rivista anarchica
anno 43 n. 385
dicembre 2013 - gennaio 2014


uomini in vendita

Storia (a lieto fine?)
di uno schiavo contemporaneo

di Moreno Paulon


Dall'Indonesia alla Malesia, dalla promessa di un futuro migliore allo sfruttamento nei campi di lavoro. È la storia di Nuryadi, uno dei tanti “dannati della terra”, uno dei pochi che sono riusciti a tornare a casa.

Le informazioni sono lacunose, ma grosso modo è andata così: in una mattina di afa e zanzare, nell'entroterra dell'isola di Lombok, una sorta di agente, un intermediario, un faccendiere del diavolo è arrivato alle porte del villaggio. Un villaggio rurale di polli vaganti, di vestiti scoloriti appesi alla porta della stalla, di sentieri stretti e sterrati che si snodano sottili come crinali di montagne tra i campi coltivati. Un villaggio decentrato come ce ne sono molti nell'arcipelago indonesiano, fatto di poche famiglie, di case leggere con pareti intrecciate di bambù e tetti di foglie di palma. I bambini correvano scalzi fra le capre e sollevavano urla di gioco e polveroni; le donne pazienti all'ombra di enormi copricapo stavano smistando il raccolto e un'anziana in disparte succhiava una manciata di tabacco, osservando la scena senza capirci un gran che.
La presenza del forestiero metteva un po' tutti in soggezione: aveva le scarpe ai piedi e un orologio luccicante al polso, era uno che sapeva il fatto suo, uno certamente in grado di leggere e di scrivere. Fu accolto con precipitosa ospitalità all'ombra della bruga, la tradizionale capanna d'accoglienza domestica rialzata dal terreno, e parlò direttamente al giovane capofamiglia: Nuryadi. Si informò rapidamente sulle condizioni del parentado e poi disse qualcosa sulle possibilità di un futuro migliore, su certe occasioni che aveva sotto mano; fece capire che si poteva guadagnare qualche bel soldo con un lavoro all'estero, dove le cose erano diverse in economia. Certo c'era da adattarsi, il lavoro era impegnativo, ma si trattava di un sacrificio temporaneo e Nuryadi gli sembrava un uomo forte. Non lo era? Certo che lo era, e si vedeva che la buona volontà non gli mancava. Meritava di più, era uno in gamba, come non notarlo. Si capisce che un lavoro all'estero, per una grande compagnia già avviata e tutto, non capitava tutti i giorni. Lui in veste intermediario si sarebbe occupato di ogni cosa, avrebbe organizzato il trasferimento aereo, ottenuto i visti, pianificato la permanenza, preso i dovuti accordi con il padrone dell'azienda che offriva il lavoro. Non era neanche necessario saper leggere e scrivere, avrebbe fatto tutto lui, nessun disturbo.
Naturalmente c'era da affrontare l'investimento iniziale per il passaporto, per l'aereo e il visto, bisognava fare tutto secondo la legge per non avere rogne, e l'azienda non poteva certo investire alla cieca pagando aerei e documenti così sulla fiducia col rischio di trovarsi sul groppone un cattivo lavoratore. Ma se Nuryadi era un uomo serio e valido come sembrava, se la sua famiglia avesse voluto sostenerlo per l'inizio, con il suo guadagno poi si sarebbe ammortizzato tutto. L'agente parlava così e a tratti sorseggiava il tè servito dalla giovanissima moglie di Nuryadi. A dirla franca Nuryadi non fremeva dalla smania di andarsene di casa, di lasciare così d'un tratto la sua vita, le bestie, il villaggio e soprattutto sua moglie da sola; ma lui e la sua compagna avevano una figlia in arrivo e urgente bisogno di soldi per tirarla su.
Il lavoro all'estero sembrava capitare proprio al bisogno. Nuryadi fa parte di una famiglia allargata di 22 membri, tutti analfabeti, di quelli che non hanno mai messo piede in un'aula di scuola perché fino a vent'anni fa non ne esistevano in paese, di quelli che addirittura mettono la X dove gli dicono di metterla quando c'è da firmare una dichiarazione e sanno a malapena far di conto. Con le poche carte che aveva in mano, nel suo villaggio c'era poco da fantasticare glorie: i piedi ammollo nei campi di riso, la stalla, all'occasione qualche lavoro edile sottopagato da rompere la schiena, oppure fare il facchino sul monte Rinjani, caricandosi in spalla i carichi dei turisti occidentali che fanno trekking, anticipandoli di corsa sul percorso per fargli trovare tutto bello e pronto sulla cima insieme a un piatto caldo. Quest'ultimo era il lavoro di Nuryadi, un lavoraccio che si può fare finché si è giovani e forti, ma poi? Cosa succede quando i turisti eccitati, riposati e con zaini alleggeriti vanno su più veloce di te? Chi la cresce la bambina?
L'agente posava il bicchiere e ragionava ancora sul futuro: con un po' di soldi da parte si può cambiare la vita, magari non per noi certo, ma per i nostri figli sì, li si può mandare a scuola, perché imparino a leggere, a scrivere e far di conto, per avere più carte da giocare. E così, poco entusiasta di fare il facchino per i turisti, con una moglie incinta e con la libertà che resta agli ultimi della fila, Nuryadi decise di partire, di mettere la X dove c'era da metterla, e di sacrificarsi con la sua giovane moglie per l'istruzione della bambina nel suo grembo, perché non fosse costretta a spezzarsi la schiena coltivando il riso o portando carichi sopra la testa tutto il giorno come facevano loro. E poi in futuro chissà, se avesse imparato un po' di inglese, avrebbe addirittura potuto fare la guida per i turisti, o lavorare in un ufficio, magari fare la cameriera in città, vestita di tutto punto e con le mani e il viso puliti, senza polvere e malattie. Qualche tempo dopo, Nuryadi lasciava la sua casa, il vulcano Rinjani e una figlia di pochi mesi.

E il tempo perde consistenza

Al suo arrivo in Malesia, per prima cosa a Nuryadi furono sottratti e trattenuti i documenti di identità. Questa la procedura: l'imprenditore tiene i documenti fino alla fine del lavoro. Fu poi portato in una baracca fuori Kuala Lumpur e tenuto per tre giorni in attesa insieme a centinaia di immigrati provenienti da altre nazioni, tutti democraticamente maltrattati allo stesso modo, come bestie numerate in fila in attesa del macello. Una prigionia senza cancelli la loro, senza sbarre, a bassa sorveglianza. Spaesati com'erano per quei metodi da galera, senza documenti regolari in terra straniera, analfabeti e vittime del sortilegio di Babele, non potevano allontanarsi, organizzarsi, nemmeno comprendersi l'un l'altro. Dopo tre o cinque giorni di limbo, furono smistati dai dirigenti in gruppi minori e trasportati nei rispettivi campi di lavoro, dove iniziarono la dura raccolta dell'olio di palma. Sveglia, lavoro, pranzo, lavoro, cena, letto. Dopo le prime settimane il tempo iniziò a perdere consistenza e a scivolare via dalle mani, non si misurava più. Sveglia, lavoro, pranzo, lavoro, cena, letto. Un giorno dopo l'altro, Nuryadi venne trattenuto nel campo per tre anni, lavorando nove ore al giorno, sette giorni su sette, per 45 euro al mese. Entrato regolarmente in Malesia, il suo visto di ingresso fu lasciato scadere, trasformandolo così in un immigrato irregolare sul suolo nazionale, mentre il guinzaglio del passaporto impugnato dall'imprenditore lo legava inesorabilmente a lui come un cane alla lunghezza del passo del padrone.
Vivendo di stenti e trattato come uno schiavo, Nuryadi riusciva a mandare alla famiglia qualche briciola di pane ogni mese, un numero irrisorio rispetto alle aspettative. I soldi erano così pochi che sua moglie al villaggio era costretta a lavorare come operaia edile, portando macigni e polveri in un cesto sulla testa avanti e indietro per il fiume per 1,29 euro a giornata, sperando che Nuryadi prima o poi riuscisse a tornare, che potesse conoscere sua figlia finché era bambina. Dopo tre anni di sfruttamento brutale, Nuryadi raccolse la grinta e decise di scappare dal campo di lavoro. Capita che intravedere la cima del monte al culmine dello sforzo restituisca vigore e tenacia al passo dell'alpinista. Così fu per Nuryadi, che fissò una cima al di là del mare e decise di unirsi ad un gruppo di esuli disperati come lui, di attraversare clandestinamente lo stretto nell'oceano col rischio di farsi arrestare, di farsi ammazzare per raggiungere la sua vetta: tornare a casa da sua moglie e sua figlia. L'attraversamento era rischioso e il nemico questa volta aveva l'uniforme. Le pattuglie di polizia stavano serrate sul confine come perle di un rosario che non si discute, si esegue. Ai loro occhi Nuryadi non era che un immigrato clandestino da respingere, una minaccia da eliminare, una macchia da pulire, un criminale da trattare secondo l'arbitrio delle leggi di sicurezza nazionali.
Nuryadi ha aspettato per una settimana al porto, nascosto in una barca con tutti gli altri clandestini. Poi finalmente, complice una notte senza luna, lo scafista si decise a rischiare la candela, e avvenne lo sbarco. Nuryadi, uno fra gli innumerevoli dannati della Terra, è fra i pochi clandestini che hanno avuto la fortuna di tornare a casa. La sua è una delle poche storie che non sono finite affogate nel nome della legge, della sicurezza, della pulizia. Non parla volentieri dei dettagli, è arrivato da un giorno e per ora vuole solo rimuovere, dimenticare, ricominciare. Ha passato tre anni sequestrato in un campo di lavoro per un'azienda di produzione di olio di palma, ha speso tutto quel poco che aveva guadagnato per pagare uno scafista illegale e rientrare clandestinamente a casa. Torna alla terra umiliato e offeso, torna da sua moglie e da una figlia che non si ricorda di lui per raccontare loro che è stato tutto inutile, che malgrado tre anni di coraggio e impegno e lontananza lui e sua moglie non possono permettersi l'istruzione della bambina, con i costi dell'uniforme, i quaderni, le scarpe, le matite.

Il prossimo faccendiere del diavolo

La storia di Nuryadi non è un unicum, è anzi un caso esemplare di traffico di esseri umani. Il traffico è una rete internazionale di criminalità organizzata, di contatti, di intermediari informali, di uomini qualunque con le mani sporche. È un'attività che sfrutta i confini nazionali, la polizia repressiva, la presenza di diritti differenziati fra gli Stati che creano cittadini di prima, di seconda e di terza classe. La rete criminale vive nelle intercapedini della legge e si fa forza della globalizzazione del capitalismo, ridendo della globalizzazione di istanze più urgenti quali diritti economici, istruzione, pari opportunità. Il traffico sguazza nella disuguaglianza strutturale dei cittadini del mondo, nell'ignoranza e nella povertà degli ultimi. La struttura più frequente vede sulla scacchiera quattro pedine: un intermediario locale contatta la vittima, la indirizza ad un altro intermediario oltreconfine e quest'ultimo gestisce la sua permanenza e le relazioni con il capo straniero. Il traffico è un crimine invisibile e in Indonesia si cela soprattutto nelle cucine dei ristoranti e nelle camere degli alberghi, nella prostituzione da resort e da centro benessere, nel lavoro industriale, agricolo e minerario. È un fenomeno che coinvolge uomini, donne e anche bambini; offre servizi in apparenza innocui e regolari (raccolta di frutta, pulizie, edilizia...), ma che a monte riposano sulla rete criminale della tratta, sul sequestro dei documenti e sul lavoro non retribuito. Un'esponente del Ppk, organizzazione non governativa operativa a Mataram, Indonesia, informa che ogni anno si registrano 250-300 casi di traffico di esseri umani, e che questi sono solo la punta di un iceberg: la piccola parte che realizza la gravità dell'abuso, trova il coraggio di esporsi e si spinge fino alle porte delle associazioni.
Lombok partecipa al traffico come punto di partenza, destinazione e transito. Donne e bambini sono destinate al traffico locale, gli uomini più spesso vengono esportati e impiegati sul mercato internazionale. “Siamo coordinati con associazioni e organizzazioni locali e internazionali, lavoriamo qui da 25 anni ma è sempre difficile intervenire sul territorio. Gli squilibri internazionali incoraggiano povertà ed emigrazione. La legge non è un deterrente sufficiente, le condanne sono difficili da raggiungere e le pene inadeguate, così il traffico continua”. L'arma più efficace, alla luce di queste informazioni, sembra essere la sensibilizzazione diretta praticata come misura preventiva, raccontando e condividendo singole esperienze come quella della famiglia di Nuryadi per destare l'attenzione di potenziali vittime future, mettendole in guardia contro il prossimo faccendiere del diavolo che busserà alla porta dei poveri con i suoi oracoli bugiardi, cercando di vendere loro ancora una volta le favole marce del più selvaggio capitalismo internazionale.

Moreno Paulon

Quella raccontata in questo articolo è una delle storie
raccolte nel corso di The Human Earth Project ideato
da Ben Randall, un viaggio di sei mesi attraverso l'Asia
intrapreso con il proposito di accompagnare
una campagna fotografica dal sapore esotico
a due scopi maggiori: la conoscenza delle condizioni
di vita di 100 soggetti scelti casualmente e la
sensibilizzazione del vasto pubblico verso il traffico
di esseri umani fra Vietnam e Cina (humanearth.net).


foto Ben Randall

foto Ben Randall