 Questione 
                  animale
                   e forme del dominio 
                C'è un racconto molto antico, appartenente alla tradizione dei Padri 
                  del deserto (siamo in epoca successiva all'editto dell'imperatore 
                  Costantino con il quale si lasciava libertà di culto 
                  ai cristiani; se per molti ciò significava l'agognato 
                  ritorno alla normalità dei giorni, altri intravedevano 
                  un pericolo letale: l'abbraccio con il secolo e il potere; per 
                  questo si erano incamminati verso il deserto). Si narra di un 
                  anacoreta che viveva insieme ai bufali; un giorno rivolse a 
                  Dio questa preghiera: “Signore, insegnami ciò che 
                  mi manca”. E una voce gli disse: “Entra nel tal 
                  cenobio e fai quel che ti diranno”. Egli si recò 
                  nel cenobio e vi rimase, ma non capiva nulla del lavoro dei 
                  monaci, sicché cominciarono a insegnargli le varie attività 
                  e gli dicevano: “Fa' questo idiota! Fa' quello vecchio 
                  stolto!” E, afflitto, egli disse a Dio: “Signore, 
                  il lavoro degli uomini io non lo capisco, rimandami dai bufali”. 
                  Dio glielo consentì ed egli ritornò alla campagna 
                  a pascere con i bufali. Ma laggiù, gli uomini avevano 
                  teso delle reti. Alcuni bufali vi caddero dentro e vi finì 
                  anche l'anziano. Gli venne il pensiero: “Tu hai le mani, 
                  sciogliti dalle reti”. Poi rispose a quel pensiero: “Se 
                  sei un uomo, ti sciogli e vai a vivere con gli uomini. Ma se 
                  sei un bufalo, allora non hai mani”. E restò nelle 
                  reti sino al mattino. Quando gli uomini vennero a prendere i 
                  bufali, alla vista del vecchio, furono colti da terrore, ma 
                  lui non emise parola. Lo sciolsero e così poté 
                  fuggire, correndo dietro ai bufali. Comportamento idiota, quello 
                  assunto dal vecchio, simile a quello del principe Myskin di 
                  Dostoevskij; di chi – incapace di adattarsi ai giochi 
                  di potere – riesce a intuire i processi profondi dentro 
                  e fuori di sé, vivendo il mondo come tema di una ricerca 
                  senza fine. 
                  Questo racconto ben si presta a introdurre il denso saggio Crimini 
                  in tempo di pace (Elèuthera, Milano 2013, pp. 295, 
                  € 18,00) di Massimo Filippi e Filippo Trasatti, in cui 
                  si indagano gli effetti causati dall'attuale organizzazione 
                  dei viventi in base alla suddivisione in specie (specismo); 
                  delineando al contempo delle linee di fuga radicalmente alternative 
                  (antispecismo). I crimini in tempo di pace sono infatti 
                  quelli verso gli animali. Come ci tengono a sottolineare gli 
                  autori nella premessa “non è un libro sugli 
                  animali (...) ma per gli animali” (umani inclusi). 
                  Forse sono utili due parole a mo' di chiarimento. Ciò 
                  che viene chiamato specismo ha come prodotto immediato l'attribuzione 
                  di un diverso status agli appartenenti alle diverse specie 
                  animali, sancendo, con presunta oggettività scientifica, 
                  null'altro che dei rapporti gerarchici e di forza tra i viventi: 
                  in breve, il dominio dell'uomo sugli animali non umani. Filippi 
                  e Trasatti provvedono così a smontare il concetto di 
                  specie e di quello che ne consegue, pezzo per pezzo, poiché 
                  altro non è che un costrutto artificiale (sarebbero da 
                  rileggere a questo proposito anche le pagine ironiche che Pirsig, 
                  nel suo secondo e al momento ultimo romanzo – Lila 
                  –, dedica alla classificazione dell'ornitorinco, vero 
                  e proprio rebus zoologico). Ma la visione specista per funzionare 
                  abbisogna di un marchingegno indispensabile, che sta proprio 
                  al centro di ogni discorso sull'uomo: è la macchina 
                  antropologica (il rimando va soprattutto ai lavori di Agamben 
                  e alla distinzione – risalente a Platone e Aristotele 
                  – tra bìos e zoè: la vita 
                  umana, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall'altra), 
                  il dispositivo in base a cui si garantisce la creazione, la 
                  manutenzione e il funzionamento dell'uomo in quanto tale: in 
                  altre parole, l'uomo fa l'uomo separandosi dall'animale. 
                  A ben vedere è all'opera la distinzione, elevata alla 
                  massima potenza, della categoria schmittiana di amico/nemico: 
                  il nemico non è necessariamente moralmente cattivo, esteticamente 
                  brutto o economicamente dannoso: è semplicemente l'altro, 
                  der Fremde (lo straniero), qualcosa costitutivamente 
                  diverso da noi. Non basta: tale linea di separazione è 
                  a sua volta fluida, di volta in volta viene ridefinita, decidendo 
                  chi rientra nelle categorie dell'umano e chi va escluso (barbari, 
                  eretici, neri, donne, ebrei, rom, gay, ecc.), divenendo oggetto 
                  del medesimo trattamento riservato agli animali non umani (esclusione, 
                  reclusione, sfruttamento, marchiatura, eliminazione, ecc.). 
                  Il pregio del volume risiede soprattutto nella tensione volta 
                  a far compiere nuovi passi, significativi, rispetto al tradizionale 
                  approccio antispecista (fra l'altro, e detto en passant, 
                  è di per sé sminuente definirsi, con il prefisso 
                  “anti”, in termini di opposizione a qualcosa; qui 
                  davvero – Wittgenstein docet – i limiti 
                  del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo!). 
                  Pur nel riconoscimento dell'ancor giovane età di questa 
                  visione della vita e dei viventi, vengono colti nel volume alcuni 
                  limiti nel primo antispecismo: la visione logocentrica (primato 
                  esclusivo riferito al pensiero razionale), cripto-antropocentrica 
                  (attribuizione ai non umani di qualità abitualmente assegnate 
                  agli umani), settoriale (non vengono individuate le cause che 
                  accomunano lo sfruttamento di umani e non umani) e giuridicizzante 
                  (il campo del diritto degli animali diviene lo scopo ultimo); 
                  con le parole degli autori: “Il diritto non è l'approdo 
                  finale della lotta di liberazione del vivente, ma piuttosto 
                  una soglia di passaggio verso altre forme di convivialità 
                  ospitante”. 
                  È proprio questa prospettiva conviviale e ospitante che 
                  va apprezzata fino in fondo, cogliendone tutti i possibili esiti. 
                  Perché è in corso un unico processo di sfruttamento 
                  e di emarginazione dei viventi, siano essi operai o precari, 
                  donne o gay, neri o popoli nativi, animali non umani o interi 
                  ecosistemi. Classismo, sessismo, razzismo, specismo sono nomi 
                  di articolazioni differenti di un unico grande processo in atto 
                  da tempi immemorabili (l'erranza millenaria dell'umanità 
                  di cui parla Jacques Camatte). Possiamo dire che oggi sta prendendo 
                  forma un unico, globale movimento di liberazione? Questo nuovo 
                  movimento si sta forse aggirando per il pianeta? Chi scrive 
                  pensa di sì: si tratta di saperlo riconoscere, articolando, 
                  dal basso e dall'interno, le sue voci con le sue infinite molteplicità, 
                  con tutta la ragione e la passione che il momento presente richiede. 
                  Il libro di Filippi e Trasatti sembra muoversi proprio in tale 
                  direzione.
                  Federico Battistutta 
                   
                   
                   Francesco Ghezzi, 
                  dall'antifascismo al gulag staliniano 
                  
                La casa editrice Zero in Condotta ha appena pubblicato il 
                  libro di Carlo Ghezzi (già segretario della Camera del 
                  Lavoro di Milano) dal titolo Francesco Ghezzi. Un anarchico 
                  nella nebbia. Dalla Milano del teatro Diana al lager in Siberia 
                  (pp. 126, e 10,00). L'autore ricostruisce la vita 
                  di Francesco, suo parente, una bella figura di anarchico, che 
                  dopo essere stato esule in Svizzera e Germania per sfuggire 
                  alla respressione seguita alla strage del Diana si stabilì 
                  in Unione Sovietica  per venire poi internato, in seguito 
                  alle purghe staliniane, nel campo di Vorkuta, in Siberia, dove 
                  trovò la morte. Ne pubblichiamo l'introduzione di Massimo 
                  Ortalli.
 
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Francesco Ghezzi  | 
                   
                 
                 
                  C'è chi ha voluto vedere nella fine dell'Unione Sovietica, 
                  nella dissoluzione dei regimi comunisti e nell'assestamento 
                  di nuovi equilibri mondiali una sorta di fine della storia. 
                  La definitiva e irreversibile conclusione di un processo che 
                  era nato dai presupposti del progresso, dell'emancipazione sociale, 
                  dell'affrancamento dal bisogno e dalla miseria, ma che poi si 
                  è sviluppato mostruosamente nei suoi contrari: nella 
                  drammatica contrapposizione tra gli obiettivi proposti e i risultati 
                  effettivamente concretizzati. Quasi a significare che il grande 
                  progetto di liberazione dell'uomo dallo sfruttamento e dai condizionamenti 
                  materiali e morali ormai non avesse più possibilità 
                  di realizzarsi, e marcasse la sua definitiva sconfitta insieme 
                  con l'ammainarsi della bandiera rossa sulle cupole del Cremlino. 
                  Ma di fine della storia non si può effettivamente parlare. 
                  Non può essere che il progetto di libertà e solidarietà 
                  che ha mosso le grandi aspirazioni del pensiero socialista e 
                  libertario sia circoscrivibile a quelle manifestazioni che hanno 
                  visto riprodursi la violenza del potere sull'individuo nel corso 
                  del cosiddetto secolo breve. Come non può essere che 
                  la speranza di un mondo migliore e l'interpretazione dei mezzi 
                  idonei alla sua realizzazione debbano restare definitivamente 
                  ristrette dentro le maglie di svolgimenti totalitari e liberticidi. 
                  Ci sono altre strade da percorrere e, anche se oggi si stenta 
                  a scorgerle e attualizzarle, esse sono lì che attendono 
                  soltanto che il cammino riprenda. 
                  Il protagonista di questo libro ne è testimonianza. 
                  Francesco Ghezzi è un operaio milanese, un anarchico, 
                  un sovversivo, fuggito dall'Italia per sottrarsi alla “giustizia” 
                  fascista e approdato, dopo lunghe peregrinazioni in vari paesi 
                  europei, nell'Unione Sovietica, sicuro di trovarvi condizioni 
                  di una vita migliore, e di poter contribuire, con la generosità 
                  dei suoi ideali, a quel grande processo di emancipazione sociale 
                  che aveva entusiasmato il proletariato di tutti i paesi. Una 
                  storia comune, la sua, a quella di altri rivoluzionari, di altri 
                  ribelli affamati di giustizia sociale che, pur partendo da esperienze 
                  diverse, ripararono, col cuore gonfio di speranza, nel “paradiso 
                  socialista”, nel paese del socialismo reale. Si sa che 
                  per loro le cose non andarono affatto così, perché, 
                  nonostante alcuni innegabili miglioramenti nelle condizioni 
                  di vita del miserabile proletariato russo, una pesantissima 
                  cappa di oppressione e di controllo sociale si sarebbe abbattuta 
                  sulla nuova società comunista, finendo con l'annullare 
                  il significato stesso di quella grandiosa esperienza in una 
                  paranoica paura verso qualsiasi forma di dissenso se non, addirittura, 
                  di critica. 
                  Francesco Ghezzi fu una delle tante vittime di questa mostruosa 
                  degenerazione, ma fu una vittima indomita e mai rassegnata, 
                  una vittima esemplare. Infatti, pur consapevole dei rischi cui 
                  andava incontro con il suo comportamento ribelle, non smise 
                  mai di affermare i suoi ideali e di proclamare solidarietà 
                  alle vittime dello stalinismo. E per questo fu dapprima emarginato, 
                  calunniato e perseguitato, poi mandato a morire in un gulag, 
                  in obbedienza a quelle “disposizioni di servizio” 
                  che il regime bolscevico applicava per neutralizzare i dissidenti. 
                  E purtroppo, come sappiamo, fra questi veniva incluso chiunque 
                  non fosse disposto ad accettare supinamente l'involuzione burocratica 
                  e autoritaria che negava sistematicamente i presupposti sui 
                  quali si era affermata la rivoluzione proletaria. 
                  Carlo Ghezzi, significativa figura del movimento operaio milanese, 
                  è legato a Francesco da un vincolo di parentela. È 
                  un parente che non dimentica e intende riportare alla luce una 
                  memoria storica quanto mai emblematica delle contraddizioni 
                  e delle tragedie del novecento. Con un ammirevole lavoro di 
                  scavo, ricostruisce le tante vicissitudini che hanno segnato 
                  la vita del suo predecessore, dalla prima formazione anarchica 
                  nelle fabbriche milanesi all'opposizione attiva alla guerra, 
                  dalla partecipazione alla campagna per la liberazione di Errico 
                  Malatesta e Armando Borghi nel 1921 alla strage del Diana, dalla 
                  forzata scelta dell'esilio alla decisione di riparare nell'Unione 
                  Sovietica per costruirsi una nuova vita, dal pieno inserimento 
                  lavorativo nella nuova realtà socialista alla incessante 
                  e coraggiosa critica rivolta alle disfunzioni e alle contraddizioni 
                  che immiserivano la vita del popolo russo, fino alla tragica 
                  scomparsa in un gulag siberiano, dove il regime riesce finalmente 
                  a farne tacere la voce. 
                  Molto spesso, quando si affronta una biografia, il rischio dello 
                  storico è quello di farsi “coinvolgere” dall'oggetto 
                  delle sue indagini, mettendo a repentaglio l'obiettività 
                  e la serenità del suo giudizio. Ma in questo caso l'affetto 
                  dell'autore risalta proprio come il pregio maggiore dalla narrazione 
                  tragica e avvincente dei fatti, né intende mascherarsi 
                  dietro il paravento asettico della ricerca storica. È 
                  l'affetto di chi sente di condividere l'idealità di fondo 
                  del protagonista, ma è anche, soprattutto, il sentimento 
                  nutrito per il parente perduto, per colui che non si è 
                  mai conosciuto, che è andato a morire lontano, ma di 
                  cui si avverte ancora forte la vicinanza. E i sensi di tale 
                  ritrovata, affettuosa vicinanza emergono particolarmente dalla 
                  ricostruzione puntigliosa e per molti versi seducente delle 
                  vicende della famiglia, qui ripercorse sin da quando i comuni 
                  antenati lasciarono la piccola Cusano sul Seveso per trasferirsi 
                  nella grande città. A Milano un'intera generazione proletaria, 
                  quella di Francesco, partecipò al processo storico che 
                  avrebbe trasformato le masse contadine in proletariato urbano, 
                  e avrebbe ridisegnato un territorio prevalentemente artigianale 
                  e ancora profondamente attaccato all'economia agricola in quello 
                  di una moderna città industriale, al passo con i nuovi 
                  tempi e con le profonde modificazioni sociali imposte dalla 
                  rivoluzione dei processi produttivi. 
                  Francesco Ghezzi fa parte pienamente di queste trasformazioni, 
                  di cui è anzi figura paradigmatica, rappresentando con 
                  la sua vicenda biografica un ceto che si trasforma in classe 
                  e che partecipa attivamente a quel nascente movimento sociale 
                  così ricco di prospettive cui dedica tutte le sue forze 
                  e la sua volontà, insieme con i compagni di lavoro e 
                  di fede. Un esempio di abnegazione quale solo situazioni di 
                  estremo cambiamento possono produrre. 
                  La ricostruzione di Carlo Ghezzi è particolarmente attenta 
                  e partecipe nel restituire l'impegno totale e totalizzante di 
                  Francesco, un impegno che lo porta (assieme agli inseparabili 
                  Ugo Fedeli e Pietro Bruzzi) a scelte spesso estreme e pericolose, 
                  tali da esporlo inevitabilmente sia alle attenzioni della giustizia, 
                  sia a quelle, altrettanto pesanti, del nascente fascismo. Il 
                  tentativo di coinvolgerlo ingiustamente nell'efferato attentato 
                  al Teatro Diana, che sarà la causa del suo lungo peregrinare 
                  in Europa fino all'approdo nell'Unione Sovietica, non fu altro, 
                  infatti, che la strategia consapevole operata da un potere politico 
                  e giudiziario intenzionato a spianare la strada alla violenza 
                  squadrista, neutralizzando quanti, come Francesco e i suoi compagni, 
                  avrebbero potuto rendere meno facile l'ascesa al potere del 
                  fascismo. E merito della lunga e ostinata ricerca di Carlo, 
                  che ha voluto sottolineare con decisione l'estraneità 
                  del lontano parente alla tragedia del Diana, è anche 
                  quello di avere ribadito l'inconsistenza di una sorta di “leggenda 
                  nera” che per anni ha inseguito i protagonisti di una 
                  parte non indifferente del movimento anarchico milanese dei 
                  primi decenni del novecento. Così, riscrivendo le peripezie 
                  di Francesco – vittima e non colpevole –, ha portato 
                  un nuovo contributo a una lettura più obiettiva e onesta 
                  di quelle lontane vicende. 
                  Viviamo tempi, lo sappiamo, che ci rendono quasi impossibile 
                  incrociare esistenze esemplari, vite dedicate a una causa sociale 
                  che indichi strade collettive di riscatto, di emancipazione, 
                  di libertà. Vite animate da una passione capace di trasformare 
                  un progetto visionario in pratica quotidiana, temprate dallo 
                  scontro con una realtà al tempo stesso drammatica ed 
                  esaltante. Vite ricche di dignità, insomma, in grado 
                  di diradare la “nebbia” che ammanta il potere e 
                  di illuminare l'esistenza di chi è costretto a subire 
                  ogni forma di sfruttamento morale e materiale. Fu questa la 
                  vita di Francesco Ghezzi, una vita eroica senza volerlo essere, 
                  una vita esemplare anche se vissuta, soprattutto negli ultimi 
                  anni, consapevolmente “annullata” nella massa della 
                  nuova società. Una vita che ci ricorda che l'eroismo, 
                  quello vero e non quello agghindato di retorica e demagogia, 
                  consiste nel saper portare rispetto alle proprie convinzioni. 
                  Rispetto sempre e comunque, anche a scapito della propria sopravvivenza. 
                  E siamo davvero grati a Carlo Ghezzi perché questo suo 
                  lavoro non è solo un commovente omaggio a un grande compagno, 
                  ma è anche uno stimolo a continuare a percorrere, anche 
                  se più modestamente, la stessa strada di Francesco Ghezzi. 
                 Massimo Ortalli 
                   
                   
                    Ancora 
                  sull' anarchia selvaggia
                  di Pierre Clastres 
                  
                Del volume di Pierre Clastres L'anarchia selvaggia 
                  (Elèuthera, Milano, 2013, pp. 120, € 12,00) 
                  abbiamo pubblicato in 
                  “A” 381 (giugno 2013) una recensione di Federico 
                  Battistutta. Alberto Giovanni Biuso ci ha fatto avere la 
                  sua e volentieri la pubblichiamo. L'importanza del lavoro di 
                  Clastres ne giustificherebbe anche una terza. 
                   
                  Il potere è inevitabile, la guerra è inevitabile. 
                  Non esistono società senza potere né società 
                  senza guerra. Meno che mai le società primitive sono 
                  società senza potere e senza guerra. E tuttavia i selvaggi 
                  vivono senza stato, senza fede, senza legge, senza re. Com'è 
                  possibile? Il contributo etnologico di Pierre Clastres è 
                  fondamentale proprio perché spiega con chiarezza la differenza. 
                  La differenza tra il potere e lo Stato, la differenza tra la 
                  guerra e il dominio, la differenza tra le società indivise 
                  e le società costruite sull'Uno. 
                  Contro la teologia liberale e marxista della storia1, 
                  l'etnologo rifiuta ogni determinismo evoluzionistico 
                  di “figure del sociale che si generano e si concatenano 
                  meccanicamente” (p. 30); egli cancella in questo modo 
                  la condizione di incompletezza e di grado zero della storia 
                  che l'ideologia coloniale liberale e marxista attribuisce ai 
                  popoli primitivi. Contro ogni etnologia della miseria, lo studioso 
                  mostra la miseria dell'etnologia e della sua miope convinzione 
                  che l'accumulazione costituisca il motore di ogni società 
                  e lo stato il senso di ogni convivenza civile. Per comprendere 
                  i primitivi bisogna oltrepassare le unilateralità del 
                  discorso naturalista, del discorso economicista 
                  e del discorso scambista. 
                  Nel primo caso è comunque troppo netta e antropocentrica 
                  la tesi di Clastres che separa ontologicamente l'umano dalla 
                  natura, il biologico dallo storico: “La società 
                  umana non è materia della zoologia, ma oggetto della 
                  sociologia” (p. 41). Una simile separazione è metodologicamente 
                  e antropologicamente ingenua, come gli studi successivi hanno 
                  mostrato. L'animale umano è appunto un animale, le cui 
                  logiche di comportamento si inscrivono totalmente nell'ambito 
                  biologico – e come potrebbe essere altrimenti? – 
                  con le peculiari sue caratteristiche culturali, così 
                  come ogni altra specie possiede delle qualità sue proprie 
                  sia di struttura sia di funzione. 
                  La critica agli altri due discorsi è invece molto più 
                  ampia e fondata. Contro quello economicista, i dati etnologici 
                  e l'argomentazione logica mostrano – anche sulla scorta 
                  degli studi di Marshall Sahlins – come il modo di produzione 
                  domestico (Mpd) “assicuri in realtà una completa 
                  soddisfazione dei bisogni materiali della società, a 
                  fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di 
                  produzione e della bassa intensità con cui sono espletate 
                  (...) le società primitive, sia di cacciatori nomadi 
                  sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando 
                  il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società 
                  del tempo libero” e “società dell'abbondanza” 
                  (pp. 46 e 97). Esse si comportano infatti seguendo l'invito 
                  evangelico a non preoccuparsi per il domani perché a 
                  ogni giorno basta la sua pena e a imitare invece l'esempio degli 
                  uccelli e di altri animali che non accumulano ma che ogni giorno 
                  si nutrono2. In altre, e chiare, 
                  parole: “I selvaggi producono per vivere, non vivono per 
                  produrre” (p. 101). La loro logica, i loro comportamenti, 
                  la loro concezione della vita, delle relazioni e del tempo è 
                  dunque l'opposto di quella incarnata dall'imprenditore capitalista, 
                  la cui figura è invece presa a modello dalla teorie economiche 
                  sia liberiste sia marxiste. 
                  Sul discorso scambista – che è in gran parte quello 
                  di Lévi-Strauss, maestro di Clastres – l'analisi 
                  è articolata. Clastres condivide la tesi della centralità 
                  dello scambio ma ne inverte la funzione rispetto alla pratica 
                  della guerra. Quest'ultima, infatti, non è il risultato 
                  di uno scambio fallito; non è dunque l'esito di una pratica 
                  commerciale che nel mondo primitivo non esiste, ma è 
                  la struttura e la condizione di base di quelle società. 
                  La guerra ha lo scopo fondamentale di mantenere ciascuna di 
                  quelle società autonome rispetto alle altre e indivise 
                  al proprio interno. Si tratta di società-per-la-guerra 
                  poiché “finché c'è guerra, c'è 
                  autonomia: per questo la guerra non deve, non può finire, 
                  per questo è permanente” (p. 69). La guerra svolge 
                  la funzione costitutiva di forza centrifuga e di tutela del 
                  molteplice. La società primitiva è egualitaria 
                  al proprio interno, dove domina il principio di identità, 
                  ma è separata rispetto all'esterno, dove domina il principio 
                  di differenza. Sono società indivise – ciascuna 
                  di esse rappresenta una totalità –; senza classi, 
                  poiché non vi sono ricchi che sfruttano il lavoro degli 
                  altri; senza organi separati del potere, che invece rimane per 
                  intero all'interno della comunità, non si proietta e 
                  incarna in istituzioni e figure separate dal corpo sociale. 
                  Chi è dunque il capo? Il capo è qualcuno 
                  che anzitutto deve possedere talento oratorio e generosità. 
                  La prima qualità gli serve per fare da “portavoce, 
                  ovvero dire agli Altri che cosa desidera e che cosa vuole la 
                  comunità” (p. 28). La seconda qualità è 
                  necessaria perché “il big man lavora, letteralmente, 
                  per la gloria, e la società gliela concede volentieri 
                  occupata com'è ad assaporare i frutti del lavoro del 
                  capo. Gli adulatori vivono a spese degli adulati” (p. 
                  106). Anche qui vige un dispositivo inverso rispetto alla società 
                  dello stato, nella quale il capo raccoglie e utilizza il frutto 
                  del lavoro dei sottoposti, un dispositivo che Clastres definisce 
                  del debito. Se il capo è in debito con la società, 
                  quella è una società indivisa – senza stato 
                  –, se invece la società è in debito con 
                  il capo, vuol dire che si è prodotta la scissione tra 
                  dominanti e dominati ed è quindi nata la società 
                  dello stato. 
                  Per comprendere la struttura delle società primitive 
                  è quindi indispensabile non confondere il potere con 
                  il prestigio, errore quasi generale in cui incorrono gli studi 
                  etnologici, e non soltanto essi: 
                  “Che cosa spinge il big man? In vista di che cosa 
                  si impegna? Non certo in vista di un potere che se si sognasse 
                  di esercitare la gente della tribù rifiuterebbe di subire, 
                  bensì in vista di un prestigio, di quell'immagine positiva 
                  che gli restituisce una società pronta a celebrare in 
                  coro la gloria di un capo così prodigo e lavoratore. 
                  Ed è proprio questa incapacità a pensare il prestigio 
                  senza il potere che pesa su molte analisi di antropologia politica, 
                  rivelandosi particolarmente erronea nel caso delle società 
                  primitive” (pp. 105-106). 
                  Le società tribali possiedono quindi antidoti efficaci 
                  contro la nascita dello stato e cioè della divisione 
                  all'interno della struttura sociale tra chi comanda e chi obbedisce. 
                  Uno dei più universali e costanti è appunto la 
                  guerra, con la quale viene garantita la permanenza e la conservazione 
                  di “una molteplicità di comunità indivise 
                  che obbediscono tutte a una stessa logica centrifuga. Qual è 
                  l'istituzione che esprime e insieme garantisce il permanere 
                  di questa logica? È la guerra, come vera relazione tra 
                  le comunità, come principale mezzo sociologico di promozione 
                  della forza centrifuga di dispersione contro la forza centripeta 
                  di unificazione (...) Quanto più c'è guerra, tanto 
                  meno c'è unificazione, e il miglior nemico dello Stato 
                  è la guerra. La società primitiva è una 
                  società contro lo Stato in quanto è una società-per-la-guerra” 
                  (p. 71). Hobbes aveva dunque ragione a sostenere che lo stato 
                  è contro la guerra. La società primitiva conferma 
                  tale legame di esclusione ma ne capovolge il senso “affermando 
                  che la macchina della dispersione opera contro quella dell'unificazione. 
                  Ovvero ci dice che la guerra è contro lo stato” 
                  (p. 72). Si potrebbe tuttavia a questo punto chiedere perché 
                  gli stati moderni, come le società primitive, sono caratterizzati 
                  anch'essi da una condizione di costante guerra reciproca. 
                  A ogni modo, se le società primitive non possono permettersi 
                  una pace universale – che porrebbe a rischio la loro libertà 
                  –, non possono neppure sostenere la guerra generale, il 
                  cui risultato sarebbe la fine dell'eguaglianza. È per 
                  questo che scattano le alleanze, soprattutto quelle familiari 
                  – lo scambio delle donne –, per garantirsi un insieme 
                  di amici dal comportamento neutrale o favorevole nel caso di 
                  un conflitto con gruppi nemici. Diventa a questo punto chiaro 
                  che “la logica della società primitiva è 
                  dunque una logica centrifuga, una logica del molteplice. I selvaggi 
                  vogliono la moltiplicazione del molteplice. E qual è 
                  il principale esito del dispiegarsi della forza centrifuga? 
                  Opporre una barriera invalicabile, il più potente ostacolo 
                  sociologico, alla forza inversa, ovvero alla forza centripeta 
                  dell'unificazione, dell'Uno. (...) Ora, qual è quella 
                  forza legale che ingloba tutte le differenze per eliminarle, 
                  che poggia precisamente sull'abolizione della logica del molteplice 
                  per sostituirla con quella opposta dell'unificazione, qual è 
                  l'altro nome di quell'Uno che rifiuta nella sua stessa essenza 
                  la società primitiva? È lo stato”. (pp. 
                  69-70) 
                  Lo stato come identità, la società come differenza. 
                  Il contenuto dell'indagine etnologica di Clastres diventa 
                  a questo punto tutt'uno con la prospettiva metodologica 
                  “di un relativismo culturale che, rinunciando all'affermazione 
                  imperialista di una gerarchia di valori, ammette ormai 
                  la coesistenza di differenze socioculturali, senza la 
                  pretesa di giudicarle” (p. 25). La società primitiva 
                  cerca e vuole, infatti, la frammentazione, la differenza, la 
                  dispersione in una varietà di gruppi tra di loro separati 
                  e autonomi, viventi su un territorio del quale utilizzano e 
                  consumano in modo egualitario le risorse, riconoscendo soltanto 
                  il prestigio di un capo lavoratore e donatore, negandogli invece 
                  qualunque potere separato dal corpo sociale. La logica della 
                  società primitiva “è una logica della differenza” 
                  (p. 59). Non a caso, nello studiare tutto questo, Clastres formula 
                  soprattutto due nomi, oltre a quelli di Lévi-Strauss 
                  e di Hobbes. I nomi di Étienne de La Boétie e 
                  di Friedrich Nietzsche, entrambi avversi all'Uno e al suo dominio.
                  Alberto Giovanni Biuso
                 Note
 
                  - “Risulta da tutto ciò che il marxismo non può 
                  pensare la società primitiva perché la società 
                  primitiva non è pensabile all'interno di questa teoria 
                  della società. L'analisi marxista vale, forse, per le 
                  società divise o per i sistemi dove, apparentemente, 
                  la sfera dell'economia è centrale (il capitalismo). Ma 
                  quando la si vuole applicare a società indivise, a società 
                  che si collocano nel rifiuto dell'economia, una tale analisi 
                  più che strampalata appare oscurantista. Non saprei dire 
                  se sia facile o meno essere marxisti in filosofia, ma è 
                  evidente che esserlo in etnologia è semplicemente impossibile” 
                  (p.111).
                  
 - “Aborigeni australiani e Boscimani, quando stimano di 
                  avere raccolto sufficienti risorse alimentari, smettono di cacciare 
                  e di raccogliere. Perché stancarsi a raccogliere quello 
                  che non si può consumare?” (p. 97).
  
                   
                   
                   Chico, l'anarchico 
                  dei due mondi 
                  
                “Come anarchico sono più interessato alla vita 
                  che alla morte delle persone!”  
                  (Alessio Lega) 
                   
                   Sono 
                  sicuro che Angelo Pagliaro e Antonio Orlando hanno tenuto presente 
                  questo assunto, peraltro molto diffuso nell'ambito della ricerca 
                  storica anarchica, durante la stesura di Chico il professore. 
                  Vita e morte di Francesco Barbieri, l'anarchico dei due mondi 
                  (coedizione La Fiaccola e Zero in Condotta, Milano, 2013, pp. 
                  352, € 22,00). Per anni infatti, quello dell'anarchico 
                  calabrese è stato solo un cognome affiancato al più 
                  famoso Camillo Berneri. I due vennero assassinati insieme durante 
                  le tragiche giornate di Barcellona del maggio del '37, in quel 
                  gorgo di tradimenti, omicidi politici e illusioni perdute che 
                  fu il “labirinto spagnolo”, secondo una felice definizione 
                  della storiografia inglese. A interessare gli studiosi che hanno 
                  lavorato a quest'opera, non sono solo le misteriose circostanze 
                  della morte, peraltro ben ricostruite, ma le scelte di vita 
                  delle quali fu protagonista Barbieri e che s'intrecciano con 
                  gli avvenimenti, i luoghi, le lotte della macrostoria. 
                  Per questo il lavoro storiografico di Pagliaro e Orlando assume 
                  una valenza che va al di là della ricostruzione biografica, 
                  offrendo un ricchissimo panorama delle vicende storiche nelle 
                  quali il movimento anarchico fu protagonista. Dalle lotte per 
                  l'emancipazione dei lavoratori in Argentina e il ruolo che proprio 
                  gli emigranti italiani ebbero in esse, alla guerra civile spagnola, 
                  passando per le dure esperienze di carcere ed espulsioni. 
                  Le imprese della lotta armata con il gruppo Culmine al fianco 
                  di Severino Di Giovanni, che spaccarono il movimento sui metodi 
                  da adottare per condurre le lotte; l'incontro e l'amicizia a 
                  Parigi con Berneri nell'ambito del tentativo di organizzare 
                  gli antifascisti italiani all'estero; la guerra al fronte e 
                  per le strade della Spagna sono le tappe più significative 
                  dell'avventura umana dell'anarchico calabrese. 
                  Il lavoro di ricerca a tutto campo ha esplorato con sapienza 
                  le fonti storiche, riportate in un ricchissimo apparato di note, 
                  restituendo così la figura di Barbieri come uomo di azione, 
                  sempre in prima linea, temuto dalle polizie di due continenti, 
                  in particolare da quella fascista, che a lungo lo braccò. 
                  Il libro non si esime dal ragionare sulle varie ipotesi formulate 
                  nel corso dei decenni per fare luce su mandanti ed esecutori 
                  del duplice omicidio, le cui modalità rimandano con certezza 
                  a un'esecuzione mirata compiuta da sicari scelti, e sul quale 
                  una parola definitiva ancora non è stata scritta. 
                  Pagliaro e Orlando presentano al lettore documenti e testimonianze 
                  che seguono le piste principali, che sostanzialmente si riducono 
                  a due: quella che porta al Psuc direttamente controllato dagli 
                  stalinisti e dall'Unione Sovietica e quella, meno probabile, 
                  che attribuisce l'omicidio a spie fasciste dell'Ovra. 
                  Particolarmente emozionanti le parole del racconto dei funerali 
                  nel ricordo di Umberto Marzocchi: “In testa al funerale 
                  centinaia di bandiere, tutti i sindacati, tutti i gruppi anarchici, 
                  dietro i cinque carri un centinaio di anarchici del Mir, del 
                  Movimento di Investigazione Rivoluzionaria, con le mauser... 
                  e poi tutta la folla! Io sono in testa con la bandiera italiana...” 
                  Una nota di carattere editoriale, ma non meno rilevante se letta 
                  in prospettiva futura, è il fortunato connubio nord-sud, 
                  fra Zero in Condotta e La Fiaccola, grazie al quale è 
                  stato possibile giungere alla stampa di quest'opera. 
                  Il lungo lavoro degli autori ha dato frutti copiosi anche in 
                  termini di nuovi materiali documentali, che potrebbero essere 
                  fruibili in un'eventuale edizione ampliata in formato ebook. 
                  Un libro quindi che colma un vuoto storiografico a lungo rimasto 
                  aperto come una ferita, e che oggi diventa finalmente una storia 
                  di tutti per tutti: la storia di Francesco Barbieri. 
                  Fabio Cuzzola 
                   
                   
                   Teatro civile 
                  e coscienza critica 
                  
                Il vecchio della torre di Zelinda Carloni è un 
                  racconto noir per giovani lettori. Anzi, lettori-ascoltatori, 
                  infatti può essere considerato un racconto-spettacolo, 
                  adatto a una lettura corale, e in pubblico. 
                  “Vi racconto”. Inizia così “una storia 
                  che porterà molto lontano”, mentre coinvolgimento 
                  diretto e tono colloquiale della voce narrante abbattono la 
                  quarta parete. 
                  Il titolo rimanda al pezzo che un commissario-capo, preposto 
                  a indagini investigative, e per diletto autore dei testi e regista 
                  di una compagnia teatrale amatoriale, sta ultimando. 
                  Senza accorgersene, si viene accompagnati nel gioco del teatro 
                  nel teatro. Il commissario si servirà di un'attrice della 
                  sua compagnia, per creare un espediente e riuscire a intrappolare 
                  la mano infame che infierisce a morte su bambini e adulti tedeschi, 
                  residenti in Italia, scelti a caso nel mucchio, come in una 
                  roulette russa. 
                  Il commissario Ideale, con la sua aria da stordito-insonne-cronico, 
                  un po' bischero e slanci da cascamorto quando si trova a tu 
                  per tu con una donna, è uomo interprete del sentire comune. 
                  L'approccio cerebrale, mai sùbito lucido rispetto ai 
                  casi da risolvere, è infarcito di citazioni colte, guide 
                  autorevoli e motivo conduttore per orientarsi nell'intricato 
                  labirinto degli indizi. Spesso sproloquia nomi fragorosi di 
                  letterati, ma poi dichiara tutta la sua ignoranza quando si 
                  tratta dei fatti storici delle Shoah: “Non ho mai sentito 
                  queste cose”! Sarà Donna, detta Didi, “strana 
                  creatura che pareva uscita da un racconto fantastico” 
                  ad aprire alla conoscenza il commissario-regista-autore, a volte 
                  attore. E il sodalizio Donna-Ideale si rivelerà ben riuscito. 
                  Calate nell'intreccio fittizio dei casi investigativi da risolvere, 
                  le spiegazioni di Donna accrescono realtà oggettiva agli 
                  stessi avvenimenti storici da lei narrati. Il giovane ascoltatore-lettore-spettatore 
                  si trova a conoscere, forse per la prima volta, come per il 
                  commissario, attraverso la mediazione di un racconto dai risvolti 
                  noir, i crimini del nazismo.Nella finzione letteraria, la mano 
                  assassina agisce in nome delle vittime, facendosi paladina della 
                  massima di Dostoevskij: “Ognuno è responsabile 
                  di tutto davanti a tutti”. Collocato altresì in 
                  apertura e chiusura del racconto, il motto conferisce un andamento 
                  circolare alla struttura narrativa. La frase è ripresa 
                  anche nelle battute conclusive del pezzo teatrale scritto dal 
                  commissario-regista-autore, e pronunciate dal personaggio-vecchio 
                  saggio, custode della memoria. 
                  Ma la massima di Dostoevskij potrebbe rappresentare inoltre 
                  il punto di partenza per un finale in divenire, aperto a un 
                  dibattito con il giovane pubblico, sollecitato a interpretarla 
                  a più voci, nel suo significato profondo. Il racconto-spettacolo 
                  si rivela quindi un'opportunità per un primo approccio 
                  ai temi della memoria individuale e collettiva, del conformismo 
                  e del negazionismo, della violenza subdola che va smascherata. 
                  Il vecchio della torre può ricavarsi uno spazio 
                  meritato, in un contesto di teatro civile dove la narrazione-spettacolo 
                  diventa occasione di sensibilizzazione e formazione di una coscienza 
                  critica. Da coltivare fin dalle giovanissime generazioni.
                  Claudia Piccinelli
                  Il libro Il vecchio della torre non è pubblicato, 
                  può essere richiesto in pdf all'autrice: lindazeli@hotmail.it. 
                 
                   
                   
                    Con 
                  Vladimir Vysotsky
                   nel cuore 
				  
                Lottavo romanzo (Sicilia Punto L, Catania, 2013, p. 
                  165, € 10,00) raccoglie ventinove scritti piuttosto brevi 
                  di Marco Sommariva e un testo finale, che mi figuro con i piedi 
                  ben piantati in musica, di Alessio Lega. È uscito quest'estate 
                  e l'ho letto disordinatamente e più volte, in treno, 
                  a casa, in giro. Solo una volta – l'ultima – l'ho 
                  letto seguendo la traccia delle pagine, ma lasciando comunque 
                  da parte la prefazione. È perché temo le presentazioni 
                  dei libri: non mi va che qualcuno mi suggerisca prima cosa succede 
                  dopo, che mi si dia una traccia o un'angolazione da cui prendere 
                  la mira, o una qualche chiave. Quando leggo qualcosa mi piace 
                  andare in esplorazione da solo: voglio che la lettura sia un 
                  viaggio nuovo, voglio farmi sorprendere, voglio che un libro 
                  mi apra davanti panorami e preferibilmente panorami di meraviglia. 
                  Una mezza sorpresa l'ho avuta già nel corso delle prime 
                  letture (solo mezza perché un po' lo conosco, credo di 
                  aver letto grande parte delle cose scritte da Marco e questo 
                  è davvero uno dei suoi lavori più complessi e 
                  riusciti), una sorpresa intera l'ho avuta scoprendo quest'ultimo 
                  tratto, la prefazione appunto. Mi ero fatto un'idea complessiva 
                  del libro e già stavo buttando giù degli appunti 
                  che avrei poi trasformato in questa segnalazione, ma nel leggere 
                  la prefazione di Haidi Giuliani mi sono accorto che praticamente 
                  tutto quello che avrei voluto raccontarvi lei l'aveva già 
                  scritto, prima e molto meglio di me. 
                  Cambio quindi strada e, magari più banalmente, vi racconto 
                  Lottavo romanzo dal rumore che fa, dai suoni che lo abitano. 
                  Marco Sommariva ama impastare le parole dei suoi racconti con 
                  una specie di colonna sonora: dà raramente delle indicazioni 
                  specifiche, non sceglie brani lunghi né canzoni intere, 
                  ma lavora a un mosaico di frammenti, di tracce, di scie sonore 
                  che nell'economia del suo lavoro di scrittore hanno altrettanto 
                  peso. Potrei descriverlo come quel disordine di suoni che escono 
                  dalle finestre delle case quando passi per una di quelle strade 
                  di quartiere fatte di poco o niente silenzio, rumori e voci 
                  a tutte le ore e in tutte le gradazioni. È un groviglio 
                  comunque ancora riconoscibile quello nel suo libro d'esordio 
                  Il cristallo di quarzo, con i Radiohead mischiati ai Pink 
                  Floyd in una babele fitta di worldmusic mediorientale oppure 
                  maghrebina oppure da chissà dove. In uno dei suoi primi 
                  lavori Vorompatra ti entrava nelle orecchie un mix elaborato 
                  di Jackson Browne e chitarristi solitari in un angolo più 
                  Ub40 e voci telefoniche più Patti Smith e Rem più 
                  Tom Waits: una mescolanza artificiale ma possibilissima, specie 
                  se letta come un'antologia veloce di suoni familiari a un ragazzo 
                  nato negli anni sessanta e cresciuto felice col pop degli anni 
                  settanta ed il rock degli anni ottanta, ma a disagio nella musica 
                  degli anni novanta e lasciato chiuso fuori da quella del millennio 
                  nuovo. Nel più recente Il venditore di pianeti alle 
                  orecchie arriva molto poco di riconoscibile: è un rumore 
                  continuo, bagnato e nebbioso come un novembre a nordest, di 
                  macchine che passano e clacson e frenate, grumi sonici che escono 
                  dalle radioline e dagli altoparlanti dei televisori, gente che 
                  grida per strada e dentro le stanze ma che ci raggiunge come 
                  da dietro un vetro opaco. Per caratterizzare Lottavo romanzo 
                  Marco cambia strada, e sceglie piuttosto esplicitamente Vladimir 
                  Vysotsky cantato con la voce di Eugenio Finardi (Il cantante 
                  al microfono, edizioni Velut Luna, 2008, velutluna.it: 
                  cercate questo cd e ascoltatelo con tutta l'attenzione possibile), 
                  riuscendo a intrecciare fili rossi tra ciascun racconto breve 
                  e ritagli di strofe del cantapoeta russo. 
                  Il libro ha dimensioni piccole, resta comodo tra due mani, ma 
                  mentre lo si legge si trasforma e diventa un album di fotografie 
                  sempre più grandi e sempre più nervose e intrise 
                  di inquietudine, oscurità, disperazione. Le parole sono 
                  il pretesto per raccontare storie di occasioni buone strappate 
                  di dosso ai protagonisti, sogni dai quali ci si risveglia con 
                  ancora i segni dei denti e delle unghie sul viso, giornate buttate 
                  via una dopo l'altra galleggiando in mezzo a un mare di gente 
                  e di spettri ma comunque soli, sprecate aspettando fuori di 
                  un portone che nessuno apre o al buio in cerca di una qualche 
                  luce da accendere. Lo stesso, le canzoni che lo abitano sono 
                  sconfinate dichiarazioni d'amore e d'indipendenza messe in bocca 
                  a un profeta alcolista, condannato a restare straniero dappertutto 
                  e sempre nonostante le traduzioni più amorevoli.
                  Marco Pandin 
                   
                   
                    L'anarchia, 
                  le anarchie,
                   le anarchiche, gli anarchici 
                  
                Per i tipi della casa editrice imolese La Mandragora (editricelamandragora.it) 
                  è uscito il volume di 570 pagine (€ 32,00) 
                  Ritratti in piedi, in cui sono raccolti 
                  tutti gli scritti che il nostro collaboratore Massimo Ortalli 
                  ha pubblicato su questa rivista tra il 2001 e il 2009, nella 
                  sua omonima rubrica. Ne pubblichiamo l'introduzione di un nostro 
                  redattore. 
                   
                  Se la piccola cooperativa editoriale di cui mi occupo da 43 
                  anni pubblicasse anche libri, questo dovrebbe essere nel nostro 
                  catalogo. Si tratta infatti della raccolta completa dei testi 
                  che Massimo Ortalli ha scritto sulla rivista anarchica “A” 
                  per quasi nove anni, nella sua rubrica Ritratti in piedi. 
                  E sottolineo l'aggettivo sua perché nessuno fino ad allora 
                  aveva avuto l'idea di porre un'attenzione organica e sistematica 
                  a quello sterminato mondo di scritti originati dal fecondo incontro 
                  tra anarchia e letteratura. 
                  In questa sede mi preme evidenziare che se questo incontro, 
                  che data da oltre un secolo e mezzo e dura tuttora, ha dato 
                  tanti risultati nella letteratura e in terreni artistici assai 
                  variegati (si pensi al teatro, al cinema, ecc.) è perché 
                  l'anarchia non è “solo” un ideale politico-sociale 
                  o un movimento che ad essa si richiama, ma è tante e 
                  tante cose in più. Al punto che a volte mi sembrerebbe 
                  più preciso e chiarificatore parlare di anarchie, 
                  al plurale. Con il rischio, però, di non cogliere appieno 
                  quel sentimento di fondo che tutte queste anarchie tiene assieme. 
                  I ritratti che Massimo Ortalli ripropone in questo suo scrigno 
                  di umanità di oltre 500 pagine ci permettono di approfondire 
                  la conoscenza di tante persone, reali o romanzate poco importa, 
                  tramite le quali le grandi idee anarchiche si sono fatte vita 
                  quotidiana, relazioni, progetti di lotta e tante altre cose. 
                  Dietro e dentro questi scritti, dunque dietro e dentro questo 
                  ponderoso volume, c'è Massimo Ortalli, un individuo, 
                  un anarchico, con tutta la sua conoscenza sulla storia dell'anarchismo. 
                  Anima dell'Archivio storico della Federazione Anarchica Italiana, 
                  collezionista, studioso, autore di pubblicazioni, conferenziere 
                  è tra quanti (a dire il vero, pochi) hanno gli strumenti 
                  per cercare di abbracciare l'inabbracciabile, in altre parole 
                  avere una visione d'insieme di quanto attiene all'anarchia, 
                  fosse anche solo con attenzione prevalente per quella di lingua 
                  italiana – che è ben altra cosa dal dire l'anarchismo 
                  in Italia, data l'entità e l'importanza dell'emigrazione, 
                  dell'esilio e del radicamento nei cinque continenti. 
                  Pur in possesso di tanta “scienza”, non si potrebbe 
                  nemmeno affrontare un processo di comprensione/narrazione dell'anarchismo 
                  e degli anarchici senza coglierne empaticamente il mondo, il 
                  sistema di valori, i comportamenti, i dibattiti politici, vorrei 
                  dire anche i tic, le abitudini mentali, gli automatismi emotivi, 
                  quella estrema ricchezza di umanità, di idee, di esperimenti, 
                  di lotte che all'anarchia in vario modo si richiamano. Dentro 
                  l'anarchia, le anarchie, c'è di tutto e questa raccolta 
                  di scritti, all'incrocio con la letteratura, ne è ulteriore 
                  conferma. 
                  Va poi tenuto presente che l'impegno storiografico di Massimo 
                  assume un senso compiuto solo alla luce del suo e del nostro 
                  impegno militante, se tale si può definire la volontà 
                  di contribuire alla trasformazione del mondo, non solo alla 
                  sua “scrittura”. 
                  Delicato ma fondamentale equilibrio è quello tra ricerca 
                  storica e impegno politico, dove la reciproca autonomia (soprattutto 
                  per quanto attiene alla prima, che deve essere libera da ideologismi 
                  e schemi prefissati) non deve significare estraneità 
                  e distanza dalle vicende del mondo attuale e dall'impegno contro 
                  le ingiustizie che sta alla base del nostro coinvolgimento nelle 
                  idee e nel movimento organizzato che cerca di portarle avanti. 
                  Già, le idee. Non è certo questa breve introduzione 
                  a permettere una disanima foss'anche veloce del ricco patrimonio 
                  di esperienze, riflessioni, sofferenze, lotte, scritti che hanno 
                  fatto e fanno dell'anarchismo un patrimonio – uno tra 
                  i tanti, a mio avviso – al quale ovunque e sempre si possa 
                  attingere per pensare e operare nella prospettiva di una nuova 
                  società. Nel baule che gli anarchici preservano e cercano 
                  di arricchire, da portare nell'arca di Noè verso un mondo 
                  migliore, di idee ce ne sono a iosa. E con Massimo di queste 
                  idee parliamo, discutiamo, riflettiamo, dubitiamo. Materia viva, 
                  appassionante, ma a volte datata, per la nostra rispettiva e 
                  spesso comune sensibilità. Idee da approfondire e riesaminare, 
                  a volte da lasciare a un passato che ci pare proprio passato. 
                  Perché le idee, per gli anarchici, sono (o meglio, dovrebbero 
                  essere, a mio avviso) un patrimonio da riesaminare, ridiscutere, 
                  sul quale riflettere. Mai un dogma. 
                  Diverso è il discorso che riguarda gli individui, le 
                  donne e gli uomini che hanno fatto e che fanno la storia dell'anarchismo: 
                  portatrici e portatori in vario modo di quelle idee, testimoni 
                  dei principi cui esse si ispirano per tradurli in atti quotidiani, 
                  di impegno, di vita, di solidarietà, di lotta. 
                  Lo accennavo all'inizio. Il patrimonio ideale dell'anarchismo 
                  è eccezionalmente ricco, variegato, a tratti emozionante, 
                  ma alla luce dell'esperienza mostra più di una corda: 
                  non nell'ispirazione di fondo (una società di liberi 
                  e di uguali, la pratica della solidarietà, ecc.) ma nelle 
                  modalità per avvicinarsi a una realizzazione anche solo 
                  parziale. L'esperienza e la riflessione hanno fatto crescere 
                  in me continui punti interrogativi, le “certezze” 
                  si sono diradate e a volte dileguate, il “quando l'anarchia 
                  verrà / tutto il mondo sarà trasformato” 
                  mi fa sorridere, a tratti anche amaramente. 
                  Ma resta intatta in tutta la sua meravigliosa ricchezza l'umanità, 
                  altra parola non mi viene per descrivere quell'impasto alchemico 
                  di idee e comportamenti, di orizzonti ideali e quotidiana vita 
                  solidale: come sintetizzava il nostro insuperato Errico Malatesta, 
                  di pensiero e volontà. 
                  Per dirla in altri termini, la tragica esperienza delle “rivoluzioni” 
                  comuniste (lenin-staliniste), Auschwitz e Hiroshima e tanti 
                  altri avvenimenti, hanno segnato radicalmente la storia e posto 
                  interrogativi sulle modalità per realizzare un mondo 
                  migliore. Le idee-forza dell'anarchismo restano un punto chiaro 
                  e fisso, in cielo. Nel cielo delle idee, appunto. 
                  In terra ci sono, hanno operato e operano gli individui, magari 
                  associati in gruppi, organizzazioni, federazioni, ma comunque 
                  individui. E dai migliori di questi – che costituiscono 
                  il sottofondo dei ritratti proposti in queste pagine – 
                  viene la vera, profonda e, a mio personale avviso, unica conferma 
                  possibile dell'interesse per quelle nostre idee. Perché 
                  in questi individui le idee si sono fatte comportamento, hanno 
                  acceso amicizie, hanno costruito fiducia, hanno determinato 
                  lotte. Hanno fatto scuola. 
                  Dall'intrecciarsi del mio personale, quotidiano dialogo con 
                  Massimo emergono sempre più punti interrogativi su idee, 
                  strategie, prese di posizione. Certo, resta fondamentale l'ancoraggio 
                  alla concezione malatestiana dell'anarchismo, con la sua attenzione 
                  alla dimensione etica, indispensabile anche per fare da contrappeso 
                  alle dure e a volte tristi necessità della lotta. 
                  Ma Massimo e io ci rendiamo conto che non basta, in particolare 
                  nel quotidiano operare. E allora ciò che ci lega a queste 
                  strane e affascinanti idee passa principalmente attraverso la 
                  vita delle persone migliori che abbiamo conosciuto, dei compagni 
                  e delle compagne che ci apparvero grandi non solo per ciò 
                  in cui credevano o per gli anni di galera fatti sotto il fascismo, 
                  ma anche (e soprattutto) per la loro piccola quotidiana sensibilità 
                  e attenzione verso gli altri. 
                  “Non mi interessa se tu sei credente, mi interessa che 
                  tu sia credibile” amava dire il mio amico don Andrea Gallo. 
                  Quanta verità in quelle parole, applicate anche agli 
                  anarchici. 
                  E le anarchiche e gli anarchici in carne e ossa che popolano 
                  questi ritratti, credibili lo sono stati e lo sono tuttora. 
                  In loro l'anarchia, prima ancora che un ideale, è stata 
                  ed è pratica di vita. Non è poca cosa. Per me, 
                  per il mio personale non semplice né facile rapporto 
                  con l'anarchismo, direi che è tutto.
                  Paolo Finzi
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