rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014


editoria

Anarchiche

di Lorenzo Pezzica con nota a margine di Martina Guerrini


Con questo titolo è da poco uscito per shake edizioni un libro (scritto da un maschio).
Quindici biografie, la vita e le idee, l'impegno e le lotte, di militanti anarchiche in molti casi sconosciute (o quasi).

Ne presentiamo qui tre:
la statunitense Virginia Bolten, la giapponese Noe Ito e l'italiana Luce Fabbri.

Abbiamo chiesto un commento a Martina Guerrini, che partendo dal libro affronta alcuni nodi “di genere”, dentro e fuori l'anarchismo.
Il dibattito è aperto.


Virginia Bolten
(1870-1960)

Ni Dios, ni patrón, ni marido.”
Virginia Bolten

Virginia Bolten

Il Primo maggio del 1890 è un giovedì. Da giorni, nella città di Rosario, le organizzazioni operaie locali, i socialisti e gli anarchici della città fremono per i preparativi di un'importante manifestazione. Vogliono essere sicuri che vada tutto per il meglio e che il suo successo sia certo.
Rosario, detta anche la “Barcellona argentina” per la presenza di un combattivo movimento operaio, è in quel momento storico un centro industriale emergente, la città più grande e popolosa della provincia argentina di Santa Fe, capoluogo dell'omonimo dipartimento, e il suo porto, sul margine occidentale del fiume Paraná, è fra i più importanti del paese. Rosario è la città dove 38 anni dopo, sempre di giovedì, nascerà Ernesto Guevara detto il Che.
La manifestazione era stata decisa nell'estate dell'anno precedente, non a Rosario ma a Parigi e riguardava tutti i paesi del mondo.
Nella capitale francese dal 14 al 20 luglio 1889 si era svolto il primo congresso della Seconda Internazionale1. Nell'ultimo giorno dell'incontro era stata lanciata l'idea di organizzare una grande iniziativa per la riduzione della giornata lavorativa a otto ore, da tenersi simultaneamente in tutti i Paesi. La scelta della data era caduta sul 1 maggio. Una scelta simbolica che voleva ricordare la tragedia della rivolta di Haymarket del 1886, la grande manifestazione operaia di Chicago repressa nel sangue.
Quel giorno a Rosario, in Plaza López, si presenta sul palco allestito per gli interventi una giovane donna. Ha i capelli neri corvino raccolti in una crocchia, lo sguardo severo aiutato da un viso appuntito. Avanza con passo fiero, nascosto dalla lunga e grande gonna scura, portando sulla spalla una bandiera nera con la scritta “1° maggio: Fratellanza Universale”. Ha vent'anni ed è anarchica. In Argentina l'evento passerà alla storia perché sarà la prima donna oratrice del nascente movimento operaio.
Il suo nome è Virginia Bolten. Il suo comizio le costa l'arresto; l'accusa è quella di violare l'ordine sociale esistente e di diffondere propaganda anarchica. Ma Virginia non è donna da lasciarsi facilmente intimidire dalla repressione. Presto rilasciata, riprende subito la sua attività propagandistica, scrivendo per il periodico “La Protesta Humana” e tenendo conferenze e comizi in diverse città argentine: San Nicolás de los Arroyos, Campana, Tandil, Mendoza.
Con tutta la società e la cultura patriarcale contro di lei, Virginia dà inizio, nei suoi scritti anarco-femministi, alla voce di rivendicazione femminile, comunicando la sua natura ribelle – Né dio, né padrone, né marito – non solo attraverso gli articoli pubblicati nei periodici creati da lei stessa, ma anche tramite l'attivismo reale, appassionato, intenso e di piazza. Soprannominata la Luise Michel di Rosario, è una di quelle donne controcorrente, in anticipo sui tempi, su cui la storia ufficiale calerà una coltre di silenzio.
Virginia Bolten nasce nel 1870 da Enrique Bolten, un emigrato tedesco che di mestiere fa il venditore ambulante, e Dominga Sánchez. Non è chiaro quale sia stato il suo luogo di nascita, forse San Luis o San Juan oppure Rosario in Argentina, ma potrebbe anche essere nata in Uruguay.
Da ragazza lavora in una fabbrica di scarpe e poi per una compagnia di raffinazione dello zucchero di Rosario. Giovanissima si sposa con Manuel Manrique, un anarchico uruguayano attivista in uno dei quartieri più popolari della città, e abbraccia gli ideali del comunismo anarchico2 e femministi.
Nella sua idea di lotta contro ogni forma di dominio, a partire da quello patriarcale, per il cambiamento della società, anarchismo e femminismo paiono inscindibili. È la strada che decide di percorrere anche all'interno di un movimento anarchico e operaio argentino che da parte sua fatica ad accettare l'impegno politico e sindacale di una donna. Per Virginia infatti, alle lotte del movimento era necessario affiancare in modo ancor più radicale la rivendicazione femminista.
Nel 1896, a Buenos Aires, incontra Teresa Marchisio, Pepita Gherra, Maria Calvia, Josefa Martinez e altre operaie di una fabbrica tessile. Si crea intorno a Virginia un gruppo di pioniere in lotta per il libero amore, la parità di diritti e la fine di ogni dominio, all'alba del Ventesimo secolo. Virginia persegue un obiettivo di lotta che vuole condividere con loro: la pubblicazione di un giornale fatto dalle donne per le donne che si rivolgesse alle migliaia di lavoratrici che lottavano per la propria autonomia all'interno e all'esterno della casa. Un giornale che denunciasse il doppio sfruttamento a cui sono sottoposte le donne rispetto al loro status di classe e di genere. Al gruppo presto si aggiunge anche un'altra donna. È Lucia Boldoni, stella del canto lirico nazionale. Appartiene alla classe borghese, è famosa in Argentina. Non se la sente di presentarsi per quella che è. Nasconde la sua identità ma si butta a capofitto nell'impresa.
Nasce così “La Voz de la Mujer”, La Voce della Donna, il primo giornale latino americano anarco-femminista. Con lo slogan “Né Dio, né padroni, né marito”, il periodico, finanziato da sottoscrizioni e donazioni individuali, viene pubblicato e diffuso in semiclandestinità tra il 1896 e il 1897.3
Nel breve periodo di vita del giornale, Virginia cambia città di frequente: Buenos Aires, Rosario, Montevideo. La rivista segue gli spostamenti della sua fondatrice. Teresa, Pepita, Maria e Josefa diventano le principali collaboratrici, ma Virginia riesce anche ad avere la collaborazione di Louise Michel ed Emma Goldman.
Il giornale, quattro pagine fitte, viene distribuito in duemila copie (per ciascuno dei nove numeri pubblicati) nelle fabbriche, nei laboratori, negli opifici della città, conquistando spazio per la propaganda dei principi di libertà e di giustizia sociale, innescando il dibattito sul libero amore, sul matrimonio, sull'abuso di potere, cercando di insegnare alle madri a educare i propri figli nell'uguaglianza dei diritti, invitando le donne a ribellarsi contro l'oppressione maschile senza abbandonare la lotta operaia, diffondendo gli ideali del comunismo anarchico e della rivoluzione sociale, denunciando apertamente le ingiustizie subite dai lavoratori e in particolare dalle donne, criticando gli atteggiamenti misogini di molti uomini anarchici.
I temi sollevati da Virginia nelle pagine del suo giornale provocano una certa tensione all'interno del movimento anarchico argentino. L'anarchismo, sostenevano i militanti anarchici uomini, in quanto teoria della rivoluzione, conteneva già implicitamente ed esplicitamente l'idea della liberazione della donna. Bolten rispondeva loro che proprio per questo motivo, se la volontà anarchica era quella di abolire i rapporti di autorità, di distruggere lo stato, di costruire una società non repressiva, la volontà anarchica si doveva anche tradurre in azioni che impedissero il riproporsi, all'interno del movimento, dei rapporti di dominio uomo/donna. L'essere umano può e deve essere libero. La rivoluzione sociale esige la distruzione dello stato per abolire lo sfruttamento, ma comporta anche l'abolizione del patriarcato affinché il dominio non possa risorgere sulle rovine della società classista.
Per contrastare l'avanzare del movimento operaio e anarchico, il governo conservatore argentino adotta numerose misure repressive, in particolare nel 1902 promulga la Ley de Residencia4 che autorizza l'espulsione di molti anarchici immigrati. Virginia organizza immediatamente una campagna di opposizione al provvedimento governativo.
A Buenos Aires entra a far parte del Comité de huelga femenino (Comitato dello sciopero femminile), che è parte del sindacato della Federación Obrera Argentina, impegnato nella difesa dei lavoratori del mercato della frutta di Buenos Aires. La sua frenetica attività le costa qualche problema di salute, ma i compagni del gruppo Germinal non la lasciano sola e si auto-organizzano per sostenerla moralmente ed economicamente.
Quando, in ragione del suo intervento in favore del movimento degli inquilini nel 1907, le viene applicata la famigerata Ley de Residencia, Virginia si vede costretta all'esilio in Uruguay insieme al compagno Manuel Manrique e alla figlia Mary Milagra. Si trasferisce così a Montevideo. La sua casa diviene un punto di riferimento per molti anarchici argentini esiliati e non solo. Pur vivendo in Uruguay Virginia mantiene vivi i contatti con il movimento anarchico e sindacale argentino, informandosi e seguendo le sue iniziative di lotta. Nel maggio del 1909 apprende con angoscia e rabbia degli eventi tragici della “Semana Roja”.5
Non c'è tregua nella lotta per la giustizia sociale. Virginia senza perdersi d'animo si mobilita immediatamente e organizza nel centro di Montevideo una pubblica protesta contro la brutale repressione del 1 maggio a Buenos Aires.
Nel luglio dello stesso anno un altro evento tragico investe il movimento anarchico e rivoluzionario. Non più in Argentina ma oltre oceano, in Spagna, a Barcellona. È la “Settimana Tragica”.6
Quando diventa di dominio pubblico la notizia della condanna a morte di Françisco Ferrer7, iniziano in tutto il mondo corpose manifestazioni di protesta che degenerano talvolta in scontri di piazza.
Virginia si mobilita e partecipa alla campagna pro-Ferrer, organizzando manifestazioni a Montevideo contro l'esecuzione del pedagogista libertario spagnolo che, dopo essere stato sottoposto a un processo farsa da parte del tribunale militare, sarà fucilato a Barcellona, nella fortezza di Mont- juich il 13 ottobre 1909.
All'impegno diretto nelle lotte anarchiche Virginia continua ad affiancare anche quello, mai interrotto, della lotta per l'emancipazione femminile, a cui aveva dato inizio alla fine dell'Ottocento con la sua rivista. Collabora con il periodico anarco-femminista La Nueva Senda diretto da Juana Buela Rouco che, nella sua autobiografia Historia de un ideal vivido por una mujer, ne ricorderà l'impegno e la tenacia nella sua attività propagandistica. Si impegna con l'Asociación femenina-emancipación, appoggiando le donne anticlericali, le operatrici telefoniche e impegnandosi contro il riformismo delle suffragette.
Nel marzo del 1911 il riformista José Batlle y Ordóñez viene eletto per la terza volta presidente dell'Uruguay. Resterà al potere fino al marzo del 1915. Con l'elezione di Batlle y Ordóñez, Virginia entra a far parte del gruppo anarco-battlista di Francisco Berri, Adrian Zamboni e Orsini Bertani, cioè di quel gruppo di anarchici che decidono di sostenere le politiche di laicizzazione dello stato e di nazionalizzazione dei capitali stranieri sostenute dalla politica dal presidente uruguayano. Durante questo periodo l'anarchismo uruguaiano entra in crisi, perdendo l'appoggio popolare a favore del Partito socialista del paese. Il giornale El Socialista attaccherà duramente Virginia e il gruppo dell'anarco-battlismo, accusandoli esplicitamente di aver tradito la causa rivoluzionaria del movimento operaio.
Da quel momento la Bolten sembra scomparire dalla scena pubblica. Ancora nel 1923 entra a far parte del Centro internazionale di studi sociali, un'associazione libertaria con sede nella capitale uruguaiana, ma poi se ne perdono le tracce. Poco o nulla si conosce circa gli altri anni della sua vita che continuerà a trascorrere nel barrio Manga di Montevideo fino alla sua morte, avvenuta intorno al 1960.

Note

  1. La Seconda Internazionale è fondata nel 1889 a Parigi dai partiti socialisti e laburisti europei e scioltasi di fatto il 4 agosto 1914. Erede della Prima Internazionale (caratterizzata dallo scontro tra anarchici e marxisti, venne sciolta nel 1876), al contrario dell'organismo che la precedette, fu dominata dal Partito Socialdemocratico tedesco, di indirizzo riformista.
  2. Il movimento anarchico si era da poco sviluppato in Argentina in seguito all'immigrazione di massa, che aveva coinvolto tutto il continente sud-americano dalla fine dell'Ottocento ai primi del Novecento, di lavoratori, lavoratrici e militanti anarchici e socialisti in fuga dalle persecuzioni politiche attuate dai governi europei. Le masse lavoratrici, influenzate dagli anarchici, numericamente prevalenti rispetto ai socialisti, avevano cominciato a organizzarsi nei sindacati, utilizzando come armi di lotta lo sciopero generale, il sabotaggio e il boicottaggio. L'anarchismo argentino ha un forte impulso quando nel 1885 giunge in Argentina Errico Malatesta. Dopo la sua partenza, nel 1889, si accentuano tutta una serie di polemiche interne al movimento anarchico che cessano temporaneamente solo quando giunge nel 1898 un altro anarchico italiano: Pietro Gori.
  3. Parte dei numeri del giornale sono oggi conservati presso l'Istituto internazionale di storia sociale di Amsterdam.
  4. La Ley de Residencia sancita dal Congresso di Argentina nel 1902 permetteva al governo di espellere gli immigrati senza processo. La legge è stata utilizzata dai successivi governi argentini per frenare l'organizzazione sindacale dei lavoratori del commercio, guidata soprattutto da anarchici e socialisti. Essa era nata da una richiesta fatta dall'Unione Industriale di Argentina nel 1899, a seguito della quale il senatore Miguel Cane presenta al Congresso Nazionale la proposta di espulsione degli stranieri.
  5. Per la ricorrenza della festa dei lavoratori la Federación obrera regional argentina (Fora) – il sindacato più grande del paese, controllato dagli anarchici – e il Partito socialista, insieme all'Union general de trabajadores (Ugt) – il sindacato controllato dal Partito socialista – convocano a Buenos Aires ognuno una distinta manifestazione. La manifestazione socialista si svolge normalmente, mentre quella della Fora, prima che possa iniziare a muoversi, viene brutalmente repressa dalla polizia, guidata dal colonnello Ramón Lorenzo Falcón. Ci sono 12 morti, 70 feriti e 150 arresti. Le organizzazione sindacali proclamano congiuntamente lo sciopero generale a tempo indeterminato. Il 4 maggio i funerali delle dodici vittime sono accompagnati da oltre trecentomila persone. Solo l'8 maggio il governo argentino accetta, per la prima volta, di negoziare con i sindacati. Il 14 novembre viene ucciso Ramón Lorenzo Falcón da una bomba fatta esplodere dal giovane anarchico Simon Radowitzky, che in questo modo intende vendicare le uccisioni dei compagni e dei lavoratori.
  6. In seguito alla dichiarazione della legge marziale nel 1909 durante la “Settimana Tragica”, una rivolta scoppiata il 26 luglio quando la popolazione si ribellò alla Guardia Civile che aveva il compito di far imbarcare i coscritti (per la quasi totalità appartenenti alle classi povere) mandati a combattere nelle guerra coloniali in Africa. Françisco Ferrer fu arrestato il 31 agosto con l'accusa di essere il fomentatore della rivolta.
  7. Françisco Ferrer (1859-1909) è stato un anarchico, pedagogista e libero pensatore spagnolo. Su Françisco Ferrer vedi Giuliana Iurlano, Da Barcellona a Stelton. Francisco Ferrer e il movimento delle scuole moderne in Spagna e negli Stati Uniti, M&B, Milano 2000.

Noe Ito
(1895-1923)

“Era giovane e bella... Dora le chiese: 'Ma non hai paura che le autorità ti possano fare qualcosa?'. Lei si portò le mani alla gola e rispose: 'So bene che lo faranno prima o poi'.”
Bertrand Russell1

Noe Ito

Noe Ito nasce a Imajuku, sull'isola di Fukuoka, in Giappone, il 21 gennaio 1895. L'aspetta una vita di obbedienza assoluta ad ogni tipo di autorità in una società rigidamente gerarchica, codificata, ritualizzata: come geisha, come madre, come prigioniera, come esclusa. Ito prende un'altra strada, assolutamente impervia.
Dotata di temperamento artistico, si iscrive alla scuola femminile di Ueno, a Tokyo. A 15 anni, mentre è ancora a scuola, sposa un uomo di vent'anni più vecchio di lei; Fukutaro, che si impegna a sostenere la sua formazione artistica e culturale, ma che in realtà non è minimamente in grado di tenere fede a quanto sottoscritto. Del resto, Noe non era innamorata di lui; lo aveva sposato con la speranza di emigrare negli Stati Uniti. In seguito, confiderà alla sorella, una volta arrivati in America, che lo avrebbe immediatamente lasciato.
Poco dopo il matrimonio, Noe stringe amicizia con il suo insegnante di inglese, Jun Tsuji. È un anarchico dichiarato; poeta, saggista, drammaturgo, traduttore, dadaista, nichilista, femminista e bohemien. È il primo traduttore in giapponese dell'Unico e la sua proprietà di Max Stirner e delle opere di Cesare Lombroso.
Una sedicenne che si avvicina all'anarchismo è qualcosa di assolutamente impensabile nel Giappone dei primi anni del Novecento; l'amicizia con Jun Tsuji si trasforma in amore e impegno politico. Man mano che il suo matrimonio va a rotoli, Noe cerca sempre più il sostegno morale ed economico di Tsuji. I due allacciano una relazione amorosa, così lei decide di lasciare Fukutaro e sposare il suo ex insegnante. La coppia avrà due figli: Makoto e Ryuji.
Dopo il diploma Noe entra nella Seito-sha, una sorta di scuola artistica femminile con cui immediatamente collabora alla pubblicazione della rivista Seito, di cui ben presto diventa caporedattrice, imprimendole una svolta radicale: da blanda rivista artistica femminile, seppure “tenuta d'occhio” e invisa alle autorità, Seito diviene una pubblicazione di critica sociale radicale e femminista. Ito si distingue per i suoi articoli e per la traduzione di The Tragedy of Woman's Emancipation di Emma Goldman.
Nel 1916 la rivista viene chiusa d'autorità. Nel periodo d'impegno nella rivista Noe conosce e si innamora di un altro giovane anarchico, di otto anni più grande di lei e già sposato: Osugi Sakae. È con lui che decide di tradurre lo scritto della Goldman. Instaurano un rapporto basato sul libero amore, che trova coerentemente d'accordo anche Jun Tsuji. Nel Giappone tradizionale e conservatore il fatto genera un autentico terremoto; lo scandalo si amplifica ancora di più quando Osugi viene ferito a coltellate in una casa del tè dalla sua prima amante, Masaoka Itsuko, a sua volta militante femminista. Come è prevedibile attendersi, se pure lo scandalo non risparmia nessuno dei due protagonisti, un accanimento maggiore viene riservato a Noe, in quanto donna.
Noe decide di convivere con Osugi da cui avrà quattro figli e per il quale prenderà le sue difese dopo che Shimbun Heimin (“Giornale dell'uomo del popolo”), la rivista fondata da Osugi, viene chiusa dalla polizia giapponese.
Il turbinio della sua vita sentimentale e le critiche feroci ricevute per la sua condotta “morale” non impediscono a Noe Ito di impegnarsi sempre di più sia nelle lotte del movimento anarchico, che in quegli anni sta assumendo dimensioni tali da preoccupare seriamente le autorità, sia in quelle di rivendicazione dell'emancipazione femminile, contribuendo alla fondazione e alla crescita del movimento femminista anarchico giapponese. Nel 1921 fonda un gruppo di donne socialiste a Sekirankai, e continua a tradurre le opere di Emma Goldman e di Pëtr Kropotkin.
Nell'ottobre del 1922, Osugi Sakae raggiunge clandestinamente Shanghai per discutere della creazione di un'Unione degli anarchici dell'Asia orientale e partecipare alla Conferenza dei socialisti dell'Estremo oriente. Parte poi per l'Europa, dove resterà per tre mesi, per partecipare alla Conferenza anarchica internazionale di Berlino del febbraio 1923. Il ritorno in Giappone di Osugi, nel luglio dello stesso anno, è preceduto da una lettera di Ito in cui lo esorta a tornare il prima possibile. A parte le complicazioni derivanti dalla sua quinta gravidanza, quello che più preoccupa la giovanissima anarchica sembra essere l'emergere di attriti all'interno del gruppo anarchico Rodo Undo che insieme ad Osugi aveva fondato ed animato prima della sua partenza per il vecchio continente.
Il ritorno di Osugi, il loro incontro a Tokyo, i racconti della sua permanenza a Parigi, l'incontro con Nestor Makhno, la febbrile raccolta di articoli, riviste, giornali che parlassero dei makhnovisti e la stesura dell'ultimo scritto sull'impresa dell'anarchico ucraino (Museifu Shugi Shogun: Nesutoru Mafuno). Sono questi gli impegni che riempiono i giorni di due lunghi mesi d'estate che Ito e Osugi passano insieme.
La mattina del primo settembre 1923 la pianura del Kanto sull'isola maggiore del Honshu in Giappone è colpita da un terribile terremoto. La scossa è infinita. I morti sono più di 100.000, i dispersi circa 37.000. Tokyo è devastata. Il sisma colpisce all'ora di pranzo, quando nelle cucine delle case il focolare è acceso per preparare il pranzo. Gli incendi divampano ovunque, crescono rapidamente, fondono l'asfalto delle strade, assumono dimensioni enormi in tutti i quartieri della città. Migliaia di persone radunate in uno spazio aperto a Rikugun Honjo Hifukusho vengono incenerite da un tornado di fuoco proprio quando ormai credevano di essere in salvo. Il panico e la confusione si propagano come il fuoco, alimentando dicerie e false leggende. Una di queste sostiene che i coreani stessero traendo vantaggio dal disastro, commettendo furti, appiccando incendi e avvelenando i pozzi. Si scatena una caccia al coreano. Il numero totale di morti coreani delle rappresaglie xenofobe è incerto; per il governo le vittime sono 231, mentre altre fonti parlano di 2500 vittime. Una delle primissime preoccupazioni del governo e delle forze armate giapponesi è quella di dichiarare ai superstiti del disastro sismico che gli anarchici ne avrebbero approfittato per prendere il potere e rovesciare l'Imperatore. La crescita del movimento anarchico e socialista, iniziata con il sorgere del nuovo secolo, preoccupava da sempre il governo giapponese. Il clima di panico e confusione creatosi con il terremoto era un'occasione da non lasciare passare. È dichiarata la legge marziale.
Nelle ore immediatamente successive al sisma, squadre della polizia militare vengono inviate non a prestare soccorso alla popolazione colpita dal terremoto, ma a dare la caccia ai pericolosi sovversivi; una di esse raggiunge Noe Ito e Sakae Osugi. La squadra militare è guidata dal tenente Masahiko Amakasu, che arresta Noe e Sakae insieme a suo nipote, un bambino di soli sei anni.
Ito capisce subito che le cose si mettono al peggio; si sente un animale in trappola. Alla domanda di Dora Russell “ma non hai paura che le autorità ti possano fare qualcosa?”, Ito aveva risposto “so bene che lo faranno prima o poi”.
La paura è un'emozione intensa, una delle emozioni primarie. Nel momento in cui la paura diviene travolgente ed estrema, si trasforma in panico o terrore. L'impulso è quello di scappare correndo via alla cieca oppure di rimanere paralizzati.
Ito ha paura – è naturale – resta immobile, non tenta di scappare, e guarda dritto negli occhi il tenente Amakasu.
I militari agiscono ferocemente, non hanno alcun ritegno nei suoi confronti così come nei confronti di Osugi e del bambino. Vengono strattonati violentemente, ammanettati, insultati. Una volta presi non vengono portati al vicino comando di polizia. Vengono trascinati poco più distante in un vicolo cieco della città. Lì vengono brutalmente picchiati a morte, strangolati e i loro corpi gettati in un pozzo, dove vengono ritrovati il giorno dopo. È il 16 settembre 1923, Noe aveva 28 anni.
L'uccisione di Noe Ito, del suo compagno Sakae Osugi e del piccolo nipote di lui viene definita, naturalmente, dalle autorità di polizia, un “incidente”. Così, infatti, passa alla storia: l'Incidente di Amakasu. Pur nel caos del dopo terremoto però succede qualcosa di difficilmente immaginabile dagli esponenti del governo: l'episodio guadagna grande risonanza. Il Giappone intero insorge indignato per l'assassinio dei due anarchici e di un bambino, anche perché era stato fatto brutale scempio dei cadaveri.
Per fare fronte all'enorme indignazione popolare, le autorità governative sono costrette ad arrestare il tenente Amakasu, che viene condannato a dieci anni di carcere da scontare nel penitenziario di Chiba. Dopo soli due anni, però, Amakasu viene liberato, beneficiando dell'amnistia generale in occasione dell'ascesa al trono dell'imperatore Hirohito.
Nel 1969, la vicenda di Noe Ito e Osugi Sakae è narrata dal regista Yoshishige Yoshida2 nel film Eros + massacro (Erosu purasu gyakusatsu), considerato uno dei primi capolavori della Nouvelle Vague giapponese.
Protagonisti del film sono due giovani studenti interessati a conoscere la verità sui fatti accaduti ai due anarchici nel lontano 1923. Iniziano la loro ricerca storica e nello stesso tempo riflettono sull'anarchismo e sul libero amore. I due ragazzi si appassionano a tal punto delle sorti di Ito e Osugi da non riuscire più a tenere distinti passato e presente. Noe Ito torna di nuovo e con lei la sua storia.

Note

  1. Bertrand Russell, nella sua Autobiografia, ricorda così l'incontro avuto nel 1921 con Noe Ito. Bertrand Russell, L'Autobiografia. Da Freud a Einstein: 1914-1944, vol. 2, Longanesi, Milano 1970. Dora Black Russell (1894-1986) è stata una scrittrice, attivista femminista e socialista inglese e la seconda moglie del filosofo Bertrand Russell.
  2. Yoshishige Yoshida (Fukui, 16 febbraio 1933), conosciuto anche come Kiju Yoshida, è un regista e sceneggiatore giapponese. È stato uno dei membri più importanti della Nouvelle Vague cinematografica giapponese, insieme ai colleghi Nagisa Oshima e Masahiro Shinoda. Nel 1964 fonda una propria compagnia di produzione. Nel 1973 il grande insuccesso di Kaigenrei gli costa oltre dieci anni di inattività prima di riuscire a riprendere la sua carriera con Ningen no yakusoku, con cui viene selezionato per Un Certain Regard dal Festival di Cannes 1986. Oltre all'attività di regista ha scritto libri sul cinema. È sposato con l'attrice Mariko Okada, figlia dell'attore Tokihiko Okada.

Luce Fabbri
(1908-2000)

Questa è la strada, o non c'è nessuna strada.”
Luce Fabbri
1

Luce Fabbri

Luce Fabbri è oggi considerata una tra le figure intellettuali più significative dell'anarchismo italiano e internazionale del Novecento. Nonostante ciò il suo pensiero, seppur accolto su numerose riviste del movimento, per lungo tempo non è stato compreso e dibattuto quanto avrebbe meritato, anche se, per esempio, Pier Carlo Masini, critico nei confronti di alcuni aspetti del suo pensiero,2 ne aveva già riconosciuto l'originalità e la profondità tanto da ricordare molti anni più tardi la “boccata d'ossigeno” che ne aveva provocato l'impatto.3 Masini però resta uno dei pochi e le idee della Fabbri sono passate sostanzialmente inosservate. Anche quando, nel movimento anarchico italiano della fine degli anni Sessanta, c'è chi riprende per esempio il tema della “tecnoburocrazia”, riscoprendo pensatori anarchici come Luis Mercier Vega o personaggi come Bruno Rizzi, non si accorge delle pagine scritte dalla Fabbri sullo stesso tema. Così come poco dibattuta sarà la sua riflessione sul totalitarismo,4 svolta tra gli anni Trenta e Sessanta, che le permetterà anche di ripensare l'essenza stessa dell'anarchismo.
Testimone sensibile e consapevole degli eventi e delle tragedie che attraversano tutto il Ventesimo secolo, Luce Fabbri “nasce” anarchica, favorita dallo speciale ambiente familiare in cui cresce. Tutto il suo percorso esistenziale, intellettuale e politico si iscrive all'interno dell'ideale anarchico, cosa che non le impedisce comunque di ancorare il suo pensiero a un forte principio di realtà e al contesto sociale e politico di appartenenza. Essere anarchica “da sempre” è ciò che rende Luce Fabbri un personaggio estremamente significativo per la pregnanza con cui ha vissuto e concretizzato la sua visione libertaria del mondo.
Luce Fabbri sostiene nei suoi scritti una nozione dell'agire libertario visto come espressione diretta della volontà dell'uomo. Per descrivere la sua riflessione si può utilizzare il giudizio che Alessandro Dal Lago ha espresso a proposito del pensiero di Hanna Arendt: “una teoria libertaria dell'azione nell'epoca del conformismo sociale”.5
Ancorata alla radice socialista dell'anarchismo di Errico Malatesta e del padre Luigi,6 al contempo Luce lo sviluppa e per alcuni aspetti lo supera, affrontando nel corso della sua esistenza alcuni tra i nodi centrali delle vicende storiche della realtà contemporanea. In lei ha convissuto sia una solida cultura politica, storica e letteraria che, per esempio, le permette nel 1949 di accedere all'insegnamento universitario a Montevideo, sia la massima apertura mentale verso i problemi del presente e del futuro.
Un elemento centrale che caratterizza l'esistenza e il pensiero della Fabbri è anche rappresentato dalla condizione dell'esilio, da lei vissuto con grande sofferenza. Nel 1932 pubblica I canti dell'attesa, pubblicato a Montevideo dall'editore Bertani, una raccolta di poesie da cui traspare soprattutto la nostalgia per il paese natale e lo sdegno per il fascismo e le sue imprese.
La sua esistenza si è svolta infatti tra l'Italia, che lascia insieme alla famiglia a vent'anni esule del fascismo, e l'Uruguay, la sua seconda patria. Dal 1929, anno di arrivo a Montevideo, la sua condizione “binaria” diventa centrale per la sua esistenza e il suo pensiero. Nonostante questa sua scelta esistenziale, il movimento anarchico italiano resta un punto di riferimento fondamentale della sua azione di militante ed intellettuale anarchica. Alla fine della Seconda guerra mondiale Luce comunque decide di non tornare in Italia a differenza di altri esuli antifascisti. In Italia tornerà solo tre volte nel 1954, nel 1981 e nel 1993.

Nel movimento anarchico uruguayano

Luce Fabbri nasce a Roma il 25 luglio 1908, figlia di Luigi Fabbri e di Bianca Sbriccioli. Nell'ottobre del 1910 a Bologna, dove la famiglia si era nel frattempo trasferita, nasce il fratello Vero. Luce cresce in un ambiente libero e culturalmente stimolante, testimone privilegiata dell'intensa attività politica e culturale del padre, esponente di primo piano dell'anarchismo italiano ed internazionale, a contatto con i numerosi compagni e amici che frequentano la sua casa, in particolare Errico Malatesta. Ancora giovanissima pubblica sulla rivista “Pensiero e Volontà” il suo primo articolo che firma con lo pseudonimo Epicari.
Nell'autunno del 1926, dopo la definitiva affermazione del fascismo in seguito alle leggi del 1925 dette “fascistissime”, il padre Luigi è costretto ad espatriare clandestinamente attraverso la frontiera svizzera, recandosi in Francia dove lo raggiungerà nell'anno successivo la moglie Bianca.
Luce rimane da sola a Bologna per terminare gli studi universitari, ospite in casa di un amico di famiglia, il socialista Enrico Bassi. Due mesi dopo la laurea, ottenuta nel 1928, anche Luce decide di lasciare clandestinamente l'Italia, raggiungendo la famiglia a Parigi i primi di gennaio del 1929.
Nel marzo dello stesso anno il padre Luigi è nuovamente costretto ad attraversare clandestinamente la frontiera con il Belgio, sotto la minaccia di un arresto da parte della polizia francese. In aprile Luce e la madre lo raggiungono a Bruxelles e il mese successivo la famiglia parte dal porto di Anversa per l'Uruguay.
Fin dall'inizio del suo arrivo nel nuovo paese Luce si impegna attivamente nel movimento anarchico uruguayano, scrivendo articoli e libri, tenendo conferenze e impegnandosi in svariati ambiti.
L'anarchismo nei paesi del cono sud dell'America latina agli inizi degli anni Trenta appare ancora forte. In grande maggioranza il movimento è di ispirazione anarcosindacalista, e trova espressione soprattutto in due organizzazioni sindacali controllate dagli anarchici, la Fora (Argentina) e la Foru (Uruguay), ma era presente anche una minoranza agguerrita di anarchici “illegalisti” e “espropriatori” come Severino Di Giovanni,7 che proprio in quegli anni sta concludendo in Argentina la sua tragica parabola.
I primi anni a Montevideo sono difficili per problemi economici e di inserimento, mentre la nostalgia dell'Italia si fa sentire in modo acuto. Per aiutare la famiglia, Luce impartisce lezioni private di italiano e greco, e partecipa alle commissioni annuali d'esame per l'italiano, che era materia curricolare nelle scuole secondarie superiori dell'Uruguay, ottenendo nel 1933 l'incarico di professoressa di storia in molte scuole, che svolgerà fino al 1970. Durante la prima estate nel nuovo paese, per ristabilirsi nella salute compromessa dal lungo viaggio, Luce trascorre un periodo di vacanza sulle montagne di Cordoba, in Argentina, ospite di Diego Abad de Santillan.8 È l'inizio di una lunga amicizia che durerà tutta la vita. Nel frattempo Luigi Fabbri avvia una nuova importante iniziativa editoriale, la pubblicazione della rivista “Studi Sociali”, il cui primo numero esce nel marzo del 1930. Alla redazione collaborano Ugo Fedeli e Torquato Gobbi e Luce, che scrive alcuni articoli firmati con lo pseudonimo Lucia Ferrari.
Il 6 settembre 1930, con il colpo di stato del generale Uriburu in Argentina, si scatena una feroce repressione contro gli anarchici. In pochi giorni l'intera organizzazione della Fora vene spazzata via. Molti militanti vengono uccisi, torturati, deportati. Quelli che riescono a fuggire vanno a Montevideo, dove va a ingrossare la comunità degli esiliati. Tra i profughi c'è anche Ermacora Cressatti, un muratore anarchico di origini friulane, di cui ben presto Luce si innamora e che diventa suo marito nel 1933. Alcuni anni dopo nasce la figlia Luisa.
Il 22 giugno 1935 muore Luigi Fabbri. Luce, gravemente ammalata, non può assistere ai suoi ultimi istanti e neppure prendere parte al funerale. La perdita del padre, che adorava, rappresenta uno dei più grandi dolori della sua vita. Cerca di reagire continuando l'opera iniziata dal padre, in particolare “Studi Sociali”.
Tra il 1936 e il 1939 Luce si impegna nel sostegno agli anarchici spagnoli che lottano sul doppio fronte della guerra contro Franco e della rivoluzione. Nel 1937 pubblica, con lo pseudonimo Luz d. Alba, il volume 19 de julio. Antologìa de la revolución española, con lo scopo di informare l'opinione pubblica dell'America latina su ciò che sta realmente accadendo in Spagna. L'anno successivo esce a Lugano, a cura di Carlo Frigerio, l'opuscolo Gli Anarchici e la rivoluzione spagnola, contenente l'articolo di Luce Il problema del governo, improntato a una certa comprensione nei confronti delle ragioni di quegli esponenti anarchici spagnoli che nel corso della Guerra civile avevano accettato di fare parte del governo di Madrid e di quello autonomo della Catalogna, e che aveva suscitato dissensi e critiche da parte di molti esponenti del movimento libertario internazionale. La stessa Luce preciserà in seguito che si trattava di comprendere il dramma umano e politico di quei compagni, e non della accettazione del ministerialismo che anche lei non condivideva.
La Rivoluzione spagnola, che aveva suscitato all'inizio tante speranze, si conclude infine tragicamente, seguita poco dopo dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Durante la guerra Luce compila in italiano la rivista “Rivoluzione libertaria” (giornale spedito clandestinamente in Italia e di cui escono cinque numeri), e subito dopo la pagina italiana di “Socialismo y libertad”, un interessante esperimento di periodico trilingue, a cui collaborano socialisti, anarchici e repubblicani uniti dalla comune lotta al fascismo.

Analisi originale del totalitarismo

Anche se negli anni Trenta, tra moltissime difficoltà, Luce Fabbri cerca di mantenere i contatti con l'Italia, è però solo con la fine della Seconda guerra mondiale che riprende in modo più continuativo i contatti con il movimento anarchico italiano.
Fin dal 1944 segue con entusiasmo i tentativi di diversi militanti impegnati nella riorganizzazione del movimento nella parte dell'Italia liberata, in particolare da parte di Pio Turroni, Giovanna Berneri e Cesare Zaccaria, tentativi che si concretizzano nel settembre del 1945 con il primo Congresso nazionale di Carrara che dà vita alla Federazione anarchica italiana9 e alla fondazione della rivista “Volontà”.10 Luce Fabbri comunica il suo entusiasmo a Giovanna Berneri, aderendo al progetto della nuova rivista. Pensa che “Volontà” possa essere la naturale prosecuzione di quella che era stata la rivista del padre. L'ultimo numero di “Studi sociali” esce infatti nel maggio del 1946, due mesi prima dell'uscita del primo numero di “Volontà”. La collaborazione di Luce alla rivista italiana rappresenta uno dei momenti più importanti del suo percorso esistenziale e di riflessione teorica. I suoi articoli apparsi sulla rivista tra il 1946 e il 1960, oltre ad affrontare argomenti legati all'attualità politica e sociale italiana e uruguayana, ai temi della pedagogia libertaria, sono incentrati sul fenomeno del totalitarismo.
Negli anni della Guerra fredda e del mondo diviso in due blocchi, Luce Fabbri vuole trovare “il luogo attuale dell'anarchismo”, ripensandone l'essenza, e ritiene di trovarlo considerandolo la naturale confluenza di due linee evolutive: il liberalismo e il socialismo.
Pur saldamente ancorata alla tradizione socialista dell'anarchismo Luce Fabbri intende recuperare al pensiero anarchico ciò che chiama “una parentela più remota”: il liberalismo, inteso nel suo valore profondamente etico di difesa dell'uomo e di lotta per la libertà. Il liberalismo così inteso potrà dirsi compiuto, secondo la Fabbri, quando avrà eliminato i presupposti del dominio economico: la libera impresa e la proprietà privata. In questo senso, la tradizione liberale, nel suo momento più alto, non potrà che confluire nel socialismo.
Nel proporre queste sue idee Luce Fabbri non manca di richiamarsi sia al liberalismo radicale di Gobetti sia al socialismo liberale di Carlo Rosselli; ma è soprattutto il pensiero di Camillo Berneri a cui la Fabbri si richiama direttamente.11
Questa riflessione, che aveva avuto inizio fin dagli anni Trenta, giunge nel periodo della sua collaborazione alla rivista “Volontà” a una completa formulazione. Il suo originale contributo al tema del totalitarismo la pone sullo stesso piano dei maggiori pensatori e la inserisce a pieno titolo all'interno della storia di quel dibattito che ha profondamente segnato la cultura del Ventesimo secolo.
Per far ciò, Luce Fabbri attinge alle più diverse e stimolanti correnti del pensiero “critico”, dimostrando così la sua particolare apertura mentale e culturale. Al fianco del padre Luce aveva acquisito la conoscenza delle problematiche scaturite dal dibattito sulla Rivoluzione russa e l'avvento del regime fascista in Italia; fa proprio e rielabora il pensiero dei classici dell'anarchismo ma si dimostra sensibile anche alle suggestioni emerse dal “laboratorio parigino” degli anni Trenta, indipendentemente dall'estrazione politico culturale di quei pensatori. Tra le letture di Luce Fabbri in quegli anni vi è per esempio Emmanuel Mounier, filosofo cattolico del personalismo. Tra le fonti a cui attinge vi sono anche le opere di George Orwell, Ernst Cassirer, James Burnham e Milovan Gilas. Molte delle sue intuizioni sul fenomeno del totalitarismo paiono molto vicine a quelle espresse da Simone Weil o anticipano per alcuni aspetti quelle di Hanna Arendt.
Parlare di totalitarismo come fa Luce, comparando fascismo, nazismo e comunismo, nell'Italia in quegli anni, significa esporsi al bando della società intellettuale e, nella sinistra, all'isolamento sanitario. La riflessione della Fabbri appartiene infatti a quella che lo storico Enzo Traverso chiama la “caratteristica paradossale”12 all'interno del dibattito sul totalitarismo, cioè il ruolo del tutto marginale nell'articolazione del dibattito svolto dall'Italia, paese in cui la parola totalitarismo aveva trovato la sua origine.13 Nell'Italia postbellica, caduto il fascismo, il tema del totalitarismo infatti resta fuori dalla porta anche se il termine totalitarismo circola comunemente, ma in un'accezione “autarchica”.14
Ai dogmatismi e alle certezze manichee di quegli anni Luce Fabbri risponde con un'indagine critica e analitica, insoddisfatta della vulgata corrente, animata da una costante problematicità e da una prospettiva culturale aperta.
Per Luce il fenomeno totalitario trova le sue origini storiche nel contesto creato dalla Prima guerra mondiale. Constata che le esigenze connesse alla guerra del 1914 avevano portato a una profonda modificazione della struttura sociale dei paesi capitalisti. La necessità di rendere omogenei gli sforzi di pianificare l'economia in funzione della guerra aveva comportato un massiccio accrescimento delle prerogative dello stato e una conseguente espansione degli apparati burocratici. Un processo che sostanzialmente ricalcava le dinamiche di accentramento del potere “attraverso una casta di funzionari economicamente privilegiati e [...] partecipi – secondo la loro gerarchia – delle funzioni cosiddette di direzione, cioè in verità del potere. Tale casta comprende tutta la burocrazia governativa nei suoi diversi settori, compresi i tecnici e gli organizzatori della produzione e della distribuzione, la polizia, l'esercito e col tempo, senza dubbio, il clero”.15 È il fenomeno tecnoburocratico. Luce Fabbri e Louis Mercier Vega sono stati i primi a introdurre nel movimento anarchico di lingua italiana il concetto di tecnoburocrazia e fin dal 1933 quando, a partire dallo studio comparato degli stati fascista e sovietico, aveva già individuato come uno dei tratti unificanti delle società contemporanee l'ascesa della classe tecnoburocratica.16 Il totalitarismo del Ventesimo secolo, secondo Luce Fabbri, gestiva il passaggio in campo economico dal capitalismo al collettivismo burocratico.17
Dopo aver inquadrato il tema tecnoburocratico all'interno del fenomeno totalitario, Luce Fabbri rivolge la sua analisi all'aspetto più genuinamente “politico” e “ideologico” del totalitarismo. Per lei fascismo, nazismo e stalinismo fanno leva, insieme a un'espansione ipertrofica della sfera pubblica in economia, al potenziamento esponenziale della violenza dello stato attraverso la guerra, interna ed esterna, sull'irreggimentazione sistematica delle coscienze e sull'imbarbarimento dei rapporti sociali, che porta all'annichilimento dell'individuo in nome di ingannevoli e falsi ideali collettivi. In particolare sono tre gli elementi che definiscono il regime totalitario: la neolingua, la visione ufficiale della storia, la militarizzazione delle intelligenze.
Il primo elemento mantiene il potere attraverso la trasformazione profonda e unilaterale del “vocabolario”, sfigurando e a volte invertendo senza dichiararlo i termini dei vecchi e dei nuovi problemi. E a questo proposito parla della “semantica artificiale del nazionalsocialismo tedesco” diretta a creare quella “neolingua” che impedisce ogni pensiero eretico. Lo stato totalitario, in altri termini, una volta conquistato il potere lo consolida a “colpi di linguaggio”,18 trasformandosi in una vera e propria “logocrazia di massa”. In secondo luogo, il regime totalitario impone una visione ufficiale della storia contemporanea e di quella passata, utilizzando il suo potere per manipolare le informazioni e distruggere la memoria storica. La realtà viene vagliata, selezionata, costruita, prodotta. Infine, nello sforzo di militarizzare le intelligenze individuali fondendole in una massa omogenea, costringe le persone a un lavoro di investigazione solitario, privo del beneficio dell'interscambio spirituale e della discussione.
Da una parte quindi il potere onnipervasivo dell'ideologia totalitaria rende “omogenea” la massa degli individui e dall'altra “isola” il pensiero dal rapporto tra idea e realtà. Nel formulare queste sue idee Luce Fabbri fa riferimento a Orwell, ponendo direttamente al centro delle sue argomentazioni, le tesi di 1984.19

Insegnamento e militanza

Luce Fabbri non si limita, nella sua riflessione, ad analizzare il fenomeno totalitario nel solo significato di nuovo regime. Si apre verso una prospettiva ermeneutica, cercando non soltanto l'intensità e la struttura dell'oppressione politica ma la sua essenza. Interrogando le responsabilità del passato Luce Fabbri fa emergere la continuità tra totalitarismo e tradizione occidentale, tra la logica del potere tout-court e la logica totalitaria.
Rispetto alla Arendt è interessante qui sottolineare il diverso accento posto sulla continuità o discontinutà del totalitarismo, che avvicina, non a caso, il giudizio della Fabbri a quello di Simon Weil.
Se è possibile vedere elementi di unità di giudizio da parte della Fabbri e della Arendt nei confronti del totalitarismo, le due pensatrici si differenziano sull'originalità e l'unicità del fenomeno. Per la Arendt il totalitarismo è sì implicato nella mentalità politica e filosofica moderna, ma non è assolutamente necessitato né iscritto come destino nei suoi geni. Per la Fabbri invece, il fenomeno totalitario è un esito estremo di quella logica del potere che ha segnato la nostra storia. Insomma, dove per la Arendt si tratta di novità, per la Fabbri si deve parlare dell'ennesima ripetizione, portata alla sua estrema efferatezza, di una violenza che da sempre abita nel potere.
Ma riconoscere l'onnipotenza del potere totalitario non significa dichiarare impossibile l'azione. Soprattutto quando si è anarchici. Contro le strutture di comando e le pratiche violente del potere è possibile gettare in aria le carte, con il coraggio e la forza di una volontà ritrovata.
In questo senso la Rivoluzione spagnola del 1936 è una preziosa lezione storicamente praticata di lotta contro il totalitarismo, dimostrando, nella realtà storica concreta, la possibilità dell'alternativa anarchica di una società libera, sperimentale, federativa, capace di rivalorizzare (in seno a un'economia socializzata) la più ampia autonomia degli individui e degli organismi locali. La macchina del potere sempre più sofisticata e oppressiva che rafforza le gerarchie e i poteri burocratici, anche se vissuta come una ferita dolorosa, non deve quindi mai tradursi in senso di impotenza. Da un lato lo impedisce la prospettiva anarchica, dall'altro l'impegno ad agire in favore della liberazione dell'uomo.la guerra, all'inizio del 1946 Luce si reca in Brasile, a Rio de Janeiro, in visita agli anarchici italiani Nello Garavini ed Emma Neri. Lì contrae, insieme a Nello, la malaria, rischiando seriamente di morire. Debilitata, Luce rientra a Montevideo, dove riesce a recuperare la salute.
Nel 1949 Luce ottiene la cattedra di Letteratura Italiana all'Università di Montevideo, che terrà fino al 1991, esclusa la parentesi di dittatura militare (1975-1985). Numerosi sono i suoi saggi pubblicati su Dante, Machiavelli e Leopardi.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, accanto all'insegnamento, Luce si dedica alla militanza nel movimento locale, pur non trascurando contatti con gli ambienti italiani e internazionali. In particolare s'impegna in un movimento pedagogico per la riforma autonomistica della scuola secondaria; Luce vive questa sua attività come parte integrante del suo concreto impegno politico in senso libertario, un impegno che la vede critica nei confronti della scelta della lotta armata. Dalla seconda metà degli anni Sessanta infatti in Uruguay si delinea un periodo di forte tensione interna, caratterizzata dalla lotta armata dei Tupamaros e dalla conseguente dura reazione della classe dirigente che porterà alla dittatura militare tra il 1975 e il 1985.
La sua posizione critica nei confronti dei Tupamaros e della Rivoluzione cubana del 1959, di cui Luce Fabbri denuncia la deriva autoritaria e antilibertaria, si inserisce in un'accesa discussione e polemica all'interno della Federazione anarchica uruguayana (Fau). Luce, trovandosi in minoranza su una questione per lei imprescindibile, lascia l'organizzazione con pochi altri compagni e fonda un proprio gruppo autonomo, il Grupo de Estudio y Accion Libertaria e la rivista “Opción libertaria”.
A partire dal 1985, con l'inizio del processo di democratizzazione dell'Uruguay, riprende la sua attività militante, a partire dalla riapertura di “Opción libertaria”. Riprende anche i contatti con l'Italia, diventando per esempio collaboratrice della rivista “A rivista anarchica” di Milano.
Nel 1993 Luce compie il suo ultimo viaggio in Europa, per prendere parte alla Esposiciòn internacional anarquista di Barcellona. L'intervento che legge al Convegno, Una utopìa para el siglo XXI, viene pubblicato sul n. 205 di “A rivista anarchica” e può essere inteso come il suo testamento spirituale. Approfittando del viaggio a Barcellona si reca per qualche settimana in Italia, e sarà per lei l'ultima volta che rivedrà il paese natale. Negli ultimi anni Luce si dedica alla scrittura della biografia del padre, Luigi Fabbri. Storia di un uomo libero, pubblicato nel 1996. Attiva sino agli ultimi giorni della sua vita, Luce Fabbri muore a Montevideo il 19 agosto 2000 nella sua casa, in J.J. Rousseau 3659.

Lorenzo Pezzica

Note

  1. Luce Fabbri, Socializzazione e libertà, “A Rivista Anarchica”, xxix, 1999, n. 255.
  2. Luce Fabbri, Obiezioni a una recensione, “Volontà”, 1952, n. 9, pp. 524-527.
  3. Pier Carlo Masini, Introduzione a Luce Fabbri, Luigi Fabbri. Storia d'un uomo libero, Bfs, Pisa 1996, p. 9.
  4. Sulla riflessione di Luce Fabbri sul tema del totalitarismo vedi Lorenzo Pezzica, La collaborazione di Luce Fabbri alla rivista Volontà (1946-1960), in Maurizio Antonioli, Roberto Giulianelli (a cura di), Da Fabriano a Montevideo. Luigi Fabbri: vita e idee di un intellettuale anarchico e antifascista, Bfs, Pisa 2006, pp. 223-234.
  5. Alessandro Dal Lago, La città perduta, introduzione a Hanna Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano 2004, p. X.
  6. Luigi Fabbri (1877-1935) è considerato uno dei pensatori più originali dell'anarchismo italiano. Nel 1903 fonda con Pietro Gori la rivista “Il Pensiero” alla quale collaborano i nomi di maggior rilievo dell'anarchismo internazionale. Nel 1921 pubblica Dittatura e Rivoluzione, prima opera critica sul bolscevismo, e nel 1922 La controrivoluzione preventiva, una delle analisi più complete sulla nascita del fascismo. Duramente perseguitato, espatria clandestinamente in Francia nel 1926, morendo esule a Montevideo.
  7. Osvaldo Bayer, Severino Di Giovanni. C'era una volta in America del Sud, Agenzia X, Milano 2011.
  8. Sinesio Baudilio García Fernández (1897-1983), noto con lo pseudonimo di Diego Abad de Santillán, è stato importante esponente dell'anarchismo argentino e spagnolo. Editore e scrittore, partecipa alla Guerra civile spagnola.
  9. Ugo Fedeli, Congressi e Convegni, Ed. fai, Genova 1963, pp. 43-68.
  10. “Volontà” è titolo malatestiano: era infatti il titolo dato da Errico Malatesta al suo giornale pubblicato ad Ancona tra il 1911 e il 1914, ma anche il titolo del giornale di Luigi Fabbri tra il 1919 e il 1920; nel 1924 infine Malatesta, con Fabbri, dà vita a “Pensiero e volontà” che uscirà fino al 1926. In effetti la rivista era stata preceduta da tre brevi esperienze giornalistiche: “La Rivoluzione libertaria”, “Risveglio libertario” e “Volontà” giornale. Oltre a Malatesta la rivista si richiamava fortemente anche al pensiero di Luigi Fabbri e a quello di Camillo Berneri. A partire dal 1946 “Volontà” uscirà quasi ininterrottamente fino al 1996. Dopo il 1996 “Volontà” è stata sostituita da una nuova iniziativa editoriale: la rivista “Libertaria”. Molti sono i collaboratori italiani e stranieri quali per esempio: Armando Borghi, Ugo Fedeli, Lamberto Borghi, Pier Carlo Masini, Luis Mercier Vega, Gaston Leval, Carlo Doglio, Albert Camus, George Woodcock.
  11. Cfr. Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria: democrazia, liberalismo, socialismo, anarchismo, RL, Napoli 1955.
  12. Enzo Traverso, Il totalitarismo: Storia di un dibattito, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. xii.
  13. Dopo avere forgiato il concetto negli anni Venti la cultura italiana si astenne dal discuterlo nel dopoguerra, fino a un'epoca recente. Percepito prima come un vocabolo irrimediabilmente contaminato dal fascismo, poi come una parola d'ordine anticomunista durante la Guerra fredda, il termine sarà a lungo messo al bando e coltivato da pochi spiriti anticonformisti. Per avere un'idea del ritardo con il quale questo dibattito è giunto in Italia, basti pensare che il libro della Arendt Le origini del totalitarismo viene tradotto in Italia solo nel 1967, sedici anni dopo l'edizione originale, così come Le origini della democrazia totalitaria di Jacob Talmon, tradotto anch'esso nel 1967. L'opera di Carl Joachim Friedrich e Zbignew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, del 1956 non è ancor oggi pubblicato, mentre occorre aspettare il 1997 per l'organizzazione, a livello universitario, del primo convegno italiano dedicato al tema del totalitarismo.
  14. Lelio Basso, Due totalitarismi: fascismo e democrazia cristiana, Garzanti, Milano 1951.
  15. Luce Fabbri, Sotto la minaccia totalitaria: democrazia, liberalismo, socialismo, anarchismo, RL, Napoli 1955, p. 40.
  16. Luce Fabbri, Camisas negras: estudio critico historico del origen y evolucion del fascismo, sus hechos y sus ideas, Buenos Aires 1934.
  17. Bruno Rizzi, Il collettivismo burocratico, Ed. Galeati, Imola 1967; Bruno Rizzi, La burocratizzazione del mondo, Colibrì, Paderno Dugnano 2002; James Burnham, La rivoluzione dei tecnici, Mondadori, Milano 1946; Id., I difensori della libertà, Mondadori, Milano 1947.
  18. Czeslaw Milosz, La mente prigioniera, Adelphi, Milano 1981.
  19. George Orwell, 1984, Mondadori, Milano 2004.


nota a margine

Il rischio:
un teatro delle pari opportunità

di Martina Guerrini

È questo il rischio che si corre nel mettere su di un piedistallo le “brave compagne” accanto ai “bravi compagni”.
Mentre le riflessioni critiche che ci servono ci interrogano su ben altri piani.


Il libro di Lorenzo Pezzica, Anarchiche. Donne ribelli del Novecento, può essere inserito nel filone di renaissance del protagonismo femminile dell'Otto e Novecento, uno “strano” caso di uscita dalla minorità dei cultural studies di genere che sembra letteralmente “scoppiato” in Italia negli ultimi anni, e sul quale sarà inevitabile soffermarsi.
Tuttavia questo interessante lavoro parte in vantaggio rispetto ad altre pubblicazioni, per la scelta di evidenziare le responsabilità politiche degli anarchici nell'aver emarginato il contributo femminile nella teoria e nella pratica antiautoritaria.
Scrive con parole essenziali Ida Farè nella bella prefazione al testo: “possiamo dire che queste donne hanno preso molto sul serio i proclami dei loro compagni di lotta, portando alle estreme conseguenze le loro istanze e ponendosi in modo critico rispetto al loro naturale e spesso inconsapevole maschilismo”.
Questa traccia interpretativa è assai utile per leggere non solo il libro di Pezzica, ma tanta parte della contemporanea rimozione del contributo delle compagne all'anarchia.
Se da una parte esiste un problema concreto e reale di sessismo nel movimento, non solo in Italia e da più parti è stato sollevato con forza, dall'altra è urgente fare i conti sia con la eleborazione storiografica sia con il metodo che si sceglie per indagare i motivi della presenza persistente della discriminazione di genere.
Mi chiedo se sia sufficiente, soprattutto da parte maschile, ri-scoprire le biografie femminili scontatamente rilevanti (Emma Goldman, per esempio, non è mai stata dimenticata dalle compagne anarchiche, come testimoniano le pubblicazioni curate dalle edizioni Bfs, La Fiaccola e Zero in Condotta), mentre non muta un metodo classificatorio secondo il quale alcune, più “notabili” di altre, meritino una rievocazione. Non è forse questo un approccio storiografico che ha privilegiato la mitizzazione di alcune figure fondative dell'anarchismo, favorendo una gerarchia indebita, e nella quale è stato largamente favorito il fantasma femminile? Era questo il sentire delle epoche così narrate? E come si spiega la considerazione nella quale Carlo Cafiero teneva Anna Kuliscioff, o la fiducia che Malatesta riponeva in Maria Luisa Minguzzi, detta “Gigia”, che a Firenze ebbe un ruolo essenziale nella nascita del movimento femminile italiano e dell'Internazionale, o in Elena Melli, capace di sostituirlo in un comizio degli Arditi del Popolo a Roma? Siamo davvero sicuri che questa gerarchia della fondazione sia priva di conseguenze, sia sul piano di genere, che in quello più ampio della corretta ricostruzione storica?
Più volte ho avuto l'impressione – confesso che mi è stata talvolta suggerita da ricercatori storici del movimento, ad esempio l'amico Gigi Di Lembo – che nei primi anni del Novecento vi fosse una diversa messa in questione della relazione mista della militanza. Sfogliando le pagine dei giornali livornesi come Il Seme o il Sempre Avanti!, ad esempio, fin dai primi anni del secolo passato possono leggersi interventi ben più anticonformisti e avanzati rispetto a quanto la controriforma del dopoguerra permetteva sulla relazione tra i sessi, sul problema dell'autonomia delle donne e dell'eguaglianza (che niente aveva a che vedere, è bene chiarirlo una volta per tutte, con quella formale sostenuta dalla sinistra comunista e socialista).

Altri linguaggi, altri soggetti
L'epoca precedente al fascismo e, soprattutto, alla restaurazione repubblicana parlava altri linguaggi e altri soggetti avevano voce e ascolto. Eppure questa storia appartiene all'anarchismo tanto quanto le esperienze e le vicende dei vari Malatesta, Cafiero, Fabbri ecc... perché essi stessi respiravano e si formavano in quelle medesime discussioni.
Esiste tuttavia anche un problema rispetto all'analisi urgente di questa rimozione e oblio. La tendenza diffusa, se non fraintendo, mi pare quella di utilizzare il paradigma femminista-marxista del cosiddetto “sospetto epistemologico”, ovvero analizzare il sessismo del movimento anarchico ricercando le eventuali impostazioni sessiste del pensiero dei Padri fondatori, esacerbando la stortura storiografica,
Dunque può essere sufficiente questo approccio analitico per capire quel che è accaduto?
È proprio perché occorre aggredire il nodo che tiene insieme le discriminazioni che percorrono la nostra storia recente e contemporanea, che dobbiamo scegliere opportunamente i nostri più utili strumenti, evitando facili scorciatoie che spesso si rivelano come la conseguenza dell'assenza di una autonoma riflessione e pratica su questi temi, in particolare sulla questione di genere. Senza contare che un sano dubbio epistemologico dovrebbe al contrario coglierci di fronte al dominante fiorire di parole e pensieri su tale problema, indicato sempre e soltanto come il nesso tra donne e potere e la loro esclusione storica dalle istituzioni.
Se esistono caratteri comuni capaci di legare indissolubilmente femminismo e anarchia, metodo ed esperienza occupano un ruolo indispensabile e prioritario. Se donne e uomini, nel movimento anarchico, hanno sfidato oppressioni intrecciate di vario ordine, e se le loro biografie parlano di questo, non sono forse tanto i loro nomi e cognomi che dobbiamo ricordare e mettere su di un piedistallo, quanto cogliere nella loro esperienza elementi utili a comprendere e modificare l'esistente.

In Turchia come in Spagna
En passant, mettere su di un piedistallo un'idea, oltre che una persona, è un modo per sterilizzarla, pulirne le imperfezioni, dimenticando che spesso – nel tempo – quelle stesse imperfezioni germogliano nuovi fiori, più resistenti e consapevoli. Se per le terribili convinzioni misogine di Camillo Berneri sulle relazioni tra i sessi oggi il movimento anarchico è capace di provare insofferenza, pur senza proporre un autonomo dibattito antisessista, è forse perché la storiografia che abbiamo ereditato non è stata capace di far saltare il metodo, il cuore dell'anarchismo.
Un metodo che ha offerto, come evidenzia Ida Farè nella ricostruzione degli eterni ritorni delle lotte femministe, “percorsi intricati”, “astuzie” “spesso all'ombra del potere patriarcale, per esprimere (...) la nostra ancora lontana libertà”. Pensiamo al fatto, emergente anche nel testo di Lorenzo Pezzica, che un numero non irrilevante di anarchiche erano individualiste. Un caso? Può darsi. Resta il fatto che il metodo anarchico offre molte vie di fuga a chi si sente stretto tra i compagni di viaggio.
Queste riflessioni hanno guidato la mia lettura di Anarchiche, nel tentativo di allontanare la tentazione di mettere sullo stesso piedistallo altrettante figure femminili, con il rischio di allestire un brutto teatro delle pari opportunità del quale possiamo fare a meno, ed evitando di sospirare malinconicamente sulla odierna mancanza di figure così epiche, mentre molte, troppe compagne finiscono in galera lottando contro il Tav, o si difendono coraggiosamente contro un compagno oppressore e l'immancabile omertà/complicità maschile del centro sociale o circolo politico nel quale militano.
Mentre sospiriamo, migliaia di persone con lingue diverse e calpestando piazze diverse insorgono in Africa, in Grecia, in Turchia come in Spagna. E le bandiere, se stringiamo gli occhi per la messa a fuoco, dalla Valsusa fino ad oriente sono spesso nere e parlano di metodo ed esperienza.

Martina Guerrini