rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013


 


Questione animale
e forme del dominio

C'è un racconto molto antico, appartenente alla tradizione dei Padri del deserto (siamo in epoca successiva all'editto dell'imperatore Costantino con il quale si lasciava libertà di culto ai cristiani; se per molti ciò significava l'agognato ritorno alla normalità dei giorni, altri intravedevano un pericolo letale: l'abbraccio con il secolo e il potere; per questo si erano incamminati verso il deserto). Si narra di un anacoreta che viveva insieme ai bufali; un giorno rivolse a Dio questa preghiera: “Signore, insegnami ciò che mi manca”. E una voce gli disse: “Entra nel tal cenobio e fai quel che ti diranno”. Egli si recò nel cenobio e vi rimase, ma non capiva nulla del lavoro dei monaci, sicché cominciarono a insegnargli le varie attività e gli dicevano: “Fa' questo idiota! Fa' quello vecchio stolto!” E, afflitto, egli disse a Dio: “Signore, il lavoro degli uomini io non lo capisco, rimandami dai bufali”. Dio glielo consentì ed egli ritornò alla campagna a pascere con i bufali. Ma laggiù, gli uomini avevano teso delle reti. Alcuni bufali vi caddero dentro e vi finì anche l'anziano. Gli venne il pensiero: “Tu hai le mani, sciogliti dalle reti”. Poi rispose a quel pensiero: “Se sei un uomo, ti sciogli e vai a vivere con gli uomini. Ma se sei un bufalo, allora non hai mani”. E restò nelle reti sino al mattino. Quando gli uomini vennero a prendere i bufali, alla vista del vecchio, furono colti da terrore, ma lui non emise parola. Lo sciolsero e così poté fuggire, correndo dietro ai bufali. Comportamento idiota, quello assunto dal vecchio, simile a quello del principe Myskin di Dostoevskij; di chi – incapace di adattarsi ai giochi di potere – riesce a intuire i processi profondi dentro e fuori di sé, vivendo il mondo come tema di una ricerca senza fine.
Questo racconto ben si presta a introdurre il denso saggio Crimini in tempo di pace (Elèuthera, Milano 2013, pp. 295, € 18,00) di Massimo Filippi e Filippo Trasatti, in cui si indagano gli effetti causati dall'attuale organizzazione dei viventi in base alla suddivisione in specie (specismo); delineando al contempo delle linee di fuga radicalmente alternative (antispecismo). I crimini in tempo di pace sono infatti quelli verso gli animali. Come ci tengono a sottolineare gli autori nella premessa “non è un libro sugli animali (...) ma per gli animali” (umani inclusi).
Forse sono utili due parole a mo' di chiarimento. Ciò che viene chiamato specismo ha come prodotto immediato l'attribuzione di un diverso status agli appartenenti alle diverse specie animali, sancendo, con presunta oggettività scientifica, null'altro che dei rapporti gerarchici e di forza tra i viventi: in breve, il dominio dell'uomo sugli animali non umani. Filippi e Trasatti provvedono così a smontare il concetto di specie e di quello che ne consegue, pezzo per pezzo, poiché altro non è che un costrutto artificiale (sarebbero da rileggere a questo proposito anche le pagine ironiche che Pirsig, nel suo secondo e al momento ultimo romanzo – Lila –, dedica alla classificazione dell'ornitorinco, vero e proprio rebus zoologico). Ma la visione specista per funzionare abbisogna di un marchingegno indispensabile, che sta proprio al centro di ogni discorso sull'uomo: è la macchina antropologica (il rimando va soprattutto ai lavori di Agamben e alla distinzione – risalente a Platone e Aristotele – tra bìos e zoè: la vita umana, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall'altra), il dispositivo in base a cui si garantisce la creazione, la manutenzione e il funzionamento dell'uomo in quanto tale: in altre parole, l'uomo fa l'uomo separandosi dall'animale.
A ben vedere è all'opera la distinzione, elevata alla massima potenza, della categoria schmittiana di amico/nemico: il nemico non è necessariamente moralmente cattivo, esteticamente brutto o economicamente dannoso: è semplicemente l'altro, der Fremde (lo straniero), qualcosa costitutivamente diverso da noi. Non basta: tale linea di separazione è a sua volta fluida, di volta in volta viene ridefinita, decidendo chi rientra nelle categorie dell'umano e chi va escluso (barbari, eretici, neri, donne, ebrei, rom, gay, ecc.), divenendo oggetto del medesimo trattamento riservato agli animali non umani (esclusione, reclusione, sfruttamento, marchiatura, eliminazione, ecc.).
Il pregio del volume risiede soprattutto nella tensione volta a far compiere nuovi passi, significativi, rispetto al tradizionale approccio antispecista (fra l'altro, e detto en passant, è di per sé sminuente definirsi, con il prefisso “anti”, in termini di opposizione a qualcosa; qui davvero – Wittgenstein doceti limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo!). Pur nel riconoscimento dell'ancor giovane età di questa visione della vita e dei viventi, vengono colti nel volume alcuni limiti nel primo antispecismo: la visione logocentrica (primato esclusivo riferito al pensiero razionale), cripto-antropocentrica (attribuizione ai non umani di qualità abitualmente assegnate agli umani), settoriale (non vengono individuate le cause che accomunano lo sfruttamento di umani e non umani) e giuridicizzante (il campo del diritto degli animali diviene lo scopo ultimo); con le parole degli autori: “Il diritto non è l'approdo finale della lotta di liberazione del vivente, ma piuttosto una soglia di passaggio verso altre forme di convivialità ospitante”.
È proprio questa prospettiva conviviale e ospitante che va apprezzata fino in fondo, cogliendone tutti i possibili esiti. Perché è in corso un unico processo di sfruttamento e di emarginazione dei viventi, siano essi operai o precari, donne o gay, neri o popoli nativi, animali non umani o interi ecosistemi. Classismo, sessismo, razzismo, specismo sono nomi di articolazioni differenti di un unico grande processo in atto da tempi immemorabili (l'erranza millenaria dell'umanità di cui parla Jacques Camatte). Possiamo dire che oggi sta prendendo forma un unico, globale movimento di liberazione? Questo nuovo movimento si sta forse aggirando per il pianeta? Chi scrive pensa di sì: si tratta di saperlo riconoscere, articolando, dal basso e dall'interno, le sue voci con le sue infinite molteplicità, con tutta la ragione e la passione che il momento presente richiede. Il libro di Filippi e Trasatti sembra muoversi proprio in tale direzione.

Federico Battistutta



Francesco Ghezzi,
dall'antifascismo al gulag staliniano

La casa editrice Zero in Condotta ha appena pubblicato il libro di Carlo Ghezzi (già segretario della Camera del Lavoro di Milano) dal titolo Francesco Ghezzi. Un anarchico nella nebbia. Dalla Milano del teatro Diana al lager in Siberia (pp. 126, e 10,00). L'autore ricostruisce la vita di Francesco, suo parente, una bella figura di anarchico, che dopo essere stato esule in Svizzera e Germania per sfuggire alla respressione seguita alla strage del Diana si stabilì in Unione Sovietica  per venire poi internato, in seguito alle purghe staliniane, nel campo di Vorkuta, in Siberia, dove trovò la morte. Ne pubblichiamo l'introduzione di Massimo Ortalli.
Francesco Ghezzi

C'è chi ha voluto vedere nella fine dell'Unione Sovietica, nella dissoluzione dei regimi comunisti e nell'assestamento di nuovi equilibri mondiali una sorta di fine della storia. La definitiva e irreversibile conclusione di un processo che era nato dai presupposti del progresso, dell'emancipazione sociale, dell'affrancamento dal bisogno e dalla miseria, ma che poi si è sviluppato mostruosamente nei suoi contrari: nella drammatica contrapposizione tra gli obiettivi proposti e i risultati effettivamente concretizzati. Quasi a significare che il grande progetto di liberazione dell'uomo dallo sfruttamento e dai condizionamenti materiali e morali ormai non avesse più possibilità di realizzarsi, e marcasse la sua definitiva sconfitta insieme con l'ammainarsi della bandiera rossa sulle cupole del Cremlino.
Ma di fine della storia non si può effettivamente parlare. Non può essere che il progetto di libertà e solidarietà che ha mosso le grandi aspirazioni del pensiero socialista e libertario sia circoscrivibile a quelle manifestazioni che hanno visto riprodursi la violenza del potere sull'individuo nel corso del cosiddetto secolo breve. Come non può essere che la speranza di un mondo migliore e l'interpretazione dei mezzi idonei alla sua realizzazione debbano restare definitivamente ristrette dentro le maglie di svolgimenti totalitari e liberticidi. Ci sono altre strade da percorrere e, anche se oggi si stenta a scorgerle e attualizzarle, esse sono lì che attendono soltanto che il cammino riprenda.
Il protagonista di questo libro ne è testimonianza.
Francesco Ghezzi è un operaio milanese, un anarchico, un sovversivo, fuggito dall'Italia per sottrarsi alla “giustizia” fascista e approdato, dopo lunghe peregrinazioni in vari paesi europei, nell'Unione Sovietica, sicuro di trovarvi condizioni di una vita migliore, e di poter contribuire, con la generosità dei suoi ideali, a quel grande processo di emancipazione sociale che aveva entusiasmato il proletariato di tutti i paesi. Una storia comune, la sua, a quella di altri rivoluzionari, di altri ribelli affamati di giustizia sociale che, pur partendo da esperienze diverse, ripararono, col cuore gonfio di speranza, nel “paradiso socialista”, nel paese del socialismo reale. Si sa che per loro le cose non andarono affatto così, perché, nonostante alcuni innegabili miglioramenti nelle condizioni di vita del miserabile proletariato russo, una pesantissima cappa di oppressione e di controllo sociale si sarebbe abbattuta sulla nuova società comunista, finendo con l'annullare il significato stesso di quella grandiosa esperienza in una paranoica paura verso qualsiasi forma di dissenso se non, addirittura, di critica.
Francesco Ghezzi fu una delle tante vittime di questa mostruosa degenerazione, ma fu una vittima indomita e mai rassegnata, una vittima esemplare. Infatti, pur consapevole dei rischi cui andava incontro con il suo comportamento ribelle, non smise mai di affermare i suoi ideali e di proclamare solidarietà alle vittime dello stalinismo. E per questo fu dapprima emarginato, calunniato e perseguitato, poi mandato a morire in un gulag, in obbedienza a quelle “disposizioni di servizio” che il regime bolscevico applicava per neutralizzare i dissidenti. E purtroppo, come sappiamo, fra questi veniva incluso chiunque non fosse disposto ad accettare supinamente l'involuzione burocratica e autoritaria che negava sistematicamente i presupposti sui quali si era affermata la rivoluzione proletaria.
Carlo Ghezzi, significativa figura del movimento operaio milanese, è legato a Francesco da un vincolo di parentela. È un parente che non dimentica e intende riportare alla luce una memoria storica quanto mai emblematica delle contraddizioni e delle tragedie del novecento. Con un ammirevole lavoro di scavo, ricostruisce le tante vicissitudini che hanno segnato la vita del suo predecessore, dalla prima formazione anarchica nelle fabbriche milanesi all'opposizione attiva alla guerra, dalla partecipazione alla campagna per la liberazione di Errico Malatesta e Armando Borghi nel 1921 alla strage del Diana, dalla forzata scelta dell'esilio alla decisione di riparare nell'Unione Sovietica per costruirsi una nuova vita, dal pieno inserimento lavorativo nella nuova realtà socialista alla incessante e coraggiosa critica rivolta alle disfunzioni e alle contraddizioni che immiserivano la vita del popolo russo, fino alla tragica scomparsa in un gulag siberiano, dove il regime riesce finalmente a farne tacere la voce.
Molto spesso, quando si affronta una biografia, il rischio dello storico è quello di farsi “coinvolgere” dall'oggetto delle sue indagini, mettendo a repentaglio l'obiettività e la serenità del suo giudizio. Ma in questo caso l'affetto dell'autore risalta proprio come il pregio maggiore dalla narrazione tragica e avvincente dei fatti, né intende mascherarsi dietro il paravento asettico della ricerca storica. È l'affetto di chi sente di condividere l'idealità di fondo del protagonista, ma è anche, soprattutto, il sentimento nutrito per il parente perduto, per colui che non si è mai conosciuto, che è andato a morire lontano, ma di cui si avverte ancora forte la vicinanza. E i sensi di tale ritrovata, affettuosa vicinanza emergono particolarmente dalla ricostruzione puntigliosa e per molti versi seducente delle vicende della famiglia, qui ripercorse sin da quando i comuni antenati lasciarono la piccola Cusano sul Seveso per trasferirsi nella grande città. A Milano un'intera generazione proletaria, quella di Francesco, partecipò al processo storico che avrebbe trasformato le masse contadine in proletariato urbano, e avrebbe ridisegnato un territorio prevalentemente artigianale e ancora profondamente attaccato all'economia agricola in quello di una moderna città industriale, al passo con i nuovi tempi e con le profonde modificazioni sociali imposte dalla rivoluzione dei processi produttivi.
Francesco Ghezzi fa parte pienamente di queste trasformazioni, di cui è anzi figura paradigmatica, rappresentando con la sua vicenda biografica un ceto che si trasforma in classe e che partecipa attivamente a quel nascente movimento sociale così ricco di prospettive cui dedica tutte le sue forze e la sua volontà, insieme con i compagni di lavoro e di fede. Un esempio di abnegazione quale solo situazioni di estremo cambiamento possono produrre.
La ricostruzione di Carlo Ghezzi è particolarmente attenta e partecipe nel restituire l'impegno totale e totalizzante di Francesco, un impegno che lo porta (assieme agli inseparabili Ugo Fedeli e Pietro Bruzzi) a scelte spesso estreme e pericolose, tali da esporlo inevitabilmente sia alle attenzioni della giustizia, sia a quelle, altrettanto pesanti, del nascente fascismo. Il tentativo di coinvolgerlo ingiustamente nell'efferato attentato al Teatro Diana, che sarà la causa del suo lungo peregrinare in Europa fino all'approdo nell'Unione Sovietica, non fu altro, infatti, che la strategia consapevole operata da un potere politico e giudiziario intenzionato a spianare la strada alla violenza squadrista, neutralizzando quanti, come Francesco e i suoi compagni, avrebbero potuto rendere meno facile l'ascesa al potere del fascismo. E merito della lunga e ostinata ricerca di Carlo, che ha voluto sottolineare con decisione l'estraneità del lontano parente alla tragedia del Diana, è anche quello di avere ribadito l'inconsistenza di una sorta di “leggenda nera” che per anni ha inseguito i protagonisti di una parte non indifferente del movimento anarchico milanese dei primi decenni del novecento. Così, riscrivendo le peripezie di Francesco – vittima e non colpevole –, ha portato un nuovo contributo a una lettura più obiettiva e onesta di quelle lontane vicende.
Viviamo tempi, lo sappiamo, che ci rendono quasi impossibile incrociare esistenze esemplari, vite dedicate a una causa sociale che indichi strade collettive di riscatto, di emancipazione, di libertà. Vite animate da una passione capace di trasformare un progetto visionario in pratica quotidiana, temprate dallo scontro con una realtà al tempo stesso drammatica ed esaltante. Vite ricche di dignità, insomma, in grado di diradare la “nebbia” che ammanta il potere e di illuminare l'esistenza di chi è costretto a subire ogni forma di sfruttamento morale e materiale. Fu questa la vita di Francesco Ghezzi, una vita eroica senza volerlo essere, una vita esemplare anche se vissuta, soprattutto negli ultimi anni, consapevolmente “annullata” nella massa della nuova società. Una vita che ci ricorda che l'eroismo, quello vero e non quello agghindato di retorica e demagogia, consiste nel saper portare rispetto alle proprie convinzioni. Rispetto sempre e comunque, anche a scapito della propria sopravvivenza. E siamo davvero grati a Carlo Ghezzi perché questo suo lavoro non è solo un commovente omaggio a un grande compagno, ma è anche uno stimolo a continuare a percorrere, anche se più modestamente, la stessa strada di Francesco Ghezzi.

Massimo Ortalli



Ancora sull'anarchia selvaggia
di Pierre Clastres

Del volume di Pierre Clastres L'anarchia selvaggia (Elèuthera, Milano, 2013, pp. 120, 12,00) abbiamo pubblicato in “A” 381 (giugno 2013) una recensione di Federico Battistutta. Alberto Giovanni Biuso ci ha fatto avere la sua e volentieri la pubblichiamo. L'importanza del lavoro di Clastres ne giustificherebbe anche una terza.

Il potere è inevitabile, la guerra è inevitabile. Non esistono società senza potere né società senza guerra. Meno che mai le società primitive sono società senza potere e senza guerra. E tuttavia i selvaggi vivono senza stato, senza fede, senza legge, senza re. Com'è possibile? Il contributo etnologico di Pierre Clastres è fondamentale proprio perché spiega con chiarezza la differenza. La differenza tra il potere e lo Stato, la differenza tra la guerra e il dominio, la differenza tra le società indivise e le società costruite sull'Uno.
Contro la teologia liberale e marxista della storia1, l'etnologo rifiuta ogni determinismo evoluzionistico di “figure del sociale che si generano e si concatenano meccanicamente” (p. 30); egli cancella in questo modo la condizione di incompletezza e di grado zero della storia che l'ideologia coloniale liberale e marxista attribuisce ai popoli primitivi. Contro ogni etnologia della miseria, lo studioso mostra la miseria dell'etnologia e della sua miope convinzione che l'accumulazione costituisca il motore di ogni società e lo stato il senso di ogni convivenza civile. Per comprendere i primitivi bisogna oltrepassare le unilateralità del discorso naturalista, del discorso economicista e del discorso scambista.
Nel primo caso è comunque troppo netta e antropocentrica la tesi di Clastres che separa ontologicamente l'umano dalla natura, il biologico dallo storico: “La società umana non è materia della zoologia, ma oggetto della sociologia” (p. 41). Una simile separazione è metodologicamente e antropologicamente ingenua, come gli studi successivi hanno mostrato. L'animale umano è appunto un animale, le cui logiche di comportamento si inscrivono totalmente nell'ambito biologico – e come potrebbe essere altrimenti? – con le peculiari sue caratteristiche culturali, così come ogni altra specie possiede delle qualità sue proprie sia di struttura sia di funzione.
La critica agli altri due discorsi è invece molto più ampia e fondata. Contro quello economicista, i dati etnologici e l'argomentazione logica mostrano – anche sulla scorta degli studi di Marshall Sahlins – come il modo di produzione domestico (Mpd) “assicuri in realtà una completa soddisfazione dei bisogni materiali della società, a fronte di un tempo limitato dedicato alle attività di produzione e della bassa intensità con cui sono espletate (...) le società primitive, sia di cacciatori nomadi sia di agricoltori stanziali, sono in realtà, considerando il poco tempo destinato alla produzione, vere e proprie società del tempo libero” e “società dell'abbondanza” (pp. 46 e 97). Esse si comportano infatti seguendo l'invito evangelico a non preoccuparsi per il domani perché a ogni giorno basta la sua pena e a imitare invece l'esempio degli uccelli e di altri animali che non accumulano ma che ogni giorno si nutrono2. In altre, e chiare, parole: “I selvaggi producono per vivere, non vivono per produrre” (p. 101). La loro logica, i loro comportamenti, la loro concezione della vita, delle relazioni e del tempo è dunque l'opposto di quella incarnata dall'imprenditore capitalista, la cui figura è invece presa a modello dalla teorie economiche sia liberiste sia marxiste.
Sul discorso scambista – che è in gran parte quello di Lévi-Strauss, maestro di Clastres – l'analisi è articolata. Clastres condivide la tesi della centralità dello scambio ma ne inverte la funzione rispetto alla pratica della guerra. Quest'ultima, infatti, non è il risultato di uno scambio fallito; non è dunque l'esito di una pratica commerciale che nel mondo primitivo non esiste, ma è la struttura e la condizione di base di quelle società. La guerra ha lo scopo fondamentale di mantenere ciascuna di quelle società autonome rispetto alle altre e indivise al proprio interno. Si tratta di società-per-la-guerra poiché “finché c'è guerra, c'è autonomia: per questo la guerra non deve, non può finire, per questo è permanente” (p. 69). La guerra svolge la funzione costitutiva di forza centrifuga e di tutela del molteplice. La società primitiva è egualitaria al proprio interno, dove domina il principio di identità, ma è separata rispetto all'esterno, dove domina il principio di differenza. Sono società indivise – ciascuna di esse rappresenta una totalità –; senza classi, poiché non vi sono ricchi che sfruttano il lavoro degli altri; senza organi separati del potere, che invece rimane per intero all'interno della comunità, non si proietta e incarna in istituzioni e figure separate dal corpo sociale.
Chi è dunque il capo? Il capo è qualcuno che anzitutto deve possedere talento oratorio e generosità. La prima qualità gli serve per fare da “portavoce, ovvero dire agli Altri che cosa desidera e che cosa vuole la comunità” (p. 28). La seconda qualità è necessaria perché “il big man lavora, letteralmente, per la gloria, e la società gliela concede volentieri occupata com'è ad assaporare i frutti del lavoro del capo. Gli adulatori vivono a spese degli adulati” (p. 106). Anche qui vige un dispositivo inverso rispetto alla società dello stato, nella quale il capo raccoglie e utilizza il frutto del lavoro dei sottoposti, un dispositivo che Clastres definisce del debito. Se il capo è in debito con la società, quella è una società indivisa – senza stato –, se invece la società è in debito con il capo, vuol dire che si è prodotta la scissione tra dominanti e dominati ed è quindi nata la società dello stato.
Per comprendere la struttura delle società primitive è quindi indispensabile non confondere il potere con il prestigio, errore quasi generale in cui incorrono gli studi etnologici, e non soltanto essi:
“Che cosa spinge il big man? In vista di che cosa si impegna? Non certo in vista di un potere che se si sognasse di esercitare la gente della tribù rifiuterebbe di subire, bensì in vista di un prestigio, di quell'immagine positiva che gli restituisce una società pronta a celebrare in coro la gloria di un capo così prodigo e lavoratore. Ed è proprio questa incapacità a pensare il prestigio senza il potere che pesa su molte analisi di antropologia politica, rivelandosi particolarmente erronea nel caso delle società primitive” (pp. 105-106).
Le società tribali possiedono quindi antidoti efficaci contro la nascita dello stato e cioè della divisione all'interno della struttura sociale tra chi comanda e chi obbedisce. Uno dei più universali e costanti è appunto la guerra, con la quale viene garantita la permanenza e la conservazione di “una molteplicità di comunità indivise che obbediscono tutte a una stessa logica centrifuga. Qual è l'istituzione che esprime e insieme garantisce il permanere di questa logica? È la guerra, come vera relazione tra le comunità, come principale mezzo sociologico di promozione della forza centrifuga di dispersione contro la forza centripeta di unificazione (...) Quanto più c'è guerra, tanto meno c'è unificazione, e il miglior nemico dello Stato è la guerra. La società primitiva è una società contro lo Stato in quanto è una società-per-la-guerra” (p. 71). Hobbes aveva dunque ragione a sostenere che lo stato è contro la guerra. La società primitiva conferma tale legame di esclusione ma ne capovolge il senso “affermando che la macchina della dispersione opera contro quella dell'unificazione. Ovvero ci dice che la guerra è contro lo stato” (p. 72). Si potrebbe tuttavia a questo punto chiedere perché gli stati moderni, come le società primitive, sono caratterizzati anch'essi da una condizione di costante guerra reciproca.
A ogni modo, se le società primitive non possono permettersi una pace universale – che porrebbe a rischio la loro libertà –, non possono neppure sostenere la guerra generale, il cui risultato sarebbe la fine dell'eguaglianza. È per questo che scattano le alleanze, soprattutto quelle familiari – lo scambio delle donne –, per garantirsi un insieme di amici dal comportamento neutrale o favorevole nel caso di un conflitto con gruppi nemici. Diventa a questo punto chiaro che “la logica della società primitiva è dunque una logica centrifuga, una logica del molteplice. I selvaggi vogliono la moltiplicazione del molteplice. E qual è il principale esito del dispiegarsi della forza centrifuga? Opporre una barriera invalicabile, il più potente ostacolo sociologico, alla forza inversa, ovvero alla forza centripeta dell'unificazione, dell'Uno. (...) Ora, qual è quella forza legale che ingloba tutte le differenze per eliminarle, che poggia precisamente sull'abolizione della logica del molteplice per sostituirla con quella opposta dell'unificazione, qual è l'altro nome di quell'Uno che rifiuta nella sua stessa essenza la società primitiva? È lo stato”. (pp. 69-70)
Lo stato come identità, la società come differenza. Il contenuto dell'indagine etnologica di Clastres diventa a questo punto tutt'uno con la prospettiva metodologica “di un relativismo culturale che, rinunciando all'affermazione imperialista di una gerarchia di valori, ammette ormai la coesistenza di differenze socioculturali, senza la pretesa di giudicarle” (p. 25). La società primitiva cerca e vuole, infatti, la frammentazione, la differenza, la dispersione in una varietà di gruppi tra di loro separati e autonomi, viventi su un territorio del quale utilizzano e consumano in modo egualitario le risorse, riconoscendo soltanto il prestigio di un capo lavoratore e donatore, negandogli invece qualunque potere separato dal corpo sociale. La logica della società primitiva “è una logica della differenza” (p. 59). Non a caso, nello studiare tutto questo, Clastres formula soprattutto due nomi, oltre a quelli di Lévi-Strauss e di Hobbes. I nomi di Étienne de La Boétie e di Friedrich Nietzsche, entrambi avversi all'Uno e al suo dominio.

Alberto Giovanni Biuso

Note

  1. “Risulta da tutto ciò che il marxismo non può pensare la società primitiva perché la società primitiva non è pensabile all'interno di questa teoria della società. L'analisi marxista vale, forse, per le società divise o per i sistemi dove, apparentemente, la sfera dell'economia è centrale (il capitalismo). Ma quando la si vuole applicare a società indivise, a società che si collocano nel rifiuto dell'economia, una tale analisi più che strampalata appare oscurantista. Non saprei dire se sia facile o meno essere marxisti in filosofia, ma è evidente che esserlo in etnologia è semplicemente impossibile” (p.111).
  2. “Aborigeni australiani e Boscimani, quando stimano di avere raccolto sufficienti risorse alimentari, smettono di cacciare e di raccogliere. Perché stancarsi a raccogliere quello che non si può consumare?” (p. 97).



Chico, l'anarchico
dei due mondi

Come anarchico sono più interessato alla vita che alla morte delle persone!”
(Alessio Lega)

Sono sicuro che Angelo Pagliaro e Antonio Orlando hanno tenuto presente questo assunto, peraltro molto diffuso nell'ambito della ricerca storica anarchica, durante la stesura di Chico il professore. Vita e morte di Francesco Barbieri, l'anarchico dei due mondi (coedizione La Fiaccola e Zero in Condotta, Milano, 2013, pp. 352, € 22,00). Per anni infatti, quello dell'anarchico calabrese è stato solo un cognome affiancato al più famoso Camillo Berneri. I due vennero assassinati insieme durante le tragiche giornate di Barcellona del maggio del '37, in quel gorgo di tradimenti, omicidi politici e illusioni perdute che fu il “labirinto spagnolo”, secondo una felice definizione della storiografia inglese. A interessare gli studiosi che hanno lavorato a quest'opera, non sono solo le misteriose circostanze della morte, peraltro ben ricostruite, ma le scelte di vita delle quali fu protagonista Barbieri e che s'intrecciano con gli avvenimenti, i luoghi, le lotte della macrostoria.
Per questo il lavoro storiografico di Pagliaro e Orlando assume una valenza che va al di là della ricostruzione biografica, offrendo un ricchissimo panorama delle vicende storiche nelle quali il movimento anarchico fu protagonista. Dalle lotte per l'emancipazione dei lavoratori in Argentina e il ruolo che proprio gli emigranti italiani ebbero in esse, alla guerra civile spagnola, passando per le dure esperienze di carcere ed espulsioni.
Le imprese della lotta armata con il gruppo Culmine al fianco di Severino Di Giovanni, che spaccarono il movimento sui metodi da adottare per condurre le lotte; l'incontro e l'amicizia a Parigi con Berneri nell'ambito del tentativo di organizzare gli antifascisti italiani all'estero; la guerra al fronte e per le strade della Spagna sono le tappe più significative dell'avventura umana dell'anarchico calabrese.
Il lavoro di ricerca a tutto campo ha esplorato con sapienza le fonti storiche, riportate in un ricchissimo apparato di note, restituendo così la figura di Barbieri come uomo di azione, sempre in prima linea, temuto dalle polizie di due continenti, in particolare da quella fascista, che a lungo lo braccò.
Il libro non si esime dal ragionare sulle varie ipotesi formulate nel corso dei decenni per fare luce su mandanti ed esecutori del duplice omicidio, le cui modalità rimandano con certezza a un'esecuzione mirata compiuta da sicari scelti, e sul quale una parola definitiva ancora non è stata scritta.
Pagliaro e Orlando presentano al lettore documenti e testimonianze che seguono le piste principali, che sostanzialmente si riducono a due: quella che porta al Psuc direttamente controllato dagli stalinisti e dall'Unione Sovietica e quella, meno probabile, che attribuisce l'omicidio a spie fasciste dell'Ovra.
Particolarmente emozionanti le parole del racconto dei funerali nel ricordo di Umberto Marzocchi: “In testa al funerale centinaia di bandiere, tutti i sindacati, tutti i gruppi anarchici, dietro i cinque carri un centinaio di anarchici del Mir, del Movimento di Investigazione Rivoluzionaria, con le mauser... e poi tutta la folla! Io sono in testa con la bandiera italiana...”
Una nota di carattere editoriale, ma non meno rilevante se letta in prospettiva futura, è il fortunato connubio nord-sud, fra Zero in Condotta e La Fiaccola, grazie al quale è stato possibile giungere alla stampa di quest'opera.
Il lungo lavoro degli autori ha dato frutti copiosi anche in termini di nuovi materiali documentali, che potrebbero essere fruibili in un'eventuale edizione ampliata in formato ebook. Un libro quindi che colma un vuoto storiografico a lungo rimasto aperto come una ferita, e che oggi diventa finalmente una storia di tutti per tutti: la storia di Francesco Barbieri.

Fabio Cuzzola



Teatro civile
e coscienza critica

Il vecchio della torre di Zelinda Carloni è un racconto noir per giovani lettori. Anzi, lettori-ascoltatori, infatti può essere considerato un racconto-spettacolo, adatto a una lettura corale, e in pubblico.
“Vi racconto”. Inizia così “una storia che porterà molto lontano”, mentre coinvolgimento diretto e tono colloquiale della voce narrante abbattono la quarta parete.
Il titolo rimanda al pezzo che un commissario-capo, preposto a indagini investigative, e per diletto autore dei testi e regista di una compagnia teatrale amatoriale, sta ultimando.
Senza accorgersene, si viene accompagnati nel gioco del teatro nel teatro. Il commissario si servirà di un'attrice della sua compagnia, per creare un espediente e riuscire a intrappolare la mano infame che infierisce a morte su bambini e adulti tedeschi, residenti in Italia, scelti a caso nel mucchio, come in una roulette russa.
Il commissario Ideale, con la sua aria da stordito-insonne-cronico, un po' bischero e slanci da cascamorto quando si trova a tu per tu con una donna, è uomo interprete del sentire comune.
L'approccio cerebrale, mai sùbito lucido rispetto ai casi da risolvere, è infarcito di citazioni colte, guide autorevoli e motivo conduttore per orientarsi nell'intricato labirinto degli indizi. Spesso sproloquia nomi fragorosi di letterati, ma poi dichiara tutta la sua ignoranza quando si tratta dei fatti storici delle Shoah: “Non ho mai sentito queste cose”! Sarà Donna, detta Didi, “strana creatura che pareva uscita da un racconto fantastico” ad aprire alla conoscenza il commissario-regista-autore, a volte attore. E il sodalizio Donna-Ideale si rivelerà ben riuscito.
Calate nell'intreccio fittizio dei casi investigativi da risolvere, le spiegazioni di Donna accrescono realtà oggettiva agli stessi avvenimenti storici da lei narrati. Il giovane ascoltatore-lettore-spettatore si trova a conoscere, forse per la prima volta, come per il commissario, attraverso la mediazione di un racconto dai risvolti noir, i crimini del nazismo.Nella finzione letteraria, la mano assassina agisce in nome delle vittime, facendosi paladina della massima di Dostoevskij: “Ognuno è responsabile di tutto davanti a tutti”. Collocato altresì in apertura e chiusura del racconto, il motto conferisce un andamento circolare alla struttura narrativa. La frase è ripresa anche nelle battute conclusive del pezzo teatrale scritto dal commissario-regista-autore, e pronunciate dal personaggio-vecchio saggio, custode della memoria.
Ma la massima di Dostoevskij potrebbe rappresentare inoltre il punto di partenza per un finale in divenire, aperto a un dibattito con il giovane pubblico, sollecitato a interpretarla a più voci, nel suo significato profondo. Il racconto-spettacolo si rivela quindi un'opportunità per un primo approccio ai temi della memoria individuale e collettiva, del conformismo e del negazionismo, della violenza subdola che va smascherata. Il vecchio della torre può ricavarsi uno spazio meritato, in un contesto di teatro civile dove la narrazione-spettacolo diventa occasione di sensibilizzazione e formazione di una coscienza critica. Da coltivare fin dalle giovanissime generazioni.

Claudia Piccinelli

Il libro Il vecchio della torre non è pubblicato, può essere richiesto in pdf all'autrice: lindazeli@hotmail.it.



Con Vladimir Vysotsky
nel cuore

Lottavo romanzo (Sicilia Punto L, Catania, 2013, p. 165, € 10,00) raccoglie ventinove scritti piuttosto brevi di Marco Sommariva e un testo finale, che mi figuro con i piedi ben piantati in musica, di Alessio Lega. È uscito quest'estate e l'ho letto disordinatamente e più volte, in treno, a casa, in giro. Solo una volta – l'ultima – l'ho letto seguendo la traccia delle pagine, ma lasciando comunque da parte la prefazione. È perché temo le presentazioni dei libri: non mi va che qualcuno mi suggerisca prima cosa succede dopo, che mi si dia una traccia o un'angolazione da cui prendere la mira, o una qualche chiave. Quando leggo qualcosa mi piace andare in esplorazione da solo: voglio che la lettura sia un viaggio nuovo, voglio farmi sorprendere, voglio che un libro mi apra davanti panorami e preferibilmente panorami di meraviglia. Una mezza sorpresa l'ho avuta già nel corso delle prime letture (solo mezza perché un po' lo conosco, credo di aver letto grande parte delle cose scritte da Marco e questo è davvero uno dei suoi lavori più complessi e riusciti), una sorpresa intera l'ho avuta scoprendo quest'ultimo tratto, la prefazione appunto. Mi ero fatto un'idea complessiva del libro e già stavo buttando giù degli appunti che avrei poi trasformato in questa segnalazione, ma nel leggere la prefazione di Haidi Giuliani mi sono accorto che praticamente tutto quello che avrei voluto raccontarvi lei l'aveva già scritto, prima e molto meglio di me.
Cambio quindi strada e, magari più banalmente, vi racconto Lottavo romanzo dal rumore che fa, dai suoni che lo abitano. Marco Sommariva ama impastare le parole dei suoi racconti con una specie di colonna sonora: dà raramente delle indicazioni specifiche, non sceglie brani lunghi né canzoni intere, ma lavora a un mosaico di frammenti, di tracce, di scie sonore che nell'economia del suo lavoro di scrittore hanno altrettanto peso. Potrei descriverlo come quel disordine di suoni che escono dalle finestre delle case quando passi per una di quelle strade di quartiere fatte di poco o niente silenzio, rumori e voci a tutte le ore e in tutte le gradazioni. È un groviglio comunque ancora riconoscibile quello nel suo libro d'esordio Il cristallo di quarzo, con i Radiohead mischiati ai Pink Floyd in una babele fitta di worldmusic mediorientale oppure maghrebina oppure da chissà dove. In uno dei suoi primi lavori Vorompatra ti entrava nelle orecchie un mix elaborato di Jackson Browne e chitarristi solitari in un angolo più Ub40 e voci telefoniche più Patti Smith e Rem più Tom Waits: una mescolanza artificiale ma possibilissima, specie se letta come un'antologia veloce di suoni familiari a un ragazzo nato negli anni sessanta e cresciuto felice col pop degli anni settanta ed il rock degli anni ottanta, ma a disagio nella musica degli anni novanta e lasciato chiuso fuori da quella del millennio nuovo. Nel più recente Il venditore di pianeti alle orecchie arriva molto poco di riconoscibile: è un rumore continuo, bagnato e nebbioso come un novembre a nordest, di macchine che passano e clacson e frenate, grumi sonici che escono dalle radioline e dagli altoparlanti dei televisori, gente che grida per strada e dentro le stanze ma che ci raggiunge come da dietro un vetro opaco. Per caratterizzare Lottavo romanzo Marco cambia strada, e sceglie piuttosto esplicitamente Vladimir Vysotsky cantato con la voce di Eugenio Finardi (Il cantante al microfono, edizioni Velut Luna, 2008, velutluna.it: cercate questo cd e ascoltatelo con tutta l'attenzione possibile), riuscendo a intrecciare fili rossi tra ciascun racconto breve e ritagli di strofe del cantapoeta russo.
Il libro ha dimensioni piccole, resta comodo tra due mani, ma mentre lo si legge si trasforma e diventa un album di fotografie sempre più grandi e sempre più nervose e intrise di inquietudine, oscurità, disperazione. Le parole sono il pretesto per raccontare storie di occasioni buone strappate di dosso ai protagonisti, sogni dai quali ci si risveglia con ancora i segni dei denti e delle unghie sul viso, giornate buttate via una dopo l'altra galleggiando in mezzo a un mare di gente e di spettri ma comunque soli, sprecate aspettando fuori di un portone che nessuno apre o al buio in cerca di una qualche luce da accendere. Lo stesso, le canzoni che lo abitano sono sconfinate dichiarazioni d'amore e d'indipendenza messe in bocca a un profeta alcolista, condannato a restare straniero dappertutto e sempre nonostante le traduzioni più amorevoli.

Marco Pandin



L'anarchia, le anarchie,
le anarchiche, gli anarchici

Per i tipi della casa editrice imolese La Mandragora (editricelamandragora.it) è uscito il volume di 570 pagine ( 32,00) Ritratti in piedi, in cui sono raccolti tutti gli scritti che il nostro collaboratore Massimo Ortalli ha pubblicato su questa rivista tra il 2001 e il 2009, nella sua omonima rubrica. Ne pubblichiamo l'introduzione di un nostro redattore.

Se la piccola cooperativa editoriale di cui mi occupo da 43 anni pubblicasse anche libri, questo dovrebbe essere nel nostro catalogo. Si tratta infatti della raccolta completa dei testi che Massimo Ortalli ha scritto sulla rivista anarchica “A” per quasi nove anni, nella sua rubrica Ritratti in piedi. E sottolineo l'aggettivo sua perché nessuno fino ad allora aveva avuto l'idea di porre un'attenzione organica e sistematica a quello sterminato mondo di scritti originati dal fecondo incontro tra anarchia e letteratura.
In questa sede mi preme evidenziare che se questo incontro, che data da oltre un secolo e mezzo e dura tuttora, ha dato tanti risultati nella letteratura e in terreni artistici assai variegati (si pensi al teatro, al cinema, ecc.) è perché l'anarchia non è “solo” un ideale politico-sociale o un movimento che ad essa si richiama, ma è tante e tante cose in più. Al punto che a volte mi sembrerebbe più preciso e chiarificatore parlare di anarchie, al plurale. Con il rischio, però, di non cogliere appieno quel sentimento di fondo che tutte queste anarchie tiene assieme.
I ritratti che Massimo Ortalli ripropone in questo suo scrigno di umanità di oltre 500 pagine ci permettono di approfondire la conoscenza di tante persone, reali o romanzate poco importa, tramite le quali le grandi idee anarchiche si sono fatte vita quotidiana, relazioni, progetti di lotta e tante altre cose.
Dietro e dentro questi scritti, dunque dietro e dentro questo ponderoso volume, c'è Massimo Ortalli, un individuo, un anarchico, con tutta la sua conoscenza sulla storia dell'anarchismo. Anima dell'Archivio storico della Federazione Anarchica Italiana, collezionista, studioso, autore di pubblicazioni, conferenziere è tra quanti (a dire il vero, pochi) hanno gli strumenti per cercare di abbracciare l'inabbracciabile, in altre parole avere una visione d'insieme di quanto attiene all'anarchia, fosse anche solo con attenzione prevalente per quella di lingua italiana – che è ben altra cosa dal dire l'anarchismo in Italia, data l'entità e l'importanza dell'emigrazione, dell'esilio e del radicamento nei cinque continenti.
Pur in possesso di tanta “scienza”, non si potrebbe nemmeno affrontare un processo di comprensione/narrazione dell'anarchismo e degli anarchici senza coglierne empaticamente il mondo, il sistema di valori, i comportamenti, i dibattiti politici, vorrei dire anche i tic, le abitudini mentali, gli automatismi emotivi, quella estrema ricchezza di umanità, di idee, di esperimenti, di lotte che all'anarchia in vario modo si richiamano. Dentro l'anarchia, le anarchie, c'è di tutto e questa raccolta di scritti, all'incrocio con la letteratura, ne è ulteriore conferma.
Va poi tenuto presente che l'impegno storiografico di Massimo assume un senso compiuto solo alla luce del suo e del nostro impegno militante, se tale si può definire la volontà di contribuire alla trasformazione del mondo, non solo alla sua “scrittura”.
Delicato ma fondamentale equilibrio è quello tra ricerca storica e impegno politico, dove la reciproca autonomia (soprattutto per quanto attiene alla prima, che deve essere libera da ideologismi e schemi prefissati) non deve significare estraneità e distanza dalle vicende del mondo attuale e dall'impegno contro le ingiustizie che sta alla base del nostro coinvolgimento nelle idee e nel movimento organizzato che cerca di portarle avanti.
Già, le idee. Non è certo questa breve introduzione a permettere una disanima foss'anche veloce del ricco patrimonio di esperienze, riflessioni, sofferenze, lotte, scritti che hanno fatto e fanno dell'anarchismo un patrimonio – uno tra i tanti, a mio avviso – al quale ovunque e sempre si possa attingere per pensare e operare nella prospettiva di una nuova società. Nel baule che gli anarchici preservano e cercano di arricchire, da portare nell'arca di Noè verso un mondo migliore, di idee ce ne sono a iosa. E con Massimo di queste idee parliamo, discutiamo, riflettiamo, dubitiamo. Materia viva, appassionante, ma a volte datata, per la nostra rispettiva e spesso comune sensibilità. Idee da approfondire e riesaminare, a volte da lasciare a un passato che ci pare proprio passato. Perché le idee, per gli anarchici, sono (o meglio, dovrebbero essere, a mio avviso) un patrimonio da riesaminare, ridiscutere, sul quale riflettere. Mai un dogma.
Diverso è il discorso che riguarda gli individui, le donne e gli uomini che hanno fatto e che fanno la storia dell'anarchismo: portatrici e portatori in vario modo di quelle idee, testimoni dei principi cui esse si ispirano per tradurli in atti quotidiani, di impegno, di vita, di solidarietà, di lotta.
Lo accennavo all'inizio. Il patrimonio ideale dell'anarchismo è eccezionalmente ricco, variegato, a tratti emozionante, ma alla luce dell'esperienza mostra più di una corda: non nell'ispirazione di fondo (una società di liberi e di uguali, la pratica della solidarietà, ecc.) ma nelle modalità per avvicinarsi a una realizzazione anche solo parziale. L'esperienza e la riflessione hanno fatto crescere in me continui punti interrogativi, le “certezze” si sono diradate e a volte dileguate, il “quando l'anarchia verrà / tutto il mondo sarà trasformato” mi fa sorridere, a tratti anche amaramente.
Ma resta intatta in tutta la sua meravigliosa ricchezza l'umanità, altra parola non mi viene per descrivere quell'impasto alchemico di idee e comportamenti, di orizzonti ideali e quotidiana vita solidale: come sintetizzava il nostro insuperato Errico Malatesta, di pensiero e volontà.
Per dirla in altri termini, la tragica esperienza delle “rivoluzioni” comuniste (lenin-staliniste), Auschwitz e Hiroshima e tanti altri avvenimenti, hanno segnato radicalmente la storia e posto interrogativi sulle modalità per realizzare un mondo migliore. Le idee-forza dell'anarchismo restano un punto chiaro e fisso, in cielo. Nel cielo delle idee, appunto.
In terra ci sono, hanno operato e operano gli individui, magari associati in gruppi, organizzazioni, federazioni, ma comunque individui. E dai migliori di questi – che costituiscono il sottofondo dei ritratti proposti in queste pagine – viene la vera, profonda e, a mio personale avviso, unica conferma possibile dell'interesse per quelle nostre idee. Perché in questi individui le idee si sono fatte comportamento, hanno acceso amicizie, hanno costruito fiducia, hanno determinato lotte. Hanno fatto scuola.
Dall'intrecciarsi del mio personale, quotidiano dialogo con Massimo emergono sempre più punti interrogativi su idee, strategie, prese di posizione. Certo, resta fondamentale l'ancoraggio alla concezione malatestiana dell'anarchismo, con la sua attenzione alla dimensione etica, indispensabile anche per fare da contrappeso alle dure e a volte tristi necessità della lotta.
Ma Massimo e io ci rendiamo conto che non basta, in particolare nel quotidiano operare. E allora ciò che ci lega a queste strane e affascinanti idee passa principalmente attraverso la vita delle persone migliori che abbiamo conosciuto, dei compagni e delle compagne che ci apparvero grandi non solo per ciò in cui credevano o per gli anni di galera fatti sotto il fascismo, ma anche (e soprattutto) per la loro piccola quotidiana sensibilità e attenzione verso gli altri.
“Non mi interessa se tu sei credente, mi interessa che tu sia credibile” amava dire il mio amico don Andrea Gallo. Quanta verità in quelle parole, applicate anche agli anarchici.
E le anarchiche e gli anarchici in carne e ossa che popolano questi ritratti, credibili lo sono stati e lo sono tuttora. In loro l'anarchia, prima ancora che un ideale, è stata ed è pratica di vita. Non è poca cosa. Per me, per il mio personale non semplice né facile rapporto con l'anarchismo, direi che è tutto.

Paolo Finzi