rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014




Azzardopatia,
non ludopatia

Con un giro d'affari da 87 miliardi di euro nel 2012, l'Italia è il paese europeo che spende più denaro nel gioco d'azzardo. Il 12 per cento dei consumi delle famiglie italiane sono dedicati all'azzardo, cifra che secondo la Coldiretti corrisponde al 70 per cento della spesa in beni alimentari.
Più della metà degli introiti dell'azzardo viene dalle slot machine, 400mila “macchinette” sparse nelle sale giochi, nei tabaccai e nei bar di tutto il paese. C'è chi gioca solo l'euro di resto che gli dà il barista, e c'è chi dopo quell'euro non si riesce a fermare. Si stima che in Italia i giocatori patologici siano circa 800mila, e che siano tre milioni le persone a rischio.
Le conseguenze sociali della crescita del settore – che dalla liberalizzazione del decennio scorso ha registrato un'impennata del 500 per cento – sono disastrose e, mentre le mafie e lo stato incassano gli utili, i comuni devono occuparsi del recupero dei giocatori patologici.
L'azzardo è la dipendenza più in auge al giorno d'oggi“, spiega ad A rivista Simone Feder, psicologo e coordinatore dell'Area giovani e dipendenze della comunità Casa del giovane di Pavia. “La ludopatia è una malattia che io non riconosco, perché è l'azzardo ad ammalare, non il gioco. Non dobbiamo parlare di ludopatia ma di azzardopatia o meglio, come si dice a livello internazionale, gioco d'azzardo patologico. È una malattia che colpisce sempre più persone ed è una dipendenza da un comportamento che è molto reiterato, quindi è ossessivo-compulsivo”.
Questa caratteristica è ben nota a chi lucra sugli “azzardopati”, e non è un caso se i tempi di giocata delle slot machine sono stati velocizzati. “Una slot machine fa un giro ogni quattro secondi: ogni quattro secondi si mangia un euro. Fai conto quanti secondi ci sono in un minuto, quanti minuti ci sono in un'ora e quante ore in una giornata”, racconta un “giocatore anonimo”.
I Giocatori anonimi sono gruppi di auto-aiuto presenti in molte città italiane. É un'associazione che si autofinanzia e che ha come unico requisito per entrarne a far parte il desiderio di smettere di giocare. Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni suoi membri:
Prima testimonianza: Io ho giocato per sette anni circa e mi sono rovinato, economicamente e affettivamente, correndo il rischio di perdere la mia famiglia. Non ero più una persona ma un mollusco, così ho deciso di andare al Sert (Servizi per le tossicodipendenze) dove mi hanno detto che non esistono medicine per la mia malattia, e mi hanno suggerito di recarmi a Giocatori anonimi.
Nella prima riunione ho capito e accettato di essere malato. Da allora, giorno dopo giorno, sto vincendo le mie battaglie che sono giornaliere, perché se mi metto in guerra col gioco, quello vince. Ogni giorno mi dico “oggi non devo giocare” e fortunatamente fino a ora non l'ho fatto, anche se mi piacerebbe. L'azzardo è sempre una porta socchiusa, non è mai chiusa del tutto, se gioco un euro ne gioco due, poi cinque e così via. Un ragazzo durante una delle ultime riunioni di Giocatori anonimi ha detto una cosa vera: “al gioco vince chi non gioca”.
In che modo mi sono avvicinato alle slot machine non lo so. Inizi buttando due euro nella macchinetta per vedere cosa succede e senza accorgertene ci metti dentro somme sempre più rilevanti, fino al punto in cui pensi solo a giocare, non ti interessa la famiglia, non ti interessa la tua vita, non ti interessa niente. A un certo punto mi son trovato a passare quattordici ore al giorno davanti alla slot machine: mi svegliavo di notte pensando alla macchinetta, il mattino mi svegliavo alle cinque per uscire di casa ed essere il primo davanti al locale per giocare, non mi rendevo conto di essere malato. Io arrivavo al punto che se la macchinetta mi dava dei soldi li rimettevo dentro, li perdevo e poi mettevo quelli che mi ero portato dietro, e così via.
Il problema è la facilità con cui si può accedere alle slot machine: entri in un tabacchino e c'è una slot machine, entri nel bar e nel retro c'è la slot. È stato questo proliferare che mi ha fregato, perché molto probabilmente non sarei mai entrato in una sala giochi apposta per giocare con le slot. Nel retro del bar in cui giocavo c'erano sette macchinette, roba da arrivare alla fine del pomeriggio con giramenti di testa e nausea. Ci sbattevano fuori dal bar perché dovevano chiudere e fare pulizie, ci venivano a lavare i pavimenti sui piedi. Tra noi ci dicevamo: “Tu quanto hai perso?”. “Duecentocinquanta euro”. “Ah, io 600”. Come se chi avesse perso di più fosse il più forte.
Io che sono un compulsivo di slot avevo un rapporto diretto con la macchinetta: quella macchinetta era la mia, di conseguenza ci dovevo giocare io; ecco perché alle 5 del mattino ero davanti al bar aspettando che aprisse. Non riesco a capire come si prenda questa malattia, so solo che in un certo momento sono diventato giocatore compulsivo.
Seconda testimonianza: Il gioco è sempre stato una parte della mia vita: all'età di otto anni ero in montagna a giocare a poker con gli amici di mio fratello che ne avevano quattordici, e ho perso una cifra di sei-sette milioni di lire senza neanche rendermi conto di cosa stavo facendo. Non ho mai potuto fare a meno di giocare, non mi potevo tirare indietro di fronte a qualsiasi cosa inerente a una scommessa e all'azzardo, e mi piaceva.
Arrivi a un punto in cui non ti interessa di vincere o perdere, ma solo di giocare e avere l'adrenalina del gioco: una volta al casinò di San Remo in un'ora e mezza ho vinto circa sedici milioni di lire, ma mi sono sentito più soddisfatto quando li ho persi tutti nel giro di un'ora e mezza, oltre a perdere tutti i soldi che mi ero portato dietro.
Poi ho iniziato ad avere gli attacchi di panico, mia moglie era incinta del secondo figlio e io avevo gli attacchi di panico perché non avevo il coraggio di dirglielo.
La mattina dopo la mia prima riunione di Giocatori anonimi, per la prima volta dopo anni, mi sono guardato allo specchio senza vergognarmi perché avevo fatto ventiquattro ore senza giocare. Dal 2003 ho staccato il gioco dalla mia vita ed è una cosa fantastica perché io vivevo per il gioco, pensavo per il gioco.
Terza testimonianza: Nell'ultimo anno ho giocato moltissimo. Psicologicamente ero distrutto e ho parlato con mia moglie perché non ce la facevo più, dormivo due-tre ore per notte, mi alzavo e vomitavo, stavo proprio male fisicamente e lei ha cercato di tenere in piedi la baracca. Abbiamo trovato su internet Giocatori anonimi; dopo nemmeno tanto che andavo lì riuscivo a guardarmi allo specchio. Psicologicamente mi sento meglio, anche se ho ancora dei problemi: a volte sento un'angoscia che mi viene da dentro, è proprio un dolore fisico che ho.

Orsetta Bellani



Argentina e Cile/
Multinazionali e stati contro i mapuche

Il popolo mapuche detiene un vero record di “resistenza”, per lo meno in termini di durata temporale. Già oltre cinquecento anni fa si trovò a dover fronteggiare le mire espansionistiche del popolo Inca; poi arrivarono gli spagnoli e la questione cominciò a farsi seria. I Mapuche fronteggiarono fieramente gli invasori, il capo guerriero Lautaro riuscì anche a guidare il suo popolo a qualche gloriosa vittoria, però i Mapuche capirono presto che gli uomini bianchi avevano una particolare “venerazione” per l'oro e l'argento. Così decisero di buon grado di rinunciare alla lavorazione di questi metalli e soprattutto (per non rischiare) si spinsero sempre più giù nell'America Latina, verso terre deserte e latitudini ostili, sperando che nessun altro venisse fin laggiù a molestarli.
I problemi ricominciarono quando arrivò lo stato (chissà quanti anni son dovuti passare prima che i Mapuche capissero cos'è uno stato...). Lo stato argentino cominciò sul finire dell'ottocento la gloriosa campagna militare denominata “Conquista del deserto”: già dal nome si evince la grande umanità dei burocrati argentini, che evidentemente consideravano le persone che abitavano da centinaia di anni quelle terre al pari di puma e condor. Lo stato cileno non volle essere da meno e si affrettò a conquistare anch'esso la propria fetta di torta prima che gli venisse rubata da altri.
La resistenza del popolo mapuche contro lo stato (argentino e cileno) va avanti ancora oggi. Però, dopo “scocciature” come la Carta dei diritti umani e la rinnovata attenzione nei confronti dei popoli selvaggi, per lo stato si faceva dura continuare a maltrattare e condannare alla miseria i Mapuche. Per fortuna presto il mondo cominciò a farsi più piccolo e l'economia industriale iniziò a crescere a livelli esponenziali, così lo stato trovò dei nuovi alleati: le multinazionali.
Il piano era questo: lo stato vendeva a queste entità astratte piene di soldi il deserto che aveva conquistato. Lo stato si prendeva i soldi e le multinazionali si prendevano le terre e entrambi avevano di che essere soddisfatti: quello che si chiama un buon affare. Il fatto che queste terre fossero abitate da indigeni già prima dell'arrivo dello stato è solo un dettaglio, e d'altra parte non è certo colpa dello stato se gli stessi Mapuche dicono che quelle terre non gli appartengono, che sono invece loro, “la gente della terra”, ad appartenere ad esse.
Tra le multinazionali che hanno messo a segno questo “buon affare”, c'è la Benetton, che ha comprato dallo stato argentino un'estensione di terreno paragonabile alla superficie dell'Italia. La notizia ha trovato un certa diffusione anche in Italia, specialmente tra i mezzi di informazione “antagonisti” (compresa la rivista “A”) anche se, a livello mediatico, la sua eco non è stata nemmeno comparabile a quella suscitata dagli “scandalosi” cartelloni pubblicitari del creativo e illuminato Benetton, l'industriale di successo di cui l'Italia in crisi dovrebbe andare fiera. Ma non bisogna sottovalutare la complicità ancor più grave dello stato argentino (o cileno, perché dall'altra parte della cordigliera non c'è Benetton, ma lo schema è il medesimo).
Ci troviamo nella Patagonia del Nord, provincia del Chubut. Atilio, dopo una vita a lavorare in fabbrica, ha deciso di andare a vivere con sua moglie e i suoi figli sul terreno dove vivevano i suoi antenati. È nata così la comunità mapuche Santa Rosa Leleque (vedi “A” 382, p. 101).
Atilio ha costruito la sua ruka (casa mapuche), coltiva la terra e alleva galline, pecore e cavalli. Peccato che il terreno risulti di proprietà di Benetton e la stessa comunità sia pertanto considerata non solo illegittima ma criminale. La Benetton decide di far costruire a fianco della comunità Santa Rosa un museo del popolo mapuche. Un amaro contentino che ha quasi il sapore della beffa ma che è molto utile a gettare fumo negli occhi dell'opinione pubblica.
La repressione dello stato argentino verso i Mapuche è molto più fine e subdola rispetto alla tattica adottata sul versante cileno. Lo stato argentino segue una strategia sottile, combattendo una battaglia soprattutto culturale. La conseguenza di questa battaglia è che, sebbene molti degli abitanti della Patagonia argentina siano mapuche o di origini mapuche, soltanto pochi di loro si ritengono e si dichiarano tali. Addirittura molti espongono fuori dalle loro case la bandiera argentina, come a dire che non vogliono avere niente a che fare con le loro origini indigene. Questo perché ormai, per l'opinione comune, se si parla mapudungun, se si studia e pratica la cultura mapuche, c'è il rischio di passare per cittadini di grado inferiore, anche se permangono, soprattutto tra i giovani, persone che di fronte alle loro case espongono con orgoglio la bandiera mapuche, che vanno alle manifestazioni e che partecipano alle cerimonie e agli incontri mapuche.

Michele Salsi

Per saperne di più:

  • Associazione Ya Basta – Onlus (yabasta.it)
  • Asociación Mapu, associazione spagnola di base a Esquel (asociacionmapu.org)
  • Comunidad Santa Rosa (santarosarecuperada.com.ar), sito della comunità di Santa Rosa Leleque, anche in italiano
  • Il documentario Los colores de la discordia è reperibile in lingua originale su YouTube