sempre, ma è poi compito 
                  individuale riflettere sui processi di identificazione, la creazione 
                  delle identità, i percorsi di autodeterminazione, autonomia 
                  e libertà. 
                  Ogni laboratorio, ogni nostro incontro e ogni edizione della 
                  scuola era/è ovviamente impostato su un tema specifico: 
                  individualità, agentività ed empowerment, complessità, 
                  diversità, figur/azioni, il post-coloniale, teorie dell'affetto, 
                  archivi dei sentimenti, studi sulle cose e gli oggetti, e finalmente 
                  quest'anno, l'utopia della politica e la politica dell'utopia. 
                  Dissenso e resistenza 
                 Prevedibilmente abbiamo sempre lavorato sull'analisi e decostruzione 
                  di dicotomie – specie con Donna Haraway e la sua definizione 
                  di natur-cultura, il suo manifesto cyborg, gli umani e non umani 
                  delle sue specie-compagne – e con Teresa De Lauretis e 
                  Judith Butler per la ricerca dell'altro che è in noi. 
                  Ma a ripensarci, mi sembra ci sia stato un mutamento di paradigma 
                  quando abbiamo cominciato a occuparci delle teorie dell'affetto, 
                  avevamo incontrato nella pedagogia queer di Eve Sedgwick, in 
                  particolare nel suo libro sul toccare e sentire. In seguito 
                  abbiamo lavorato sull'affetto come impulso vitale, come processo 
                  produttivo dei corpi; come sentimento, affettività, passione; 
                  come attrattore; come effetto che si/ci crea, che investe e 
                  condiziona; che rende desiderabili oggetti e merci; che produce 
                  soggetti e relazioni, investimento nelle forme di potere, movimenti 
                  positivi o negativi verso l'altro/a: allineamenti, identificazioni, 
                  appropriazioni. 
                  Abbiamo quindi continuato a lavorare, seguendo Ann Cvetkovich, 
                  sull'archiviazione dei sentimenti nelle culture pubbliche, cercando 
                  tracce di alternative nelle storie di solitudine e abbandono; 
                  cercando archivi di risposte culturali e politiche di dissenso 
                  e resistenza, come per esempio le scritture sul trauma causato 
                  da discriminazioni e violenze omofobiche, xenofobe, razziste; 
                  nelle narrazioni di migranti, e nei documenti delle diaspore 
                  dei neri o degli ebrei. 
                  Questo tema confinava con le nostre proiezioni affettive sugli 
                  oggetti e su come gli oggetti costruiscono i soggetti, e poco 
                  per volta ci ha condotto prima verso le teorie della non-rappresentazione 
                  di Nigel Thrift, poi attraverso Bruno Latour – e tramite 
                  Sara Ahmed, Elizabeth Grosz, Karen Barad, Rosi Braidotti e altre 
                  – ci sta riportando sul sentiero del postumano e del “più 
                  che umano”, verso le agentività aggrovigliate di 
                  umano e materia degli studi neo-materialisti; verso un esame 
                  degli elementi della temporalità nel cambiamento; verso 
                  la queerness del quanto che ci mostra la dis/continuità 
                  e il dis/farsi dell'identità nella sua im/possibile trans/formazione; 
                  verso il rifiuto dell'antropocentrismo e il riconoscimento di 
                  quella che Grosz ha definito “l'interdipendenza reciproca 
                  di forze materiali, bioculturali e simboliche nel produrre pratiche 
                  socio-politiche” (Grosz). 
                  La nostra scuola estiva si occupa di cultura delle donne ma 
                  non è mai stata riservata solo alla donne. Qualche giovane 
                  uomo ha partecipato, e molti di più hanno partecipato 
                  agli eventi collaterali etichettati come studi queer. Tra questi, 
                  Samuele Grassi ha in stampa un saggio sull'anarchismo queer, 
                  e seguendo il suo lavoro mi sono resa conto di quanto il nostro 
                  Laboratorio dovesse al pensiero libertario di cui anch'io mi 
                  ero occupata, senza però aver valutato quanto gli studi 
                  lesbofemministi e queer ne fossero partecipi. 
                  In una intervista in rete, la filosofa americana Judith Butler, 
                  intervistata dallo studioso post-anarchico Jamie Heckert, dice 
                  che l'anarchismo non è una identità, ma un posizionamento, 
                  e un movimento discontinuo: una dichiarazione del tutto consona 
                  con i principi del queer di cui Butler stessa è stata 
                  una maggiore teorica. Mi conforta questo suggerimento di latenza, 
                  mi aiuta a pensare ai nostri incontri dove si fa contro-in-formazione, 
                  dove anche il corpo diventa strumento di resistenza, e dove 
                  si parla di quello che c'è, e di quello che non c'è. 
                  La critica queer alle istituzioni 
                 In questa ultima sezione voglio mostrarvi brevemente dove 
                  il nostro queer incontri il pensiero libertario, in particolare 
                  il post-anarchismo, ma lo faccio parlando del queer e lasciando 
                  a voi possibili connessioni. 
                  Queer, che come sapete in inglese vuol dire strano, fuori luogo, 
                  perturbante, è un aggettivo che negli anni '80 è 
                  diventato il termine per designare una corrente dissenziente 
                  rispetto al movimento gay e lesbico – e questo prima in 
                  ambito anglofono e poi dappertutto. Nelle versioni correnti 
                  della sua affermazione negli Stati Uniti, viene di solito cancellato 
                  un particolare fondamentale, e cioè che sono state donne 
                  chicane e afroamericane ad articolare per prime con questo termine 
                  il dissenso rispetto a un movimento “bianco” che 
                  le ignorava e discriminava. 
                  Nonostante il movimento queer (nella veste allora dell'associazione 
                  internazionale Act Up), abbia lottato duramente contro la discriminante 
                  e criminale incuria statale durante l'epidemia di Aids, e nonostante 
                  abbia impegnato ogni risorsa disponibile per dare assistenza 
                  ai malati, gli studi queer sono stati ripetutamente accusati 
                  di fare teoria senza curarsi delle possibili applicazioni politiche, 
                  mentre il movimento glt (gay, lesbico, trans), fortemente identitario, 
                  combatte invece forme di esclusione omofobiche, e chiede riconoscimento 
                  socio-culturale e diritti politici, matrimonio incluso. 
                  Ma sta proprio in questo una fondamentale differenza del queer 
                  che è un movimento di opinione rivolto anche a chi si 
                  definisce eterosessuale: un movimento impegnato a riorganizzare 
                  le soggettività contro e fuori dal processo storico della 
                  costruzione delle identità eteronormative che ci governa, 
                  riducendo desideri e rapporti complessi all'appartenenza a solo 
                  due generi, a categorie identitarie che controllano, limitano 
                  e costringono la vita; e dissente quindi da forme di garantismo 
                  statale. L'eteronormatività di stato è un dispositivo 
                  corredato di apparato ideologico; assegna e impone parametri 
                  di genere e sessualità che coprono rapporti sessuali, 
                  coabitazione, procreazione, matrimonio, monogamia, distribuzione 
                  dei beni e una quantità di altre cose correlate, tra 
                  cui l'assegnazione del genere alla nascita e il controllo dell'educazione 
                  pubblica e privata. 
                  Dunque la critica queer alle istituzioni e alla rappresentanza 
                  politica è estesa e pervasiva, e include azioni anti-identitarie 
                  poiché ha lo scopo di cambiare la visione che abbiamo 
                  del mondo e di portare a ripensare creativamente la vita – 
                  cominciando da noi stessi – senza ricadere in un progressivismo 
                  positivo. Un secolo fa Emma Goldman diceva che la vera emancipazione 
                  inizia nell'animo. Judith Butler mi sembra dica che possiamo 
                  cominciare assumendo una posizione libertaria. Il queer è 
                  un posizionamento antagonista su molti piani intrecciati di 
                  dissenso e resistenza, perché il gesto, l'operazione 
                  del queering (che qui è un verbo) è di decostruire 
                  i rapporti di dominio (“la servitù volontaria” 
                  di Gustav Landauer) in modo che possiamo dis-impararli. Se vedete 
                  scritto che un evento è queer, vi consiglio però 
                  di indagare, perché nel libero mercato anche questo termine 
                  si può comprare. 
                  Da anni il queer di cui ho parlato non è più soltanto 
                  un campo di studi, ci sono reti, associazioni, gruppi, collegamenti 
                  che praticano autonomia, solidarietà, mutualismo. L'etica 
                  è anti-assimilazionista, ma si coltivano affinità 
                  e intersezioni con altre realtà ecologiste, anticapitaliste, 
                  anticoloniali, libertarie, pacifiste. Nel post-anarchismo queer 
                  di Judith Halberstam dedicato alla maschilità femminile, 
                  la resistenza al neoliberismo messa in pratica attraverso la 
                  discontinuità e il fallimento è diventata un modello 
                  generativo e un'arte, mentre la contro-politica anti-capitalista 
                  di “oggetti stupidi” come i personaggi anarchici 
                  dei cartoni animati, Shreck, Babe, Nemo, ci indirizza verso 
                  immagini alternative positive.
                  Liana Borghi
                  Una società, uno spazio propriamente 
                  umano o piuttosto umanizzato; una creazione che è parte 
                  della creazione propriamente umana, che prima ancora che in 
                  opere d'arte e di pensiero, consiste in una società dove 
                  tali opere possono nascere e vivere. Uno spazio dunque, diremmo, 
                  poetico,  
                  Maria Zambrano, 
                  “Per l'amore e per la libertà” 
                  (a proposito dell'aula scolastica)
  1 Notizie relative alla scuola in questione 
                  si possono trovare sul sito interculturadigenere.eu. 
                 
                 
                     
                 Riflessioni e pratiche 
                  di un'infanzia della filosofia 
                   
                  di Pierpaolo Casarin  
				   
                Una filosofia senza fissa dimora, non solo proposta riflessiva 
                da rivolgere ai ragazzi, ai bambini, ma soprattutto una possibilità 
                per inaugurare un nuovo rapporto con il pensare. 
                  Alle radici della philosophy for children. 
                In questo contributo l'intenzione 
                  è quella di approfondire alcuni aspetti teorici e pratici 
                  legati alle esperienze di filosofia nelle scuole dove, in realtà, 
                  la filosofia non viene insegnata come materia. Una filosofia 
                  senza fissa dimora, non solo proposta riflessiva da rivolgere 
                  ai ragazzi, ai bambini, ma soprattutto una possibilità 
                  per inaugurare un nuovo rapporto con il pensare. 
                  Orientare nel senso di fornire alcune indicazioni intorno a 
                  progetti e percorsi di formazione che si occupano di sviluppare 
                  e promuovere, in modo anche significativamente diverso, l'incontro 
                  fra filosofia e bambini/e. Dis-orientare nel senso di dare forma 
                  a un desiderio ovvero muovere nella direzione della disattesa 
                  di derive legate alla cristallizzazione di alcuni poteri attorno 
                  ad alcuni saperi, o potremmo dire meglio attorno ad alcuni supposti 
                  saperi. 
                  La prima riflessione inizia proprio prendendo in considerazione 
                  i differenti nomi, ma potremmo dire persino i diversi marchi, 
                  impiegati per identificare le differenti esperienze che avvicinano 
                  infanzia a filosofia nel territorio italiano. Un gioco dei nomi 
                  che, come anticipato sopra, sembra metterci in contatto con 
                  un gioco di poteri. Una fioritura di etichette e sigle, davvero 
                  sorprendente, a fronte di un'esperienza che ancora non trova 
                  del tutto totale legittimazione ufficiale nel panorama istituzionale. 
                  Quest'ultima annotazione ovvero la mancanza di legittimazione 
                  istituzionale, dal nostro punto di vista, lungi dall'essere 
                  un problema, se mai con i tempi che corrono, è qualcosa 
                  di promettente. Ciò che interroga e sorprende al tempo 
                  stesso rimane l'ampio utilizzo di sigle, di nomi appunto, per 
                  raccontare un'esperienza con evidenti tratti comuni. 
                  Qualcuno potrebbe obiettare che esistono molte differenze nella 
                  realizzazione di queste pratiche, nelle modalità di sviluppo 
                  e che tali differenze debbano trovare, in qualche modo, una 
                  traccia, un segno. Può essere, ma non pare una ragione 
                  del tutto sufficiente. Se poi indagassimo ancor più a 
                  fondo la questione scopriremmo che anche all'interno della stessa 
                  sigla o marchio esistono delle differenti modalità di 
                  formazione e conseguenti differenti sistemi di riconoscimento 
                  e/o titolazione per chi vi partecipa. Paradossale vedere come 
                  non sempre le differenti agenzie formative riconoscono sino 
                  in fondo la scientificità del lavoro dei colleghi formatori. 
                  Uno scenario involontariamente comico, talvolta irritante. 
                  In ogni modo ecco il paesaggio che ci troviamo di fronte ad 
                  una prima e semplice ricognizione delle esperienze attive nel 
                  territorio italiano: Philosophy for children, Amica Sofia, Bambini 
                  in filosofia, Filosofia bambina, Comunità di ricerca 
                  al quadrato, Kinderphilosophie (in alcune realtà del 
                  Friuli Venezia Giulia). In questo intervento avvicinerò 
                  soprattutto la p4c, acronimo che rimanda alla philosophy for 
                  children, esperienza che conosco da tempo e che pratico, pur 
                  con significativi spostamenti d'accento sul metodo previsto, 
                  in diversi contesti scolastici. Una pratica che intendo esplorare 
                  criticamente, mettendone in evidenza le tante luci e mostrando 
                  anche, se possibile, le affascinanti e stimolanti ombre. Scrivo 
                  stimolanti perché sono proprio le ombre, i risvolti critici 
                  di alcune esperienze, gli elementi capaci di rimetterci in gioco 
                  in modo ancor più radicale e avvincente, i punti di partenza 
                  per riformulazioni feconde. 
                  Un continuo interrogare e interrogarsi 
                 La philosophy for children, nasce negli Stati Uniti verso 
                  la fine degli anni Sessanta a partire dall'impegno del logico 
                  Metthew Lipman, insegnante di logica alla Columbia University. 
                  Egli si era reso conto delle notevoli difficoltà di apprendimento 
                  della sua materia, dovute, a suo avviso, alla scarsa presenza 
                  fra i suoi studenti di capacità critiche e argomentative. 
                  Per Lipman la causa di questo problema risiedeva alla scarsa 
                  sensibilità del sistema scolastico americano che non 
                  permetteva un adeguato approfondimento delle abilità 
                  logiche. Lipman articolò, al fine di superare questo 
                  problema, un progetto in grado di offrire alla scuola primaria 
                  e secondaria un curricolo filosofico per insegnare ai giovani 
                  a pensare. Progetto affascinante e ambizioso al tempo stesso; 
                  così scrive: “Migliorare il pensiero implica che 
                  si coltivino le sue dimensioni critica, creativa e caring, come 
                  pure il suo aspetto riflessivo ... La mia raccomandazione è 
                  in primo luogo, quella d'inserire nei curricoli della scuola 
                  primaria e secondaria l'insegnamento della filosofia ... e chiaramente, 
                  quando dico che bisogna introdurre la filosofia nella scuola 
                  elementare, non intendo quella filosofia arida e accademica 
                  tradizionalmente insegnata nelle università”1. 
                  Emerge, in questa prospettiva, un'idea di filosofia dinamica, 
                  un continuo interrogare e interrogarsi finalizzato al riconoscimento 
                  di valori etici del vissuto individuale e collettivo, una via 
                  per realizzare al meglio la convivenza democratica. Auspicio 
                  di Lipman è quello di operare alcune trasformazioni: 
                  la classe in comunità di ricerca, l'insegnante in facilitatore. 
                  Al cuore del processo il dialogo, capace di promuovere nelle 
                  bambine e nei bambini le capacità logico-argomentative 
                  del pensiero, in grado di favorire quei processi d'individuazione 
                  dei problemi e dei significati dei concetti. In questa dimensione 
                  la complessità e la perplessità diviene risorsa, 
                  non si cerca una definizione a tutti i costi, ma piuttosto si 
                  favorisce la capacità di sostare nel dubbio senza disagio. 
                  L'intenzione è quella di operare una de-banalizzazione 
                  degli abituali processi riflessivi, puntando sulla presa di 
                  distanza dall'adesione acritica a tutto ciò che solitamente 
                  viene ritenuto scontato. Poiché il pensare è da 
                  svolgersi in prima persona, Lipman non indica ai bambini un 
                  percorso di storia della filosofia già definito, ma invita 
                  ad un apprendimento basato sull'esperienza. Un filosofia da 
                  vivere insieme, un tempo di condivisione, come direbbe Giulio 
                  Cuccolini2, gioioso e formativo. 
                  La p4c articola la sua modalità di lavoro a partire da 
                  alcuni testi, scritti da Lipman, ma non solo. Si tratta di dialoghi 
                  molto semplici pensati per le differenti fasce di età, 
                  accompagnati da corposi manuali in grado di accompagnare il 
                  compito dei facilitatori e delle facilitatrici. Proprio intorno 
                  all'uso di questi testi divampano alcune polemiche. Per i “sostenitori” 
                  della philosophy for children si tratta di un materiale insostituibile, 
                  per i “detrattori” un materiale talvolta rigido 
                  e comunque affiancabile anche ad altri testi stimolo. 
                  Lipman nel 1974 fondò l'Iapc (Institute for the 
                  Advancement of Philosophy for Children) e si trasferì 
                  alla Montclair State University nel New Jersey. Successivamente 
                  la p4c riscosse sempre maggiore interesse anche al di fuori 
                  degli Stati Uniti. Nel 1985 venne istituito l'Icpic (International 
                  Council for Philosophy Inquiry with Children) con la finalità 
                  di promuovere il progetto della p4c a livello planetario. In 
                  Europa la phiosophy for children ha trovato diffusione fina 
                  dalla fine degli anni Settanta, in particolare in Spagna. Esiste 
                  una federazione europea dei centri di p4c che prende il nome 
                  di Sophia. L'approdo della proposta di Lipman in Italia 
                  avvenne nei primi anni Novanta grazie al lavoro di ricerca del 
                  Crif (Centro di Ricerca sull'Indagine Filosofica) fondato 
                  da Antonio Cosentino e del Cirep (Centro Interdisciplinare di 
                  Ricerca Educativa sul Pensiero) inaugurato da Marina Santi. 
                  La formazione dei facilitatori in p4c viene ancora oggi promossa 
                  da queste due realtà, ma anche da tre atenei (Firenze, 
                  Padova e Napoli) che organizzano corsi di perfezionamento nei 
                  dipartimenti di Scienze dell'Educazione e della Formazione. 
                  È il caso di segnalare come all'interno di queste offerte 
                  formative prevalga un'interpretazione “ortodossa” 
                  della proposta Lipman; al tempo stesso va ricordato come alcune 
                  esperienze realizzate nei diversi contesti del territorio italiano 
                  prevedano opportunità significative di cambiamento e 
                  rivisitazione della proposta originaria. 
                  Permettere il disorientamento 
                 Quello che ci sembra importante esplorare, come già 
                  accennato in precedenza, è quanto questa idea possa offrire 
                  un punto di partenza fertile per poter inaugurare nuovi sguardi 
                  sul rapporto fra filosofia e infanzia. Per certi versi la philosophy 
                  for children può rappresentare un'attività preparatoria, 
                  una modalità per allenarci ad avere un nuovo rapporto 
                  con il testo filosofico. Auspichiamo non solo una filosofia 
                  per l'infanzia, una philosophy for, ma anche e soprattutto una 
                  nostra messa in gioco radicale nella questione, un nuovo rapporto 
                  con la filosofia, un'infanzia della filosofia. Un'esperienza 
                  in grado non solo di farci conoscere un metodo, un dispositivo, 
                  ma soprattutto di permettere un disorientamento, un piacere 
                  della filosofia che trova senso nel suo stesso realizzarsi. 
                  Sembra emergere la possibilità di una filosofia autonoma, 
                  nel senso che non rende conto di sé ad alcun predecessore, 
                  forse non ne ha nemmeno, né alla comunità scientifica, 
                  poiché è ad essa esterna. Le migliori condizioni 
                  per dar vita ad un insieme di pratiche filosoficamente autonome. 
                  In questa prospettiva ci sembrano particolarmente importanti 
                  gli inviti di Giuseppe Ferraro e Walter Kohan. Inviti che mettono 
                  fortemente in discussione non solo la tanto sedicente scientificità 
                  di alcune procedure, ma anche soprattutto noi stessi. Si tratta 
                  di mostrarsi disponibili ad una navigazione libera, ad un viaggio 
                  del pensiero senza l'ausilio, ma soprattutto senza l'incubo, 
                  del navigatore satellitare o filosofico che dir si voglia. 
                  Giuseppe Ferraro nel suo scritto “Filosofia fuori le mura” 
                  distingue fra un fare filosofia capace di creare spaesamenti, 
                  generare aperture ponendosi in una posizione controcorrente, 
                  e una visione della filosofia protetta, al riparo“ in 
                  un luogo separato dal mondo, ma ben rispondente a logiche ordinarie 
                  di potere istituzionale, in uno stato di privilegio formale, 
                  che si legittima su se stesso”.3 
                  Ferraro auspica una filosofia capace di essere se stessa sino 
                  in fondo ovvero capace di risultare “fuori luogo”, 
                  in grado di scomporre l'ordine disciplinare di ogni luogo, con 
                  l'intento di cogliere ciò che manca in ciò che 
                  c'è e che è reso invisibile dalla visibilità 
                  imposta. Un invito filosofico davvero prezioso quello indicato 
                  da Ferraro che implica non solo la trasformazione dell'esterno, 
                  ma persino e soprattutto l'alterazione della stessa filosofia. 
                  Non a caso Ferraro fa riferimento alla celebre Undicesima tesi 
                  Su Feuerbach di Marx traducendola, però, in un modo diverso.4 
                  Siamo soliti intenderla così: “I filosofi hanno 
                  solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta di trasformarlo”. 
                  Ebbene, Giuseppe ci propone la seguente traduzione: “I 
                  filosofi hanno, fin qui, solo diversamente interpretato il mondo 
                  adesso bisogna cambiare la filosofia”. 
                  Walter Kohan, pur avendo avvicinato a fondo e apprezzato la 
                  philosophy for children, ha preso le distanze dal curricolo 
                  Lipman. Il progetto di una filosofia come apprendimento tecnico 
                  delle abilità del pensiero avrebbe, ad avviso di Kohan, 
                  escluso la ricchezza di un'esperienza libera da rigidità 
                  metodologiche. Per Kohan più che sulla dimensione logica, 
                  sarebbe importante insistere sulla dimensione politica che può 
                  acquisire la filosofia nei differenti contesti dove trova spazi 
                  di realizzazione. 
                  Foucault e il potere 
                 La dimensione politica non implica che filosofia e politica 
                  procedano unite, né che “pratica filosofica sia 
                  uno strumento di indottrinamento ideologico, significa che la 
                  filosofia ha una relazione con la trasformazione sociale, nella 
                  misura in cui essa contribuisce a mettere in discussione, chiarire 
                  e comprendere le ingiustizie della società neoliberista 
                  attuale, così come a pensare le condizioni del suo superamento”.5 
                  In questa prospettiva la concezione di educazione di Lipman 
                  non sembra tenere in considerazione la funzione sociale che 
                  le scuole ricoprono nelle attuali società liberiste. 
                  In questo senso l'invito di Kohan va nella direzione di una 
                  maggior contaminazione con altri punti di vista filosofici provenienti 
                  da altre tradizioni come il marxismo, il post-strutturalismo 
                  e la teoria critica. La filosofia, scrivono Kohan e Vera Waksman, 
                  “domanda, la politica istituzionale afferma, le domande 
                  della filosofia sono anche un modo di esercitare politicamente 
                  una forma di potere incompatibile con l'assunzione del potere 
                  politico”6. Una filosofia 
                  capace di mettere in discussione le forme del potere escludenti, 
                  le forme del dominio, una filosofia che tenta di disattendere 
                  il potere. 
                  Volendo radicalizzare ancor più la questione si tratterebbe 
                  di interrogare sino in fondo il potere, non limitandosi certo 
                  a combattere le forme di potere che ci opprimono dall'esterno. 
                  Michel Foucault ci insegna che ogni relazione è relazione 
                  di potere, si tratta di verificarne la motilità, la reciprocità, 
                  la reversibilità. Si tratta soprattutto di voler fare 
                  i conti con il nostro di potere, di riconoscerlo, smascherarlo. 
                  Il potere del facilitatore e della facilitatrice nelle esperienze 
                  di filosofia con le bambine e i bambini, il potere dell'operatore 
                  sociale, talvolta il potere del sedicente antagonista che, tristemente 
                  e più o meno affannosamente, riposa nella convinzione 
                  di essere sempre dalla parte della ragione e mai del torto. 
                  Ebbene, che fare? Qualche strada c'è. Immaginiamo alcuni 
                  esercizi di allentamento della nostra pregiudiziale veritativa, 
                  qualche movimento di accoglienza delle differenze che la nostra 
                  epoca ci permette senza anticiparne la conoscenza con sofisticate 
                  operazioni di previsione e pre-interpretazione. Si tratta di 
                  seguire l'invito di Alain, il maestro di Simone Weil, che diceva 
                  esistere qualcosa di più bello a vedersi di chi non ama 
                  obbedire: colui che non ama comandare. Per quel che riguarda 
                  le pratiche filosofiche impegnarsi per moltiplicare le esperienze 
                  anche in quei luoghi marginali, da molti ritenuti fuori luogo 
                  per la filosofia (fra questi non solo carcere, comunità 
                  per il reinserimento, strada, ma anche semplicemente scuola), 
                  ma noi potremmo aggiungere considerati fuori luogo da una filosofia 
                  fuori da se stessa ovvero fuori dal suo essere sempre e comunque 
                  fuori luogo. Si tratta di tessere reti, costruire ponti, promuovere 
                  il più possibile confluenze di sguardi e pensieri. 
                 Pierpaolo Casarin 
				
                
                  - M. Lipman, Educare al pensiero, Vita e pensiero, Milano 
                  2005, p. 37.
                  
 - Interessante la sezione dedicata a filosofia e bambini promossa 
                  dalla rivista Liber. Nel primo fascicolo del 2013 (Gennaio-Marzo) 
                  si trovano due importanti approfondimenti di Giulio Cuccolini 
                  che illustra in modo preciso ed esaustivo il panorama esistente 
                  in Italia.
                  
 - Giseppe Ferraro, Filosofia fuori le mura, Filema, 
                    Napoli, p. 23. 
                  
 - Giuseppe Ferraro nel suo intervento al convegno genovese 
                    Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 
                    articola questo concetto e mette in evidenza questa sua possibile 
                    traduzione dell'Undicesima tesi su Feuerbach. L'intervento 
                    di Ferraro prende il titolo di Ai confini della città 
                    e si trova nel volume curato da Silvia Bevilacqua e Pierpaolo 
                    Casarin Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in 
                    movimento, Mimesis, Milano-Udine 2013. 
                  
 - Vera Waksman, Walter Kohan, Fare filosofia con i bambini, 
                  Liguori Editore, Napoli 2013, p. 30.
                  
 - Ibidem.
                  
  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   La locandina dell'incontro  pubblico “Educare 
                  alla libertà”  | 
                   
                 
                 
                     
                 Per (con) la scuola, per (con) la libertà 
                   
                  di Silvia Bevilacqua  
				  Sguardi di una filosofia a_venire 
                Un rischio non solo linguistico, 
                  ma anche filosofico, e forse per questo di pensiero, anteporre 
                  alle parole scuola e libertà la preposizione –per 
                  poiché ci impegna a stabilire una relazione non solo 
                  significante ma attiva, agente con la vitalità di quei 
                  sostantivi. 
                  Maria Zambrano, in uno dei suoi testi sulla filosofia e l'educazione,1 
                  indica una strada possibile per avvicinarci allo spazio della 
                  scuola non tanto come un luogo di produzione di soggetti o di 
                  trasmissione di saperi_verità, ma come spazio poetico 
                  ovvero tempo e luogo di vita e nascita. Può essere un 
                  modo pericoloso pensare scuola e libertà arrogandosi 
                  diritti, competenze e metodi “per far crescere .” 
                  Credo che interrogarsi su queste questioni sia una possibilità 
                  importante. Farsi dunque meravigliare ancora da queste due parole 
                  scuola e libertà, introducendo una variazione necessaria 
                  al titolo immaginato che prova per questo ad affiancare a quel 
                  per un (con) che potrebbe indicare uno stile che include e non 
                  esclude e non è esclusivo. È di recente pubblicazione 
                  un testo interessante di M. Foucault dal titolo Il bel rischio, 
                  una conversazione che Foucault intrattiene con Claude Bonnefoy, 
                  datata 1968, un anno simbolo di trasformazioni, in cui Michel 
                  si abbandona ad un esercizio della parola molto diverso dal 
                  solito facendone emergere una tensione libera che riflette sul 
                  suo scrivere nella vita non solo come “esercizio archeologico”. 
                  Foucault, in questa lunga esplorazione, ritorna a evidenziare 
                  l'importanza di un legame con il linguaggio, con la parola, 
                  che nel suo scriversi, talvolta, fa comprendere “che aveva 
                  le sue leggi proprie, che aveva, che aveva corridoi, scorciatoie, 
                  linee pendenze, coste, asperità, insomma una fisionomia 
                  e formava un paesaggio in cui si poteva passeggiare e scoprire 
                  improvvisamente nelle volute delle parole, intorno alle frasi, 
                  punti di vista che prima non apparivano”.2 
                  Il volto della scuola e della libertà 
                 Abbiamo imparato sin dall'infanzia alcune parole e con il 
                  loro intreccio vitale di significati abbiamo costruito un loro 
                  sapere_verità; ora si tratta di provare a pensarle come 
                  mappe che potrebbero “ri-catrografare” il territorio 
                  che stiamo esplorando. Ciò che è accaduto dunque, 
                  dopo aver diligentemente scritto il titolo di questa riflessione, 
                  è stato quello di avvistare un'intersezione di strade 
                  possibili e differenti che prima sembravano già dette 
                  e sapute, ed è emerso un disagio nel vedere una certa 
                  dose di presunzione in ciò che rischiamo sempre di manifestare 
                  ogni volta che parliamo di educazione, crescita, e non da meno 
                  di libertà. Il rischio è quello di sapere già 
                  e di dovere solo trasmettere per (ad) altri. 
                  Si è tentato dunque di partire da questo, da un esercizio 
                  di pensiero che interroghi quella preposizione_relazione –per. 
                  Ed è qui importante disporsi ad esplorare con attenzione 
                  il volto della scuola e della libertà, disattendendo 
                  in questo sguardo la costruzione edificante di teorizzazioni 
                  o metodi già visti, pre_visibili, a favore di una soglia. 
                  In questo senso anche lo scrivere, come diceva Foucault, non 
                  potrà essere una sistemazione di un pensiero verso un 
                  sapere, quanto piuttosto un'occasione in cui ancora non si sa 
                  chiaramente e luminosamente ciò che si andrà a 
                  dire, ma si tenterà di pensare. Libertà e scuola 
                  sono fra le parole più dominate. Una dall'abuso, l'altra 
                  dall'istituzione; per questo ne va ritrovato un ritmo, una tensione 
                  generatrice che, come invita a fare Maria Zambrano, sia generosa 
                  e feconda e non dottrinale e che possa, così, avere una 
                  relazione con parole mediatrice fra mondi. Intendo dire, d'accordo 
                  con Benjamin, che la riforma della scuola va al di là 
                  della tesi degli specialisti. Essa è un modo di pensare, 
                  un modo di posizionarsi a proposito dell'altro che nasce, uno 
                  spazio e un tempo in cui contenuti, saperi, nozioni non siano 
                  oggetti da sistemare, memorizzare in linea con ciò che 
                  l'insegnante ha in mente ma siano i mille piani, i territori 
                  che abbiamo la possibilità di cartografare abbandonando, 
                  con un piccolo sforzo, una concezione idealistica, utilitarista 
                  e comportamentista della scuola. 
                  Un professore, dice Deleuze nell'Abecedario, è quello 
                  che ti fa incontrare un testo e prova a fartelo amare. Un pensiero 
                  forse semplice ma con il quale potremmo trovare sintonia. Si 
                  tratta, forse, di andare a fondo su quanto diceva Simone Weil 
                  a proposito dei meccanismi sociali “si tratta in definitiva 
                  di conoscere ciò che lega l'oppressione in particolare 
                  al regime della produzione; in altre parole di arrivare a cogliere 
                  il meccanismo dell'oppressione, a comprendere in virtù 
                  di cosa essa sorge, sussiste, si trasforma, in virtù 
                  di che cosa potrebbe forse teoricamente sparire.”3 
                  Per questo forse non potremmo dire cosa sia la libertà 
                  che, entra spontaneamente in scena. Potremmo disporci a vederla 
                  come la parola detonante rispetto a dinamiche di competizione 
                  che abbondano di vincitori e vinti, portando attenzione e ascolto; 
                  impegnando energia a individuare i meccanismi che in generale 
                  opprimono nelle relazioni, cercando di conoscerli riconoscerli 
                  e provare così a disattenderli. Con la scuola 
                  e con la libertà, in questo senso, si sta sulla 
                  soglia del pensare di una filosofia che a_venire si domanda 
                  ancora sulle verità che illumina con luce tremolante. 
                  Lo stesso Foucault poco tempo dopo Simone Weil, dirà 
                  qualcosa circa le microfisiche dei poteri che pervadono i rapporti, 
                  con particolare attenzione al dispositivo scolastico e ai suoi 
                  metodi di produzione di soggetti. Sono pensieri forse scomodi 
                  che impegnano, ci convocano, con fatica, ad un esercizio su 
                  ciò che siamo, pensiamo, diventiamo e agiamo. Si tratta, 
                  forse, di allentare l'istanza didattico-metodologica, iniziando 
                  a riflettere su come ci si possa posizionare nella relazione 
                  con l'altro, come si giochino le parti nei rapporti, accogliendo 
                  quella figura zambraniana che dice di essere “tra il vedere 
                  e l'ascoltare”. Dovremmo procedere per figure che si combinano 
                  con l'attenzione presente, con gli occhi aperti. 
                  Significa che la strada possibile non inciampa nella metodicità, 
                  nella sua applicazione. Il metodo, ha un fine, una volontà 
                  di risultato che tenta di sottrarre complessità e imprevisto 
                  all'evento. Il metodo mira a governare non solo la vita, ma 
                  le vite. Certo è ingenuo pensare che non esistano paradigmi, 
                  metodi. Non è questa la questione, non si chiede un azzeramento 
                  del concetto di paradigma o di metodo quanto piuttosto un cambio 
                  di sguardo rispetto a questi, uno sguardo che la filosofia, 
                  in alcune sue forme, ha proposto. Lo sguardo che sembra dell'infanzia. 
                  Di una nuova relazione con la verità, con le verità, 
                  con la vita che ha da nascere. 
                  Nell'Abecedario4 Gilles Deleuze 
                  innanzi al concetto infanzia fa un'operazione particolare: 
                  ci ricorda, innanzitutto, che la memoria si mostra essere la 
                  facoltà che più che trattenere il passato lo respinge. 
                  Già questo disorienta. Non si tratta di intrattenere 
                  un rapporto biografico con l'infanzia, ma di divenire bambino 
                  che non ha nulla a che fare con una questione personale, non 
                  significa parlare della propria infanzia farne archivio, 
                  il passato è vuoto, vuoto di verità che invita 
                  non a parlare. Si tratta di balbettare. Lo dice a proposito 
                  dello scrittore: “la vita che non è una questione 
                  privata... forzare il linguaggio al punto in cui si balbetta, 
                  spingerlo sino al limite... si ha un divenire bambino ma non 
                  è la propria infanzia. Non è più l'infanzia 
                  di nessuno. È l'infanzia del mondo, l'infanzia di un 
                  mondo”. Compito dello scrittore, e forse potremmo dire 
                  di chi vive la scuola, è divenire infanzia, rintracciare 
                  figure che reinventano come capacità e possibilità 
                  di trovare meraviglia dalle forme stereotipate che naturalmente 
                  incontriamo. 
                  Lo spazio dei nuovi venuti 
                 E così: Cosa ha visto l'infanzia? 
                  Questa disposizione pensabile ancora impensabile, incidentale 
                  e imprevista si avvicina a quell'idea di filosofia a_venire 
                  o meglio in quell'idea di a_venire addentro al concetto di nascita, 
                  che come ci mostra Rosella Prezzo, ribalta il pensiero per la 
                  morte in un pensiero con la nascita. Rosella Prezzo pensa con 
                  Maria Zambrano in altra luce, con altro sguardo.5 
                  Cosa dice questo essere con la nascita? 
                  La scuola è lo spazio dei nuovi venuti. Situarci con 
                  essi è ascoltare una voce che chiama. La scuola è 
                  forse sempre pensata con il luogo che forma per la società, 
                  se invertiamo lo sguardo alla nascita è lei stessa che 
                  crea la società, quella a_venire mai data, ma ancora 
                  pensabile da tutti quelli che potrebbero pensarla. 
                  La filosofia in questo si addentra con una significazione vitale, 
                  non con un tempo di studio, ma con un ritmo del cuore di un 
                  dare nuovamente forma al di là dello specialismo, della 
                  titolazione e dell'applicazione metodologica di un sapere. L'idea 
                  di bambino/a che talvolta s'innesta in una visione produttiva 
                  dei soggetti potrebbe disattendersi, facendo così spazio 
                  a chi abbiamo di fronte, a chi vediamo, a volti che si situano 
                  con. Concepire che ci sia altro, che si viene, si_rinasce, 
                  c'è un a_venire. La maieutica forse così ritorna 
                  ad essere nascita. Non si fa nascere, non si è tirati 
                  fuori, si nasce, si viene alla luce, ma non da soli. 
                  Sapendo che è nelle fratture che sorge il pensiero. 
                  Qui è la poesia che pensa con la filosofia, non ne assume 
                  un linguaggio, ma pensa con lei, pensare con la poesia non è 
                  portare alla luce, ma trovarsi lì nell'increspatura dell'acqua, 
                  con un inizio, lì si ha parola di un sentire, un sentire 
                  del sentire. Ci si libera quando si nasce e così s'inizia 
                  a poter amare il mondo. Come dice Benjamin pensare la scuola, 
                  pensarla come qualcosa che non sia già detto, ma da dire. 
                  Se la filosofia s'impegna ad un pensare con la vita, l'inizio 
                  non è dato a un metodo, ma si hanno “radici infondate 
                  sul chiaro precipizio del nostro cervello”,6 
                  ombre che il chiaro ci mostra, verso un sapere dell'anima 
                  di uno spazio che sentiamo crearsi, un cammino, un sapere poetico 
                  di una ragione che non domina e non colma i vuoti, una filosofia 
                  che apre tempi e spazi di nascite.
                  Silvia Bevilacqua
  
				 
                  - M. Zambrano, Per l'amore e per la libertà, Scritti 
                  sulla filosofia e l'educazione, Marietti, 2008, Genova-Milano.
                  
 - M. Foucault, Il bel rischio, Cronopio, Napoli, 2013, p. 17.
                  
 - Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà 
                  e dell'oppressione sociale, Adelphi, Milano 2003, p. 37.
                  
 - L'Abecedario di Gilles Deleuze è una lunga video-intervista 
                  articolata per concetti dalla A alla Z che rappresenta un particolare 
                  autoritratto di pensiero e vita. Le citazioni che riporto sono 
                  liberamente tratte dal capitolo. “Enfance/Infanzia”, 
                  dvd 1, dell' Abecedario di Gilles Deleuze, Video-intervista 
                  in 3dvd a cura di Claire Parnet, regia di Pierre-Andrè 
                  Boutang, ed. Derive Approdi, 2005.
                  
 - Mi riferisco all'interessante saggio di Rosella Prezzo, Pensare 
                  in un'altra luce, Raffaello Cortina editore, Milano, 2006.
                  
 - Ricostruzioni nuovi poeti di Berlino, a cura di T. Prammer, 
                  ed. libri Scheiwiller, Milano 2011, p. 256.
                  
  
                   
                
                   
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                       Una 
                        poesia 
                        di Peter Handke  Quando 
                      il bambino era bambino,  
                      se ne andava a braccia appese. 
                      Voleva che il ruscello fosse un fiume,  
                      il fiume un torrente;  
                      e questa pozza, il mare. 
                       
                      Quando il bambino era bambino,  
                      non sapeva d'essere un bambino. 
                      Per lui tutto aveva un'anima, e tutte le anime erano 
                      tutt'uno. 
                       
                      Quando il bambino era bambino,  
                      su niente aveva un'opinione. 
                      Non aveva abitudini.  
                      Sedeva spesso a gambe incrociate,  
                      e di colpo sgusciava via. 
                      Aveva un vortice tra i capelli,  
                      e non faceva facce da fotografo. 
                       
                      Quando il bambino era bambino,  
                      era l'epoca di queste domande. 
                      Perché io sono io, e perché non sei tu? 
                       
                      Perché sono qui, e perché non sono lí? 
                       
                      Quando è cominciato il tempo, e dove finisce lo 
                      spazio?  
                      La vita sotto il sole, è forse solo un sogno? 
                       
                      Non è solo l'apparenza di un mondo davanti a un 
                      mondo 
                       
                        Peter Handke  | 
                   
                 
                
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