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				 Tibet 
                  
                Fiamme nella notte delle coscienze 
                  
                testo e foto di Giulio Spiazzi 
                    
                Negli ultimi anni 122 persone si sono date fuoco, quasi tutte in Tibet, per protesta contro l'occupazione militare cinese e il genocidio  non solo culturale dell'antico “popolo delle nevi”. 
In un documento, alcuni di loro controbattono alle critiche di chi contesta questi gesti di “auto-immolazione”. 
 
                
                   
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                    |   Dharamshala, India del Nord. Resistere alla censura:  profuga 
                  tibetana manifesta imbavagliata contro  la disinformazione sulla questione tibetana  | 
                   
                 
                 Durante il viaggio che intrapresi 
                  nel 2008 in Himachal Pradesh, nel nord dell'India, mi recai 
                  a Dharamsala e a McLeod Ganj, sede del governo tibetano in esilio. 
                  Si approssimava l'apertura dei Giochi olimpici di Pechino e 
                  molte voci, da quelle di donne comuni e uomini della strada 
                  a quelle delle alte rappresentanze dell'entourage di Tenzin 
                  Gyatso, XIV Dalai Lama, affermavano, in qualche modo “profeticamente”, 
                  che, dopo i fasti e i luccichii dei suddetti “Giochi”, 
                  si sarebbero lentamente e inesorabilmente spenti i riflettori 
                  internazionali sulla crisi tibetana e sul Tibet come terra occupata 
                  militarmente da ormai sessant'anni. Si avrebbe dunque dato inizio 
                  gradualmente (da parte degli organi di sicurezza cinesi) a una 
                  nuova, feroce, silenziosa campagna di repressione e atrocità 
                  nei confronti dei tibetani che non hanno intenzione di “normalizzarsi” 
                  (per usare un termine in voga nei paesi dell'Est durante la 
                  guerra fredda) e del residuo di aspetti della tradizione tibetana 
                  realmente autentica, oggigiorno già irrimediabilmente 
                  compromessi e fisicamente devastati da quello che è, 
                  a tutti gli effetti, un “genocidio culturale pianificato”. 
                
                   
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                    |   India 
                        del Nord, membro del Tibetan Women Association,  
                        primo movimento di resistenza all'occupazione del Tibet, 
                         
                        durante un comizio a Dharamshala  | 
                   
                 
                 Spariti i grandi media anglosassoni, detentori del “verbo 
                  dell'informazione mondiale”, abbandonati i podi dagli 
                  atleti di nazioni che hanno visto, in quella occasione, la possibilità 
                  di legarsi ulteriormente e supinamente ai nuovi padroni dell'economia 
                  globale, la Cina, ha ripreso con veemenza e capillarità 
                  l'azione di annientamento dell'entità storico-culturale 
                  Tibet. In primo luogo impegnando le migliori risorse economiche 
                  e tecniche in ciclopiche opere strutturali (strade, ferrovie, 
                  smembramento della capitale Lhasa e ricostruzione in stile cinese 
                  contemporaneo della stessa, impianti minerari, dighe, programmi 
                  di “sedentarizzazione forzata” dei nomadi in atipici 
                  blocchi edili urbani); e poi investendo in vere e proprie “migrazioni 
                  coloniali” di personale han (l'etnia cinese dominante: 
                  7,5 milioni di nuovi residenti cinesi contro i già presunti 
                  6 milioni di storici abitanti tibetani). 
                  Poderoso è anche il rafforzamento degli apparati polizieschi 
                  e militari con intenti bellici: estesa costruzione di caserme, 
                  baraccamenti, laogai (o campi di lavoro per dissidenti 
                  locali), basi missilistiche con vettori in grado di trasportare 
                  testate nucleari, creazione di discariche radioattive con danni 
                  ambientali incalcolabili, disboscamenti selvaggi in aree vergini 
                  per la mimetizzazione di bunker, siti di lancio e poligoni. 
                  E ancora: avvio di opere di vero e proprio riposizionamento 
                  strategico della zona himalayana attraverso “politiche 
                  del fatto compiuto”, con il rafforzamento dell'aiuto militare 
                  allo storico alleato Pakistan, l'appoggio alla destabilizzazione 
                  e “ri-stabilizzazione” in chiave filo cinese del 
                  Nepal (ove oggigiorno i profughi tibetani hanno vita controllata 
                  e, per le loro manifestazioni di solidarietà o contestazione, 
                  durissima: il che vuol dire, pestaggi, scioglimento con la forza 
                  di manifestazioni non violente, arresti, occultamenti di cadaveri, 
                  ecc.), l'aperta sfida con la vicina India, punteggiata da sconfinamenti 
                  di interi reparti dell'esercito popolare nel Ladakh, da tiri 
                  di artiglieria pesante nell'Arunachal Pradesh, e non ultimo 
                  il sostegno velenoso e sommerso alle insurrezioni “maoiste”, 
                  in corso in svariati stati e regioni del sub continente indiano 
                  (che comunque hanno le loro logiche endemiche e territoriali 
                  sensate, non in grado di essere approfondite in questa sede 
                  e in questo contesto). 
                  Ben cinque anni sono passati da quell'8 agosto del 2008, giorno 
                  appunto dell'apertura dei famigerati giochi olimpici di Beijing, 
                  e tutte queste nefaste previsioni si sono realizzate e si stanno 
                  sistematicamente, ancor oggi, concretizzando, nell'assoluta 
                  indifferenza manifestata della cosiddetta comunità internazionale. 
                  Già da allora, (e addirittura dieci anni prima, nell'aprile 
                  del 1998) si andava diffondendo proprio in India, sull'onda 
                  di una serie di “scioperi della fame” indetti da 
                  militanti tibetani, un fenomeno di opposizione estrema al “vuoto 
                  assoluto delle coscienze internazionali sull'annientamento del 
                  'paese delle nevi'”: il “cammino delle auto-immolazioni 
                  (self immolations)”, che diede inizio a una nuova, 
                  terribile fase del contenzioso Tibet-Cina. 
                  Questo metodo suicida di lotta, che non provoca danni effettivi 
                  se non per chi lo pratica direttamente (una differenza sostanziale 
                  rispetto alle pratiche dei cosiddetti – impropriamente 
                  – “kamikaze” stragisti), rasenta i confini 
                  della disperazione cosmica da un lato e del sacrificio 
                  pratico-simbolico determinato e coerente – il martirio 
                  assoluto – dall'altro. 
                  L'auto-immolazione col fuoco (che ha antecedenti storici antichissimi 
                  e che riguarda molti contesti di società umane del passato 
                  e contemporanee) sta coinvolgendo non solo il mondo dei monaci 
                  e dei religiosi in senso stretto, ma pure, e in maniera cospicua, 
                  tutte le fasce della società laica tibetana e tutte le 
                  età. 
				  
                
                
                   
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                    |   India 
                        del Nord, “Insorgere, resistere, ritornare”: 
                         
                        profughe tibetane lungo i sentieri del Daula Dhar  | 
                   
                 
                  
                   
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                    |   India 
                        del Nord, ritorno alla vita quotidiana dopo la fuga  
                        dal Tibet: laboratorio tessile autogestito da donne tibetane  | 
                   
                 
                Scarni resoconti 
                 Dal marzo del 2011, più di 100 persone (attualmente 
                  la cifra che ho a disposizione e che proviene da controlli incrociati 
                  con più fonti giornalistiche parla di 122 auto-immolazioni), 
                  si sono date alle fiamme, morendo in modo atroce, all'interno 
                  del Tibet e, in piccola quota, fuori dai suoi confini storici. 
                  Auto-immolazioni e proteste contro la politica oppressiva cinese 
                  si stanno diffondendo a macchia di leopardo in vastissime aree 
                  del “paese delle nevi”, anche in zone un tempo non 
                  interessate a fenomeni di opposizione politica. 
                  Considerate nel contesto di altre espressioni di dissenso particolarmente 
                  esplicite verificatesi a partire dal 1950 (ad esempio i moti 
                  insurrezionali di marzo 2008), le auto-immolazioni sottolineano 
                  come la crisi attualmente in corso in Tibet sia la più 
                  chiara ed estrema azione di rigetto che il popolo tibetano 
                  sta attuando nei confronti dell'ormai decennale occupazione 
                  militare e della strategia d'annientamento culturale effettuata 
                  contro il paese oltre-himalayano. 
                  Per molti questo metodo di resistenza risulta incomprensibile, 
                  ma le testimonianze scritte lasciate da coloro che hanno compiuto 
                  questo gesto estremo fanno riflettere. 
                  Questi scarni resoconti, tra i più svariati e differenti 
                  tra loro, appartengono a uomini e a donne comuni, a semplici 
                  monaci, a intellettuali e scrittori e, in un caso, anche a una 
                  riconosciuta personalità del sistema filosofico-spirituale 
                  del Buddhismo tibetano connesso alla reincarnazione, ovvero 
                  a un tulku (un reincarnato ufficialmente riconosciuto), 
                  morto con la sua giovane nipote nel rogo autoindotto della propria 
                  abitazione. 
                  Queste dichiarazioni aprono scorci sulle vite di semplici cittadini, 
                  impossibilitati dal regime a esporre e a venerare persino i 
                  simboli elementari della propria cultura e della propria spiritualità. 
                
                   
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                    |   Dharamshala, 
                        profughi civili tibetani e monaci  
                        in piazza contro la repressione in Tibet  | 
                   
                 
                Tante storie, lo stesso finale 
                 Le informazioni raccolte ci raccontano di giovani monaci diciottenni 
                  che si sono arsi vivi dopo aver svolto le funzioni del mattino, 
                  i cui corpi non sono stati più restituiti alle famiglie. 
                  Di una monaca auto-immolatasi al termine di una ricorrenza religiosa 
                  buddhista, morta tra atroci sofferenze tre giorni dopo l'accaduto, 
                  i cui genitori sono stati minacciati dalle autorità affinché 
                  non ottemperassero alle regole delle normali pratiche funerarie, 
                  mantenendo il silenzio sull'accaduto. 
                  E ancora, di un civile deceduto all'arrivo delle forze di sicurezza 
                  cinesi sul luogo dell'auto-immolazione, che nel suo testamento 
                  verbale lasciato a un amico, sosteneva l'impossibilità 
                  per i giovani tibetani di poter vivere sotto il regime d'apartheid 
                  instaurato da Pechino in Tibet e mantenuto in opera con la pratica 
                  della tortura e della repressione sistematica. 
                  E poi di due monaci di 20 e 23 anni, datisi assieme alle fiamme 
                  e morti all'entrata del loro monastero a Kirty; di una madre 
                  che si è arsa viva nello stesso luogo in cui, alcuni 
                  mesi prima, si era data alle fiamme un'altra donna, madre di 
                  quattro figli, il cui corpo è stato forzatamente cremato 
                  dalle autorità d'occupazione, nel medesimo giorno dell'accaduto, 
                  contrariamente a tutte le regole cultuali in materia di decesso 
                  e onoranze funebri della tradizione tibetana. 
                  Di un ventottenne, anch'egli monaco, ultimo di sette fratelli 
                  che si è auto-immolato nell'anonimo paese di Mogri, il 
                  cui corpo è stato cremato alla rinfusa nel vicino monastero 
                  per paura che le autorità prelevassero i poveri resti 
                  e li facessero sparire. 
                  Di un ragazzo che si è dato fuoco nel giorno del quinto 
                  anniversario dell'uccisione di tredici manifestanti non violenti, 
                  accaduta a Ngaba (Aba in cinese) nel marzo del 2008, pochi mesi 
                  prima dei su citati giochi olimpici. 
                  Del marito di una giovane donna tibetana che si era auto-immolata 
                  e che, convocato dalle autorità locali, ha ricevuto le 
                  ceneri della consorte cremata celermente dalle forze di sicurezza 
                  cinesi. Il marito è stato minacciato dalla polizia e 
                  indotto a dire che l'auto-immolazione era stata portata a termine 
                  dalla moglie a causa di “problemi di famiglia”. 
                  Il marito, rifiutatosi di dar credito e voce a questa versione 
                  ufficiale, è stato prontamente incarcerato. 
                  Di un ventisettenne che si è donato alle fiamme nello 
                  stesso luogo dove, l'8 dicembre dello scorso anno, il suo giovane 
                  cugino era morto nella medesima maniera. Il suo auto sacrificio 
                  è coinciso con le ultime disposizioni liturgiche dell'importante 
                  festa tibetana del Molam di fronte a centinaia di partecipanti. 
                  Le autorità hanno cercato sulle prime di recuperare velocemente 
                  il corpo, ma poi hanno rinunciato per evitare ulteriori problemi 
                  di ordine pubblico. 
                  Di due adolescenti datisi alle fiamme e morti sulla strada, 
                  nella township di Kyangtsa, senza che nessuno comprendesse i 
                  loro disperati slogan di protesta. 
                  Di un ragazzo di 17 anni che ha lasciato alcune righe scritte 
                  alla propria famiglia indirizzate ai “figli della terra 
                  delle nevi”, affinché “insorgano”. 
                  Poi, ingerita una sostanza altamente velenosa, si è recato 
                  nella strada principale della township di Shitsang con fiammiferi 
                  e tanica di benzina ed è stramazzato a terra morto, prima 
                  di dare atto ai suoi intenti, fulminato dal veleno. 
                  Di persone di varia età e provenienza sociale che si 
                  sono auto-immolate al grido, proibito in Tibet, di “lunga 
                  vita al Dalai Lama” e i cui corpi sono stati restituiti 
                  in cenere dalle autorità cinesi alle famiglie. Alcune 
                  di queste persone erano padri di famiglia con figli in tenera 
                  età. 
                  Di una ragazzina di 16 anni che, al suo quinto giorno di vacanza 
                  scolastica si è data alle fiamme gridando “lunga 
                  vita a sua santità il Dalai Lama, lunga vita al popolo 
                  tibetano!” Più di tremila compaesani si sono messi 
                  a disposizione apertamente, nonostante le minacce e le pressioni 
                  coercitive delle autorità, per onorare la sua cremazione. 
                  Dei cinque uomini e donne che si sono auto-immolati in un solo 
                  giorno, il 7 novembre del 2012, indipendentemente gli uni dagli 
                  altri, per protestare contro l'insostenibile situazione repressiva 
                  instaurata in Tibet, nell'imminenza dei lavori d'apertura del 
                  18° Congresso nazionale del Partito comunista cinese. 
                  Di una figura religiosa di spessore e di sua nipote ventitreenne, 
                  (come si accennava precedentemente) che, prima di immolarsi, 
                  telefonò ad alcuni parenti stretti dicendo: “Oggi 
                  mi sento sereno, pronto a terminare la mia vita offrendo lampade 
                  votive al burro per tutti quei tibetani che si sono dati alle 
                  fiamme per la causa del Tibet.” Subito dopo queste parole 
                  il religioso e sua nipote si sono consumati nelle fiamme della 
                  loro piccola abitazione di legno. 
                  Tulku Athup e sua nipote Atse erano ben conosciuti come strenui 
                  difensori della cultura e della religione tibetana, nonché 
                  instancabili avvocati dell'unità di tutti i tibetani. 
                  Le autorità cinesi, arrivate sul posto e circondati i 
                  resti della residenza del religioso, hanno subito creato un 
                  “cordone protettivo”, sciogliendo con la forza ogni 
                  tipo di assembramento di residenti tibetani, ferendone gravemente 
                  alcuni. Poco dopo, è stato diramato un comunicato ufficiale 
                  in cui si metteva in evidenza che i due decessi erano avvenuti 
                  per “cause accidentali”. Il religioso, riconosciuto 
                  dalle comunità tibetane come un reincarnato di lignaggio, 
                  era entrato in tenera età nel monastero di Lhakang Dragkhar, 
                  aveva successivamente studiato nell'importante monastero di 
                  Drepung a Lhasa e nel monastero di Kirty a Ngaba (Sichuan). 
                  Era stato primo abate del monastero di Dzamthang, nell'omonima 
                  contea, prefettura di Ngaba, centro di numerosissime auto-immolazioni 
                  di monaci, monache e civili. 
                
                   
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                    |   India 
                        del Nord, bambini tibetani profughi presso  
                        un centro di accoglienza oltre confine  | 
                   
                 
                  
                   
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                    |   India 
                        del Nord, centro accoglienza McLeod Ganji,  
                        disegni di bambini tibetani profughi:  
                        vincere le paure della realtà attraverso le immagini  | 
                   
                 
                Alcuni numeri 
                 Per cercare di dare alcuni numeri il più possibile 
                  precisi su ciò che si sta verificando in Tibet, considerando 
                  che il sistema di sicurezza cinese ha pesantemente inasprito 
                  le pene per chi dirama informazioni a riguardo, punendo duramente 
                  addirittura coloro che semplicemente e per puro caso si trovano 
                  a essere testimoni di una auto-immolazione in un luogo pubblico, 
                  i dati a disposizione, passati oltre la nuova “cortina 
                  di ferro”, dicono che: 
                  122 Tibetani si sono dati fuoco nella Repubblica Popolare Cinese 
                  dal 27 febbraio 2009. 
                  Di questi, 102 sono uomini e 19 sono donne. 
                  È stato accertato che, su 122 auto-immolati, 101 sono 
                  sicuramente morti in seguito alla protesta. 
                  24 avevano non più di 18 anni. 
                  41 dei 122 tibetani provengono da Ngaba e dalla Prefettura Autonoma 
                  di Qiang (Ciang), provincia di Sichuan. 
                  12 erano monaci del monastero di Kirti a Ngaba. 
                  10 erano ex monaci, sempre del monastero di Kirti a Ngaba (attualmente 
                  non si conosce chi di questi abbia lasciato i voti per propria 
                  volontà o se siano stati espulsi dalle autorità 
                  governative). Bisogna ricordarsi che le situazioni all'interno 
                  dei monasteri, divenuti ormai totalmente soggetti al controllo 
                  statale, sono paragonabili a quelle presenti nelle caserme o 
                  nelle stazioni di polizia, tante sono le infiltrazioni di personale 
                  “informatore” attuate sistematicamente nei luoghi 
                  di culto e di pratica religiosa dalle forze occupanti. 
                  2 dei 122 erano monache del convento Mamae Dechen Choekhorling 
                  di Ngaba. 
                  121 auto-immolazioni su 122 sono continuate (dopo il caso del 
                  2009), dal 16 Marzo del 2011. 
                  6 auto-immolazioni si sono verificate nelle terre dell'esilio. 
                
                   
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                    |   Civile tibetano scampato a una purga in Tibet  e riparato 
                  in India  | 
                   
                  
                
                   
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                    |   India del Nord, centro profughi McLeod Ganji,  ex detenuto 
                  politico mostra i segni delle torture subite  | 
                   
                 
                  
                   
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                    |   India del Nord, ragazze tibetane in lacrime  durante 
                  una veglia contro la repressione in Tibet  | 
                   
                 
                “Perché non dovremmo farlo?” 
                 C'è una missiva, ricevuta da un giovane studente tibetano 
                  rifugiato a Dharamsala, nel nord dell'India, che più 
                  di ogni altra spiega le profonde motivazioni di questo gesto. 
                  La lettera, redatta da un gruppo di studenti delle regioni orientali, 
                  educati alla cultura tibetana, ormai “marginale” 
                  nella stessa madrepatria, ribatte con educazione e determinazione 
                  alle argomentazioni dei giovani tibetani “dell'altra sponda”, 
                  cioè di coloro che vivono fuori dal Tibet, e che non 
                  possono dunque comprendere appieno il clima di terrore e smarrimento 
                  che si vive realmente nel “paese delle nevi”. 
                  Il testo, arrivato a destinazione nel luglio del 2012, dopo 
                  che in Tibet si erano verificate tutta una serie di operazioni 
                  estremamente violente, portate a termine dai militari e dai 
                  tribunali cinesi contro parenti, amici, conoscenti e monaci 
                  prossimi ai compagni auto-immolatisi, si apre con queste parole: 
                  (Lettera di un ragazzo del Kham); 
                  “Quando i Tibetani esiliati ci raccomandano di salvaguardare 
                  le nostre vite e di non donarle al fuoco, noi comprendiamo benissimo 
                  ciò che voi e il Dalai Lama, che noi rispettiamo e adoriamo 
                  più di nostra madre e di nostro padre, intendete, ma 
                  è facile per voi intimarci di non morire, ma diteci allora 
                  anche perché noi non lo dovremmo fare. 
                  (...) Se noi protestiamo, veniamo gettati subito in prigione, 
                  dove siamo maltrattati, torturati, fatti ammalare finché 
                  stremati non moriamo di stenti programmati dai nostri carcerieri. 
                  Noi preferiamo morire per la libertà, per mezzo delle 
                  nostre mani e scegliendo noi il momento di farlo. (...) 
                  Ogni giorno della nostra vita la passiamo a contatto con la 
                  Cina, con il suo sistema, e sappiamo dunque cosa voglia dire 
                  trattare con le istituzioni e con le autorità cinesi. 
                  Vediamo anche come la Comunità internazionale si rapporta 
                  con la Cina e come, purtroppo, non sia in grado di comprendere 
                  le sottili capacità della leadership cinese nel raggiungere 
                  i propri fini e obiettivi, al di là di tutto e di tutti. 
                  (...) La gente in Tibet è pronta a morire. Comprendiamo 
                  che il Dalai Lama non voglia che avvengano le self immolations, 
                  ma la gente del Tibet sta morendo a causa di come vive 
                  all'interno del suo paese occupato e, sotto ogni aspetto, colonizzato. 
                  E così, vi vogliamo ora illustrare perché 
                  si stanno verificando le auto-immolazioni.” 
                  La nostra lingua è sotto costante minaccia d'estinzione. 
                  Non abbiamo alcun diritto di impararla, di studiarla. 
                  Ai tibetani non è permesso esprimere la loro specifica 
                  identità culturale, anche in maniera semplice come talvolta 
                  indossare i nostri vestiti tradizionali. 
                  Alla figura internazionalmente più nota del Tibet, il 
                  XIV Dalai Lama, non è permesso rientrare in patria. 
                  Anche se studiamo tanto e otteniamo una buona conoscenza delle 
                  materie, non possiamo trovare buoni lavori dopo l'università 
                  e questo è dovuto alla competizione con i cinesi, che 
                  sono meglio qualificati di noi, hanno la lingua mandarino, cioè 
                  la lingua ufficiale, dalla loro parte, come lingua-madre, e 
                  beneficiano di molti più diritti rispetto a noi tibetani. 
                  Non abbiamo alcun diritto di esprimere i nostri sentimenti, 
                  per mezzo di scritti, conversazioni, in pubblico e in privato. 
                  Non abbiamo libertà di movimento. Per esempio, anche 
                  se una nostra sorella si marita con qualcuno del villaggio accanto, 
                  noi non possiamo spostarci per assistere alla cerimonia se non 
                  abbiamo i documenti appropriati, e spesso questi permessi non 
                  vengono intenzionalmente rilasciati. 
                  Non possiamo recarci in pellegrinaggio a Lhasa. 
                  La nostra terra, il nostro prezioso sistema ambientale, è 
                  sottoposto a una inesorabile, costante distruzione. Le nostre 
                  sconfinate praterie vengono sistematicamente degradate, i nomadi 
                  non sono più liberi di girovagare e di perpetuare i loro 
                  ritmi sostenibili di vita. Ci sono progetti cinesi di miniere 
                  ovunque. Saccheggiano le nostre piante rare, la nostra famosa 
                  medicina tibetana, e la trasformano in uno dei tanti prodotti 
                  commerciali. 
                  A causa di ciò che sta capitando alla nostra terra, molta 
                  gente non ha di che mangiare. Le loro proprietà sono 
                  state confiscate e i compensi non sono ancora stati elargiti 
                  per questi espropri o, se sono stati dati, non sono sufficienti 
                  per permettere loro di vivere. 
                  L'esercito di liberazione nazionale cinese e le loro truppe 
                  hanno creato un clima di terrore nella popolazione tibetana 
                  e, la loro presenza è ovunque. 
                  Se siamo “nel posto sbagliato nel momento sbagliato” 
                  mentre camminiamo in una strada qualunque, senza fare alcunché 
                  di male, possiamo essere indiscriminatamente oggetto di bersaglio, 
                  catturati e sbattuti in prigione, e in quel caso sappiamo che 
                  difficilmente ne usciremo vivi. 
                  Questo lo “stile di vita” che viviamo, ogni 
                  giorno, ogni secondo. La gente comune non è più 
                  in grado di sopportare queste cose ma, allo stesso tempo, sa 
                  che una soluzione non arriverà mai dall'esterno. Questi 
                  sono i motivi per cui si manifestano e continueranno con regolarità 
                  e lucida determinazione le auto-immolazioni.
                  Giulio Spiazzi 
                  giuliospiazzi@gmail.com
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