rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013



Esquel (Agentina)/
Ma l'acqua vale più dell'oro

Tra i tanti movimenti composti da comunità che si uniscono per opporsi a un progetto di sfruttamento della natura, il movimento No a la Mina è uno tra i più vasti, determinati e organizzati. Conosciuto e sostenuto in tutta l'America Latina, il movimento è nato in Esquel, città di solo 80.000 abitanti, situata ai piedi della precordigliera andina, un centro importante della selvaggia Patagonia argentina.
Negli anni della crisi economica, lo stato argentino emanò una serie di leggi e agevolazioni fiscali per favorire l'industria mineraria, aprendo così i cancelli all'arrivo di compagnie straniere, che estrassero le ricchezze minerarie presenti nel territorio argentino. L'obiettivo è stato senz'altro raggiunto, visto che oggi in Argentina si contano oltre 150 progetti di estrazione mineraria.
A Esquel in particolare arrivò l'impresa canadese Merdian Gold, pronta ad aprire una miniera a cielo aperto per estrarre l'oro dai monti di Esquel. Se inizialmente, per disinformazione o per passività, la cosa non suscitò particolare malcontento nella città, presto le cose cambiarono. Un gruppo di attivisti riuscì a inoltrarsi in un'area controllata dalla compagnia mineraria e a filmare delle immagini incredibili: il fiume era passato dalla sua naturale colorazione azzurra a uno spaventoso colore giallo. Il video del rio amarillo (fiume giallo) fece presto il giro della città e dell'intera provincia del Chubut, e i cittadini di Esquel – per la maggior parte persone trasferitesi lì per godere la tranquillità e la salubrità della vita patagonica – aprirono gli occhi e cominciarono a organizzarsi, autoconvocando riunioni di vicinato, adottando la formula “vicini informano vicini”.
Al grido “el agua vale mas que el oro” (l'acqua vale più dell'oro) tutta Esquel cominciò a informarsi e informare riguardo le spiacevoli conseguenze del progetto minerario, presto denominato dai cittadini “el saqueo” (“il saccheggio”).
I motivi di maggior preoccupazione riguardavano naturalmente i danni ambientali e la salute degli abitanti. Tra i pericoli più seri, quello dei drenaggi acidi, ovvero la formazione nell'acqua di acido solforico, dovuto alla liberazione del solfuro contenuto dalla roccia: i drenaggi acidi sono altamente inquinanti e richiedono decenni o addirittura secoli prima di sparire. Simile il discorso per i metalli pesanti, anch'essi contenuti nella roccia e liberati tramite l'attività mineraria: non potendo essere smaltiti dagli esseri viventi, si accumulano nell'organismo, con effetti nocivi perfino sul sistemo nervoso.
Altro grave problema ecologico è quello dovuto all'uso massivo di cianuro come mezzo per estrarre l'oro dalla roccia; viene utilizzato perché altamente economico (con una tonnellata di cianuro, costo 1.500 dollari, si possono estrarre fino a 6 kg di oro, per un valore di oltre 140.000 dollari). Ciò che alle compagnie minerarie non importa però, è che il cianuro è altamente tossico: una quantità di cianuro equivalente a un chicco di mais è sufficiente per uccidere un uomo adulto. Ultimo, ma non per importanza: in un solo giorno di estrazione mineraria vengono consumati milioni di litri di acqua (senza che la compagnia mineraria debba pagare alcuna tassa per l'uso).

Marcha del movimento No a la Mina

Come se non bastassero i danni ambientali, i cittadini di Esquel si sono presto resi conto che lo sviluppo economico promesso dai fautori del progetto minerario non è reale, in quanto quasi tutta la ricchezza finisce per arricchire i già ricchi paesi stranieri; anzi, al contrario, questa attività economica non sostenibile va a danneggiare enormemente le attività economiche sostenibili che si praticano in Chubut, come l'agricoltura e l'allevamento. Attività che danno impiego a molte più persone di quelle che sarebbero impiegate nella miniera.
Come il rio Chubut, che nasce nella cordillera che sovrasta Esquel e prosegue fino al Pacifico attraversando in larghezza tutta l'Argentina, così il movimento No a la Mina è presto arrivato ben oltre la città di Esquel. L'intero Chubut si è reso conto che il problema è anche loro e la solidarietà non è mai mancata, sia a livello nazionale che internazionale; oggi il sito web del movimento (noalamina.org) è uno dei principali punti di riferimento per informazioni e ricorsi contro ogni progetto di sfruttamento minerario presente al mondo.
Il 4 di dicembre del 2002 la piazza principale di Esquel si riempì di cittadini che marciarono per gridare il loro “no” al progetto minerario. Da allora, ogni quarto giorno di ogni mese, Esquel scende in strada con una marcha che attraversa il centro della città a suon di tamburi, slogan cantanti, bandiere al vento, molte delle quali sono bandiere mapuche. Ogni marcha si conclude con un'assemblea, dove gli interventi sono aperti a tutti, per informare e per organizzare le prossime tappe della protesta. In più di dieci anni di lotta si sono visti anche momenti memorabili: immaginate oltre un migliaio di persone marciare sfidando il freddo e le intemperie dell'inverno patagonico.
La determinazione della protesta in Esquel ha portato il governo a concedere un sondaggio ufficiale, nel quale i cittadini erano chiamati a esprimere il loro sì o il loro no al progetto minerario. Era il 23 marzo del 2003. Il risultato non lascia spazio a dubbi di alcun tipo: un netto 81 per cento ha scelto per il no. In seguito ai risultati del plebiscito, Esquel venne dichiarato “municipio non tossico e ambientalmente sostenibile”; le attività industriali e minerarie che richiedessero l'uso di sostanze tossiche vennero proibite, e le zone montagnose situate all'interno del municipio vennero dichiarate “aree paesaggistiche protette”. (ord. 33/03)
Per di più una legge provinciale proibì in tutto il Chubut “l'attività metallifera nella modalità a cielo aperto e l'utilizzo di cianuro nei processi di produzione”.
La vittoria del movimento No a la Mina è stata un'inequivocabile dimostrazione del potere che può esercitare il popolo: l'azione congiunta di tutta la popolazione, unita e decisa, vale di più degli interessi delle multinazionali e dei politici.
Ma nonostante il plebiscito e il chiaro verdetto della città di Esquel, le compagnie minerarie continuano a cercare il modo per far partire il “saccheggio”; per questo i cittadini non hanno mai abbassato la guardia, continuano a riunirsi, a informare, anche appoggiando e collaborando con altre comunità che si trovano ad affrontare situazioni simili.
E la “guerra” non si può considerare finita, perché se a Esquel non manca la determinazione dei cittadini contro questo assurdo progetto di sfruttamento della natura, non manca nemmeno l'ostinazione del potere nel suo processo di disinformazione, false promesse e repressione. Per di più, la famosa legge anti-terrorismo emanata nel 2012 dallo stato argentino, ha di fatto trasformato in terroristi perseguibili penalmente anche questi liberi cittadini, preoccupati per la loro acqua e la loro salute.
Curiose e interessanti sono le iniziative promosse dal movimento No a la Mina in Esquel, oltre alle riunioni autoconvocate di vicinato, che sono tuttora il cuore della protesta. L'assemblea mensile “ufficiale” di tutto il movimento Esquel è pubblica, aperta a tutti, e viene trasmessa integralmente in diretta da Radio Kalewche, una radio libera fondata da Asociacion Mapu, un'associazione che offre appoggio al popolo mapuche. Ognuno può ascoltare alla radio tutti gli interventi e le decisioni dell'assemblea e qualora non fosse d'accordo può telefonare o uscire di casa e andare a dire la sua.
Inoltre, nel marzo 2012, durante la celebrazione dell'anniversario del plebiscito, tra le varie iniziative venne organizzato una sorta di festival, il cui fine era mostrare nella pratica tutte le attività sostenibili che sono non solo possibili ma auspicate da tutti; ciò per dire che dietro a un “no” c'è sempre un “sì” ad altre cose, ed è un “sì” consapevole e determinato tanto quanto il “no”.

Michele Salsi



Cile/
Quarant'anni dopo

Siamo al quarantesimo anniversario del colpo di stato in Cile che portò al potere il dittatore Augusto Pinochet, mettendo fine al governo di Unità popolare e anche a un movimento di lavoratori, contadini, studenti e Mapuche che a loro volta avevano messo in atto un progetto autogestito e libertario.
(...)
Il popolo cileno, i lavoratori, gli studenti e i Mapuche avevano un'idea tutt'altro che accomodante nei confronti del capitalismo cileno, delle multinazionali e dell'imperialismo militare. In quei tre anni ci sono state organizzazioni popolari e di base che hanno portato avanti un progetto libertario e autogestito che intendeva veramente espropriare e autogestire tutti i mezzi di produzione e attuare una vera riforma agraria che consegnasse ai contadini la terra e che mettesse a disposizione di tutti i cittadini le risorse ricavate dalle materie prime (rame) contestando fortemente il programma riformista di Salvador Allende.
Dall'altra parte il governo di Unità popolare dopo aver fatto credere ai cileni e all'opinione pubblica internazionale che il loro era un progetto socialista. Solo i lavoratori, i contadini, i baraccati, gli studenti e i Mapuche lottavano con convinzione e determinazione per l'interesse generale del popolo e sperimentavano in molti casi forme di lotta autogestita e libertaria occupando fabbriche, espropriando i latifondisti per una vera riforma agraria e mettendo in autogestione la distribuzione dei generi alimentari, spropriando tutte le grandi compagnie di distribuzione e di vendita di alimenti, perché questi si era fatti responsabili del mercato nero.
(...)
In diciassette anni abbiamo avuto 60mila morti assassinati dai militari, ventimila scomparsi, 250mila esiliati, un milione e mezzo di immigrati. Nel 1980 i militari hanno fatto la propria costituzione che è la carta costituzionale del Cile. Il Cile è l'unico paese dell'America Latina ad avere ancora oggi una costituzione militare vigente.
Dal 1990 a oggi si sono susseguiti al potere i democristiani, i socialisti e la destra, ma per i cileni non è cambiato assolutamente nulla. Tutte le risorse naturali del paese sono state privatizzate e oggi sono in mano alla borghesia cilena e alle multinazionali. La riforma agraria è stata cancellata e migliaia di contadini non hanno la terra. La terra dei Mapuche è stata data alla multinazionale della cellulosa, il loro territorio è stato militarizzato. Centinaia di Mapuche sono finiti in carcere per difendere la propria terra. Il Cile non riconosce nessun diritto ai Mapuche; nonostante la loro opposizione e la rivendicazione del proprio territorio lo stato cileno li ha cacciati in un angolo sempre più piccolo. (...)

Comitato lavoratori cileni esiliati



Marocco/
Il segreto per diventare un uomo libero

Il Maghreb per chi vive in Europa rappresenta un mondo così vicino eppure così lontano, non solo per la natura, ma anche per il modo di vivere, e l'Africa è davvero lontana, soprattutto perché l'Africa è un posto dove si può essere ancora liberi.
Dopo un paio di settimane spese sulla costa atlantica del Marocco decidiamo di perderci nell'Anti-Atlas. Attraversiamo infiniti altipiani circondati da montagne rosse, di terra arida, così arida da essere bellissima. Si annusano atmosfere da deserto, tende berbere lungo la strada, nomadi accampati con il loro gregge, e fuochi accesi per la sera.
Andiamo a Tafrarout per cercare un posto dove dormire. In 4/5 ore di viaggio non abbiamo incrociato nessuno, se non due vecchissimi mercedes pieni di persone, e un paio di camion tenuti insieme con lo spago. Abbiamo negli occhi il color miele del tramonto e capisco perché sono di nuovo qui in Marocco. Ci sono posti che ci chiamano, e anche se già visitati ci chiedono di ritornare.
Il Marocco è uno stato dove convivono diverse etnie. In fondo quelli che noi chiamiamo marocchini non esistono, sono una costruzione di un mondo fatto di stati, e non, come mi piacerebbe, di popoli.
Tra le etnie che vivono in Marocco quella che più mi affascina è quella dei berberi, uno degli ultimi popoli nomadi. Integrati con gli arabi, i berberi vivevano tra l'attuale Marocco e l'Egitto prima che gli arabi colonizzassero queste terre.
I berberi parlano una loro lingua, il tamazight: nel sud del Marocco è facile incontrare persone che lo parlano come prima lingua. Nella loro lunghissima storia i berberi, o meglio gli amazigh (Il femminile, tamazight, viene appunto usato per designare la lingua berbera) non hanno mai fatto guerre di conquista, solo vittoriose resistenze. Gli amazigh sono stubborn (caparbi) come i posti dove vivono, infatti vivono camminando tra il deserto e l'oceano, e non a caso imazighen, plurale di amazigh, significa “uomini liberi”.
Gli amazigh quando hanno bisogno di soldi vendono tappeti, gioielli o formaggio nei suk delle città che incontrano.
Adoro i suk: si acquista cibo, vestiti, gioielli, prodotti che gli artigiani fabbricano sotto gli occhi dei clienti. Sono luoghi nei quali pulsa la vita.
Quando cammini per un suk gli artigiani del luogo ti guardano da lontano, e da come sei vestito o ti comporti sanno da dove vieni, quindi che lingua devono usare. Ti studiano senza farsi capire, pensano a quale frase usare quando gli passerai vicino, sanno capire se è un buon investimento offrirti del tè. Da quello che guardi intuiscono quali possono essere i tuoi bisogni.
Sanno che ti fermerai, e tu ti fermi. Non puoi non fermarti a guardare come tessono nel loro laboratorio la lana, cuciono la pelle, modellano la ceramica, battono il ferro. I lavori artigianali sono qualcosa che mi affascina, mi incuriosisce.
In una società come la nostra dove sembra che conti solo la testa, saper usare le mani per costruire qualcosa ha un che di magico.
Se compri un cappellino, non acquisti solo un indumento, ma apprezzi il lavoro che ci sta dietro, la fatica per produrlo, il fatto che è un pezzo unico. E quel lavoro lo puoi vedere, si consuma nel laboratorio nel quale sei entrato. Il prezzo è una conseguenza, tanto che non ha bisogno di essere esposto, e varia in base al materiale, la lavorazione, la dimensione, le ore di lavoro, e soprattutto il cliente. Dipende da quanto sei simpatico e quanto ci sai fare. Acquistare in un suk non significa passare alla cassa, acquistare significa contrattare, è un'arte che presuppone doti recitative e capacità economiche.
Se non sai quanto costa un kg di pane lascia perdere, non hai termini di confronto, rischi di farti del male. Puoi sempre applicare la teoria dell'1/3 ma non sempre ti permette di valutare correttamente un affare, e comunque puoi offendere. Quelli che odio sono i “biancovestiti”, tipicamente hanno una camicia bianca, i bermuda e indossano cappelli di paglia. Loro hanno i soldi e non contrattano, o se lo fanno è solo per far vedere agli amici quanto sono bravi. Comunque, in un modo o nell'altro, rovinano la piazza.

Tappeti in vendita nella bancarella di un suk

A Trafarout non volevo comprare un tappeto, l'avevo già comparato un anno fa a Fez.
Ma mi aspettava e quindi: inshallah.
È stata una trattativa estenuante, durata ore. Abbiamo parlato dell'Italia, del Marocco, della crisi, della politica, del Ramadan. Abbiamo bevuto due tè. Ho fatto per andarmene due volte. Ho conosciuto la moglie e i figli. Abbiamo srotolato il negozio di tappeti, ma avendone ben chiaro uno in particolare. Per Mohammed era chiaro sin dall'inizio che l'avrei preso, ma si parlava di lui parlando degli altri tappeti. Che tecnica di vendita sofisticata! Hanno perfino istituito un kindergarten (giardino d'infanzia) per tenere a bada i bambini.
Nussardim, un amico marocchino che ho conosciuto a Lisbona, mi ha spiegato che prima di negoziare sul prezzo occorre che chi vende scenda almeno tre volte.
Qui vale tutto, ma soprattutto occorre recitare: “Non ho soldi”, “Sono alla fine delle vacanze”... Solo dopo il terzo ribasso di chi vende è sensato fare una contro offerta. Deve essere più bassa di quello che si vuole spendere. A questo punto se il prodotto viene messo via è inutile proseguire, la cosa può avere solo due sviluppi: la trattativa si è chiusa con un niente da fare e qualche parola araba, oppure quando si farà per andare via si verrà inseguiti dicendo che va bene e il venditore fingerà di essere arrabbiato. In questo secondo caso l'affare l'ha fatto decisamente chi vende, ma ti vuole dare l'impressione di aver vinto.
Se invece la trattativa continua allora occorre essere capaci di tenere il prezzo. Tipicamente chi vende prova a farti vedere quale prodotto puoi comprare al prezzo che hai proposto, oppure aggiunge merce per rendere la cifra più interessante. È qui che occorre tirare fuori le migliori doti di negoziazione.
Troppo spesso bollata con disprezzo, la contrattazione è arte e rende i posti vivi.
Da noi i prezzi devono essere esposti in vetrina per legge. Dietro le vetrine generalmente ci sono ragazze carine che con un sorriso ti dicono che se hai bisogno di qualcosa puoi chiamarle. Tutto è esposto su scaffali ed è a prova di cretino. Non devi nemmeno essere capace di sommare, intanto paghi il mese prossimo, devi essere capace solo di strisciare la carta di credito.
Davanti a un laboratorio si rimane affascinati, come intontiti. Ci vengono mostrati i passaggi dal prodotto grezzo a quello finale. I prodotti sanno delle mani che li hanno lavorati. Gli scaffali dei nostri negozi nascondono esattamente questa meraviglia, la uccidono nelle ingiuste fabbriche del sud-est asiatico. Questa dimensione prima di essere economica è sociale. Il luogo dove si commercia è un luogo d'incontro tra persone, e noi l'abbiamo ridotto al nonluogo dei centri commerciali. Odio i centri commerciali, ogni volta che ci entro è come se uccidessi un pezzo d'umanità, quella che si nutre di relazioni tra persone.
Sono a Tarfaya a riposarmi, un posto sperduto tra l'oceano e il Sahara. Per arrivarci abbiamo dovuto percorrere una strada che a tratti era coperta da dune di sabbia. Tarfaya era dove Saint-Exupery veniva a riposarsi dopo aver sorvolato il deserto con il suo biplano. Nell'unica via della città soffia il vento che alza la sabbia, muove le lamiere e rotola oggetti sulla terra. Gli abitanti del posto riposano aspettando il tramonto, quando il Ramadan gli permetterà di bere e mangiare. C'è un caffè con wifi, carico qualche foto su istagram e aggiorno i miei appunti. Navigando su internet scopro che su berberi.com hanno pubblicato una posizione:
“We are looking for a guy 43 years old, he must love desert life. His duties are: goats sheppard and carpets maker. Skills required: funny stories writer. We offer the secret to become a amazigh. (Stiamo cercando un ragazzo, età 43 anni, deve amare la vita nel deserto. I suoi compiti sono: pastore di capre e artigiano dei tappeti. Capacità richieste: scrittore di storie divertenti. Offriamo il segreto per diventare un amazigh, “un uomo libero”). Ho applicato... inshallah.

Gianluca Luraschi
gianluca.luraschi@gmail.com



Carrara/
Largo Ugo Mazzucchelli

Ugo Mazzucchelli (1903-1997) è stata una delle figure più note del movimento anarchico a Carrara nello scorso secolo.  In particolare per il suo ruolo durante la lotta antifascista e nell'immediato dopoguerra. Uomo d'azione, ha legato la propria vita in quegli anni anche ad azioni clamorose (quali la fuga dal carcere di Massa), a un'intensa attività militare contro le truppe nazi-fasciste, e ricoprì tra l'altro l'incarico di “esattore”, per un prestito forzoso presso i benestanti della zona, per riscuotere i contributi risultati infine volontari, in favore della lotta partigiana. Nel secondo dopoguerra, con la Cooperativa del Partigiano e altre iniziative, fu tra i protagonisti dell'attivismo degli anarchici locali per la ripresa della vita sociale ed economica dell'area apuana. Esponente della Federazione Anarchica Italiana, fu attivo in numerose iniziative e associazioni, tra cui quelle dei partigiani (in particolare la Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, Fiap). Furono dovuti alle sue iniziative, il monumento ad Alberto Meschi, a Gaetano Bresci, a Franco Serantini a Pisa e il monumento a tutte le vittime del fascismo, con la partecipazione della Fiap e il patrocinio del Comune di Carrara.
Negli ultimi tempi sono state proprio le due associazioni partigiane Anpi e Fiap ad essere tra i promotori di una raccolta di firme e di altre iniziative per l'intestazione, in città, di una via o di una piazza a due comandanti partigiani, rispettivamente l'anarchico Ugo Mazzucchelli e il comunista “Memo” Alessandro Brucellaria.
A Carrara, dove già ci sono via Camillo Berneri, via Gino Lucetti e piazza Sacco e Vanzetti, è stata deliberata la titolazione di un largo a Ugo Mazzucchelli con il relativo assenso da parte della prefettura, ultimo atto necessario per procedere ormai alle definitive e prossime inaugurazioni.



Abbiategrasso (Mi)/
In difesa del Pagiannunz

Se in una domenica illuminata dal sole primaverile Milano vi sembrasse ancora troppo grigia prendete la bicicletta e percorrete l'alzaia del Naviglio Grande; strada facendo incontrereste una cittadina chiamata Abbiategrasso. A 20 km dalla Darsena, con i suoi 30.000 abitanti, è conosciuta soprattutto per il Castello Visconteo eretto nel 1382.
Proprio qui tra circonvallazioni, strade provinciali e fabbriche abbandonate al degrado sorge un'area in cui la natura ha voluto prendersi gioco di provetti lottizzatori e costruttori esaltati: un luogo da cartolina, per i più romantici, un vero e proprio rifugio per la fauna selvatica. L'area è alimentata dalla roggia Cardinala, che porta acqua alle terre in questione e che a lungo andare ha creato un'area umida di grande valore ambientale, dove vivono specie protette che dovrebbero essere tutelate da direttive europee, nazionali e regionali. Tantissimi gli animali che abitano queste terre: tritoni crestati, rospi smeraldini, raganelle, orbettini, natrici dal collare, biacchi, germani reali, barbagianni, aironi rossi, cavalieri d'italia e aironi cenerini.
Quest'oasi urbana è affettuosamente chiamata “Pagiannunz” (Parco Giardino dell'Annunziata, dal nome dell'antico convento che sorge alle sue spalle) dai cittadini che da un anno a questa parte stanno cercando di difenderla attraverso la creazione del Comitato per la difesa del territorio abbiatense. Infatti l'area è al centro di un grande progetto di urbanizzazione: il Pgt prevede che su quest'angolo di mondo ancora incontaminato venga edificato un centro commerciale di 19.000 mq.

Abbiategrasso (Milano).
L'area umida chiamata Parco Giardino dell'Annunziata
(Pagiannunz) prima dell'intervento delle ruspe

Quella del Pagiannunz è una triste storia che si muove a colpi di ordinanze comunali per fermare i lavori e di conseguenti ricorsi al Tar della società “proprietaria” del terreno: l'Essedue di Bergamo; società che non ha avuto esitazioni nel bloccare l'acqua, fonte di sostentamento per l'ecosistema creatosi, e nel portare ruspe all'interno dell'area, devastandola.
Ma ancora di più, quella del Pagiannunz è una bella storia di lotta dal basso, di persone volenterose e coraggiose che non hanno voluto accettare la distruzione del proprio territorio, che non si sono piegate davanti all'illusione del falso benessere portato dal cemento e dall'urbanizzazione e che non hanno avuto paura davanti all'ennesima prepotenza del denaro.
Tante le attività portate avanti dal Comitato per sensibilizzare i cittadini sul tema, ma ancora più numerose le iniziative di dissenso nei confronti dello scempio ambientale: dai concorsi per i bambini delle scuole abbiatensi ai presidi e ai cortei che più volte hanno attraversato la città. L'ultimo capitolo del Pagiannunz è stato scritto nella seconda metà di settembre.
È giovedì 19 settembre: la proprietà si presenta all'alba sul “luogo del delitto” armata di avvocato e di ruspa. Le piante vengono estirpate insieme al resto della vegetazione, l'approdo degli aironi viene devastato e vengono scavati canali di scolo per fare in modo che l'area si prosciughi. È un attimo e associazioni, comitati e semplici cittadini sono pronti alla mobilitazione. Nella notte riescono a fermare la ruspa per qualche ora, ma i “lavori” proseguiranno fino alla mattina successiva.

19 settembre. Il Pagiannunz dopo la devastazione

L'intervento delle autorità giunte sul luogo per controllare eventuali irregolarità è praticamente inutile, parlano di ulteriori accertamenti. Le ruspe intanto proseguono.
Al sorgere del sole non si vedranno né gli aironi volare né si udirà il gracchiare di rospi e raganelle.
Nel frattempo un mezzo di dimensioni molto più grosse rispetto a quelli che avevano lavorato finora nell'area giunge sul posto a dar man forte alla distruzione.
Manca qualche ora a mezzogiorno e il comune emette l'ennesima ordinanza per fermare i lavori in una zona di pregio ambientale. Troppo tardi. Le scavatrici si allontanano dal Pagiannunz.
L'area umida non c'è più. Ci sono alberi tagliati, piante estirpate, nidi distrutti, profondi solchi nel terreno, segni di pneumatici, rifiuti di qualche ruspista affamato e il rumore del traffico alle proprie spalle. Per la proprietà forse tutto è pronto per la costruzione di quel discusso centro commerciale che servirà a schiacciare le piccole attività dei negozianti locali, prima di vederlo fallire lasciandosi alle spalle disoccupazione e cemento.
Per la proprietà forse... ma non per coloro che da sempre si sono opposti all'ennesimo scempio del territorio.
Forse infatti l'ultimo capitolo della storia del Pagiannunz può ancora essere scritto: da lunedì 23 settembre, appena quattro giorni dopo quello che si pensava essere l'epilogo della vicenda, l'acqua è tornata a bagnare i terreni e qualche airone è tornato a volare sul luogo del misfatto.
Quindi, se per caso in quella famosa domenica primaverile decideste di passare per Abbiategrasso, guardate i campi arati e le fabbriche dismesse e provate a immaginare che lì un tempo gli aironi volavano a pelo d'acqua e che nella notte i barbagianni cantavano alla luna. Oppure vedendo un luogo ricco di vegetazione dove gli uccelli cantano e volano a pelo d'acqua, potete giustamente pensare che la natura si è ripresa il suo spazio.

Camilla Galbiati