rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013


società

Metamorfosi del potere

di Andrea Papi


L'esercizio del comando più che complementare è funzionale e assoggettato alle logiche di chi domina influenzando e ricattando.


Non si vede nessuna luce in fondo al tunnel e si percepisce un'inquietudine diffusa, a tratti rabbiosa. Non parlo della politica politicante che, decidendo purtroppo parte dei nostri destini territoriali, è di fatto estromessa dai giochi sovrastanti che incidono pesantemente sulle sorti di tutti e di tutto. La politica, nelle forme vigenti del potere che le competono, è infatti sempre meno il luogo in grado di determinare il senso e la direzione del cammino. Ciò che stiamo vivendo, al di là della nostra capacità di rendercene conto, è di fatto un salto di qualità difficile da cogliere nella sua reale portata. Qualità nel senso di identificazione delle caratteristiche e delle proprietà, ovviamente, non certo di miglioramento, dacché non stiamo affatto bene e stiamo progressivamente peggiorando, almeno guardando lo status esistenziale della maggior parte degli esseri umani e dei contesti naturali, che sono quelli che veramente ci interessano.
Al contrario, lo sguardo sulla e della politica politicante e di chi dirige i fili del soggiogante gioco economico che ci sovrasta, mostra che si muovono in uno spazio/tempo che ci riguarda solo perché lo subiamo. Incombono sopra le comuni esistenze quotidiane al di là di esse. Il punto fondamentale allora è capire che per riuscire a comprendere cosa sta succedendo bisogna andare oltre l'evidenza della nostra quotidianità. Se ci limitiamo a guardare filtrando semplicemente lo sguardo attraverso i criteri e gli stereotipi acquisiti, non riusciremo a cogliere il movimento delle cose, perché quei criteri e quegli stereotipi non sono più in grado di interpretare in modo sensato.
Emblematica e altamente significativa in proposito è la metafora del lampione riportata dall'economista Jean Paul Fitussi (la Repubblica 2 settembre 2013). “Quasi tutti conoscono la storia del tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l'unico punto illuminato della strada. (...) Siamo noi a scegliere cosa occorre illuminare, i fenomeni da analizzare, i sistemi di misurazione che conviene utilizzare, gli obiettivi da perseguire. (...) Possiamo scegliere cosa vogliamo illuminare, siamo noi che decidiamo il posizionamento dei lampioni (...) Come la luce delle stelle morte ci arriva ancora molto tempo dopo la loro fine, quella di teorie invalidate dai fatti continua a espandersi.”

Occhio ai lampioni

Così, se prendono forma situazioni inconsuete o compaiono fenomeni nuovi, diversi nella sostanza da ciò che eravamo abituati a vedere, siccome i nostri sistemi ermeneutici non sono più adatti a misurarli né a interpretarli in modo adeguato, perdiamo qualunque possibilità di vederci chiaro. Se continuiamo ad accendere i lampioni in luoghi che sono isolati o che stanno scomparendo progressivamente, convinti al contrario di illuminare tutto lo spazio, di conseguenza non riusciremo a vedere concretamente gli accadimenti reali. Semplicemente non sono stati accesi i lampioni giusti nei posti giusti, per cui si cercherà di agire seguendo una rappresentazione teorica e immaginaria che ha ben poco a che fare col mondo reale.
Il problema a cui mi voglio riferire è quello annoso della qualità del potere che ci sovrasta e ci costringe, determinando in modo asfissiante la qualità delle nostre vite. Se vogliamo contrastarlo, identificando modalità efficaci che siano in grado sia di limitarne gli effetti sulle nostre vite sia in prospettiva di superarlo fino a liberarsene, dobbiamo innanzitutto capire con cosa abbiamo a che fare. Ci accorgeremo che la vecchia narrazione a cui siamo stati educati, che vede nell'economia del capitalismo proprietario e nelle gerarchie del potere statale i due punti cardine del dominio cui saremmo sottoposti, non è più minimamente in grado di aiutarci. Anzi non può che risultare ingannevole, dal momento che ci rappresenta un palcoscenico in via di estinzione che induce a scelte e visioni che allontanano dal reale.
Per quanto riguarda l'economia capitalista ne ho già scritto diverse volte anche su questa rivista. Non abbiamo più a che fare con un sistema di potere univoco, ben strutturato e impostato, bensì con un insieme di sistemi in sinergia, spesso anche in concorrenza fra loro, impostati per conquistare egemonie, in tendenza permanenti, ma anche legate a situazioni specifiche. Predominante su tutto non c'è una struttura di classe che decide la politica economica e impone le sue scelte, mentre è egemone una specie di oligarchia finanziaria non strutturata in classe, assimilabile più che altro a un magma fluido, anonimo e non strutturato, che si muove in continuazione tra le fluttuazioni finanziarie al di là della concretezza cartacea del denaro. Senza comandare direttamente s'impone influenzando, ricattando e costringendo. La produzione, sempre meno finalizzata a produrre cose utili e belle, è diventata innanzitutto un mezzo per attivare processi finanziari ed è ormai interamente gestita e realizzata da sofisticate tecnologie elettroniche (robotizzazioni, computerizzazioni, sviluppi cibernetici, ecc.), determinando un ribaltamento antropologico nel rapporto uomo/macchina. La macchinazione non è più pensabile come supporto del lavoro umano, al contrario è questo ad agire da supporto per le programmazioni tecnologiche.

La dissoluzione della politica

Per quanto riguarda la politica, mi sembra piuttosto che sia sempre più evanescente rispetto a come siamo abituati a considerarla. Ciò che le sopravvive non è che l'ombra sbiadita e al tramonto di quell'idea della gestione del potere che aveva illuminato il mondo, perlomeno dall'illuminismo in poi. La visione politica cui siamo stati educati, che nacque come espressione intrinseca delle città-stato per potersi gestire, sta scomparendo innanzitutto perché si sta dileguando il tradizionale luogo di riferimento per l'esercizio del governo, sia in concreto sia teoricamente sia nell'immaginario. Con la modernità la polis era diventata identificazione di un territorio sociale, luogo specifico all'interno del quale la politica, attraverso le sue modalità decisionali, si occupava appunto della gestione e della risolvibilità dei problemi. Pensata e vissuta originariamente come entità autocratica e autosufficiente, la polis viene sostituita progressivamente dalla sopranazionalità globale trionfante che la sta sommergendo annebbiandone la potenza egemonica.
Dopo il tramonto del “principe”, ultima evoluta eredità del feudalesimo, la politica moderna ha avuto senso fino a quando gli stati nazionali sono stati il massimo punto di forza che si imponeva, quando tutto ciò che riguardava il territorio si svolgeva in sua funzione dentro lo stato che lo rappresentava. Questa specificità e questa funzionalità statali hanno perduto di senso e sono divenute vieppiù evanescenti. Gli stati oggi si trovano superati da entità extrastatali molto più potenti che li sovrastano e li condizionano, costringendoli a sottostare a influenze extraterritoriali. La politica dunque, non riuscendo più ad essere veramente sovrana e a esercitare le funzioni tipiche del “principe” secondo il modello machiavellico imperante da secoli, si sta dissolvendo quale luogo eletto, principe e sovrano, delle decisioni che riguardano tutti.
La dimensione dominante che si sta imponendo massicciamente in modo del tutto diverso e nuovo, oltre a essere extra/statale di conseguenza è pure extra/politica, sovra/politica, addirittura meta/politica. Il momento/potere della decisionalità, che si dovrebbe svolgere con modalità proprie dentro ogni entità nazional-statale, non esiste praticamente più nei termini cui eravamo abituati. Cioè, continuano senz'altro dei rituali istituzionali molto simili a quelli tradizionali, ma deprivati di forza e di senso perché non possiedono più l'autonomia del percorso, trovandosi invece obbligati all'interno di direzioni da cui dipendono totalmente e sulle quali non sono in grado d'intervenire. La vigente politica ufficiale, residuale e sopravvissuta, trasformatasi ahimé in mero politicantismo che vivacchia alla giornata, ormai non può che limitarsi ad amministrare, sostanzialmente a subire, le influenze i ricatti e le imposizioni, più o meno dirette e più o meno ufficiali, con cui viene sistematicamente circuita dal dominio globale, extra/nazionale e meta/politico sovrastante.
Bisogna cominciare a prender atto che si sta inverando una vera e propria metamorfosi del potere, che perciò non può più essere affrontato nei termini tradizionalmente noti, ormai desueti e inadeguati. Individuato nello stato, metaforico Leviatano hobbessiano, il malefico luogo del sommo potere sovrano per eccellenza, nella considerazione che se ne era sempre avuta non poteva che essere identificato quale acme del dominio, capace di racchiudere in sé tutte le virtù e i vizi del comando e dell'imposizione massimi. Soprattutto in casa anarchica è sempre stato la bestia nera per eccellenza insieme alla proprietà privata, il nemico principale, abbattuto il quale il dominio in tutte le sue forme dovrebbe esser destinato ad estinguersi, vien da dire quasi d'incanto, perché non potrebbe più esercitarsi attraverso la sua forma storica.
Se tutto ciò poteva avere un senso, e in buona parte effettivamente ce l'aveva, ai tempi di Bakunin, Marx e Malatesta, oggi è quasi impossibile riproporlo come visione un minimo realistica. Se riuscissimo a osservare con acutezza e senza apriorismi, non potremmo non accorgerci che lo stato non rappresenta più il punto più alto della dominazione suprema. Gli stati oggi sono sempre più assimilabili a una specie di amministratori territoriali per conto di predominanze sopra ed extra statali, che li sovrastano e influenzano pesantemente costringendo i governi nazionali a restringere di moltissimo la propria autonomia decisionale.
Mi sembra di poter dire con sicurezza che le forme del potere non sono più univoche e sono riconoscibili in almeno due aspetti portanti e determinanti, che per comodità chiamerò “potere di comandare” e “potere di dominare”.

Contro il nichilismo del potere dominante

Il potere di comandare corrisponde alle vecchie classiche modalità: possibilità, legittimata dall'uso della forza, di decidere e imporre agli altri cosa debbono fare. Si esprime attraverso le varie forme di comando gerarchico e si sorregge sulla coazione, sull'ingiunzione e sull'obbligo imposto. Emanazione diretta dei vari militarismi, storicamente è strettamente legato alla monarchia prima, allo stato nazionale poi.
Viceversa il potere di dominare difficilmente si esercita in modo diretto. Corrisponde alla risoluta possibilità di imporre il proprio interesse e la propria volontà attraverso la capacità di influenzare con decisione, di ricattare, di costringere senza remissione, oppure di sedurre e allettare al di là e oltre ogni regola e ogni contrattazione o accordo. È espressione di pura capacità di imposizione e frequentemente agisce in modo subdolo, sottile e infido.
Entrambi non vanno visti né intesi come alternativi l'un l'altro, ma complementari. Sono due facce diversificate dell'imposizione coattiva, tenendo presente però che il potere di dominare è molto più invasivo e poderosamente influente di quello di comandare. Nei fatti non a caso l'esercizio del comando più che complementare è funzionale e assoggettato alle logiche di chi domina influenzando e ricattando. Nella fase attuale il dominio è globale. Stretta emanazione del liberismo speculativo sta condizionando pesantemente le scelte politiche ed economiche degli stati nazionali, sempre meno sovrani e sempre più dipendenti. Il potere politico, che continua a esercitare il comando, ha perso la sua egemonia assoluta e, pur persistendo pesantemente, non può più essere il nemico principale da combattere e abbattere. È il dominio, come sempre del resto, il vero obbiettivo da contrastare, in tendenza eliminare. Non essendo però identificabile in alcun palazzo o in alcuna struttura, bensì nei processi che mette in moto e gestisce, non può essere conquistato né abbattuto, come si poteva supporre per il potere che comanda, mentre dev'essere aggirato, trovando il modo di sottrarsi alla sua devastante influenza, per conquistare piena autonomia di autogestione. La guerra di classe, la guerra rivoluzionaria e consimili non sono perciò più proponibili, almeno se si vuole veramente avversare il nichilismo del potere dominante.

Andrea Papi