rivista anarchica
anno 43 n. 384
novembre 2013


politica

Crisi economica e paradossi

di Antonio Cardella


Cronache di un'estate che è stata già un autunno. E dopo l'autunno...


L'ultima estate è già alle spalle. I pochi vacanzieri che hanno potuto godersela sono rientrati, hanno spalancato le imposte in modo che il tanfo accumulato nelle stanze a lungo disabitate si disperdesse, poi, disfatte le valigie, si sono accostati alle finestre per vedere se qualcosa in loro assenza fosse cambiato nel consueto via vai della strada sottostante. Nulla, apparentemente, sembrava fosse mutato; il solito traffico rumoroso e inquinante al centro, rarissimi passanti sui marciapiedi, tutti a passo spedito, circospetti, come clandestini desiderosi di raggiungere in fretta un rifugio sicuro.
E, per la verità, a parte il frastuono del traffico automobilistico, la zona abitata sembrava parte di una città fantasma: serrande chiuse e saracinesche abbassate malgrado il sole fosse già alto nel cielo.
Anch'io, sebbene stanziale per vocazione e necessità, compivo il rito dell'“affacciata” quotidiana e lo spettacolo che mi si offriva non era molto diverso da quello appena descritto. La lunga teoria dei negozi chiusi per cessazione di attività sembrava non avere mai fine e, se sollevavo gli occhi, le finestre sigillate e le orbite vuote degli appartamenti disabitati davano la misura dell'abbandono e dell'isolamento.
Tento di contrastare la sensazione crescente che il collasso delle attività commerciali, il rarefarsi dei rapporti umani e sociali di un quartiere come il mio debbano elevarsi a metafora di un'intera comunità, quella nostra, nazionale, per quanto eternamente incompiuta.
Solo che ci vorrebbe uno sforzo di fantasia immane per ridurre a semplice congiuntura sfavorevole un'involuzione che ha tutte le caratteristiche di un processo molto difficilmente reversibile.
Intendiamoci: vie di fuga dal disastro incombente ce ne sarebbero se solo fossero nelle corde di chi in questo paese ha il potere di decidere. Purtroppo, oltre alle voragini che apre un sistema economico assolutamente fuori controllo, che continua a colpire ceti sociali senza l'apporto dei quali non vi è speranza di crescita (il mondo del lavoro, dell'istruzione, della ricerca scientifica e dell'industria di base non inquinata dal clientelismo e dalla corruzione), l'Italia del terzo millennio patisce le aggravanti di una classe politica inqualificabile per inefficienza, autoreferenzialità, inquinata da conflitti di casta insanabilmente estranei alle esigenze del paese reale, largamente corrotta.

Progressiva divaricazione

Certo, una crisi del sistema è percepibile in tutti i paesi dell'Occidente, ma quando questa crisi veste il tricolore, si connota di tratti pirandelliani, e precisamente di quei folgoranti ritratti del grande agrigentino, ironici quando non addirittura farseschi, al fondo dei quali si annida non solo il profondo disagio dell'esistere, ma anche la cattiva coscienza di un popolo che si avverte come l'ombelico del mondo e poi, sistematicamente, perde le coordinate della propria sopravvivenza quotidiana.
Siamo figli di quella cultura filosofica greca che riesce a spaccare un capello in quattro, ma poi induce Diogene a vivere per protesta in una botte, nella schizofrenica presunzione di essere mondo compiuto, irripetibile e autosufficiente, mentre la botte gli è necessaria per ripararsi dalle intemperie e vivere in solitudine la propria visione del suo stesso mondo.
Siamo un popolo cinico per pigrizia. Sembriamo tolleranti, ma in fondo siamo solo indifferenti. La politica ci appassiona solo nella misura in cui troviamo qualcuno a cui delegare le fastidiose funzioni dell'amministrazione pubblica, alla sola condizione che questo qualcuno non ci disturbi troppo, non alteri gli equilibri consolidati e soprattutto non metta le mani nelle nostre tasche o, almeno, così prometta.
La conseguenza di questo atteggiamento è una progressiva divaricazione tra il paese reale e i professionisti della politica, i quali, nell'indifferenza generale, riducono i conflitti all'interno dei palazzi del potere, misurandosi non sui problemi concreti della popolazione ma sulle scorciatoie da percorrere per prevalere sull'avversario politico del momento. Così le alleanze si stringono o si dissolvono col solo obiettivo di conservare e, possibilmente, moltiplicare il numero delle poltrone da occupare, indifferenti al prezzo che si fa pagare al paese in termini di gravissime avversità economico-sociali non risolte.
Plasticamente, l'immagine più significativa dell'estate passata è quella di un vecchio presidente della repubblica e di un rampante presidente del consiglio tremebondi di fronte ad uno schermo televisivo in ansia di sapere se un pluridelinquente, più volte condannato (una volta finalmente in via definitiva), di fronte alla solita platea di servi per natura, stipendiati e suffragette, decidesse o meno di sfilare le poltrone su cui le due cariche dello stato erano assise.
Poi il pluridelinquente ebbe pietà di loro e, soprattutto, ritenne più conveniente non far saltare il tavolo, al capo del quale poteva continuare a condizionare la vita politica italiana. Sapeva di aver assunto al suo servizio due “utili idioti” disposti con le loro mani a togliergli le castagne dal fuoco.
Con il governo della larghe intese, voluto e pilotato da Napolitano, il pluridelinquente si assicurava una robusta, decisiva rappresentanza nella stanza dei bottoni. Con il governo Letta, delegava a un rappresentante della sinistra (?) il compito di realizzare le promesse della sua campagna elettorale: se andava bene il merito era tutto di Berlusconi; se andava male il demerito era tutto del presidente del consiglio rampante.
Operazione geniale ma tutt'altro che agevole se non fosse stata favorita dalla smisurata bramosia di una poltrona da parte di un ex (neo) democristiano, infiltratosi nelle fila di un sedicente partito della sinistra, e di un capo dello stato che non ha saputo o voluto valutare quanto la commistione, in un governo, di due forze platealmente avversarie (almeno nell'immaginario collettivo), ne avrebbe paralizzato l'operato.
Non so se, quando queste riflessioni saranno sotto gli occhi dei lettori, il governo Letta sarà ancora in carica. Quello che sinora risulta è che quasi tutti i conti dell'economia reale sono saltati: non si sa dove trovare i soldi per abolire la seconda rata dell'imu, non quelli per impedire di aggiungere un punto in più sulla quota iva, complessivamente – circa 3 miliardi e mezzo – ai quali vanno aggiunti quelli per gli esodati, la cassa integrazione in deroga e il rifinanziamento delle nostre missioni all'estero. Ragioniamo, quindi, tra i 6 e i 7 miliardi da reperire nel giro di poche settimane Nel frattempo Piero Fassino, presidente dell'Anci, ha denunciato che se non arrivano dallo stato i soldi per il mancato introito dell'imu, molti comuni non saranno in grado di assicurare ai propri concittadini i servizi essenziali
A rendere più drammatica la situazione è il peggioramento dei conti pubblici: aumentano gli interessi sul debito pubblico (siamo ormai oltre i 92 miliardi annui); le spese correnti in crescita non sono compensate dal maggior gettito fiscale; c'è da recuperare in fretta lo 0,1 per cento di sforamento dell'invalicabile 3 per cento tra deficit e Pil stabilito e imposto dalla comunità europea: in pratica bisogna trovare in fretta un altro miliardo e mezzo, sempre che non sia fondata lavanzato dal Fmi che si tratti di uno sforamento dello 0,2 per cento.

La tecnica del rinvio

A fronte di questa emorragia inarrestabile di debiti da pagare e di provvedimenti sconsiderati da finanziare (l'abolizione dell'imu così com'è concepita non è la sola), ci sono tutti i dati della recessione: la costante erosione del nostro apparato industriale (Telecom e Alitalia sembra debbano anch'esse volare per altri lidi), il disavanzo energetico, il collasso delle attività commerciali, la costante riduzione dei consumi interni e adesso anche delle esportazioni.
Insomma, il governo presieduto da Enrico Letta – questo epigone desolante di una mai sepolta Democrazia cristiana traffichina e fondamentalmente cinica – con la tecnica del rinvio, ha concentrato a fine anno tutti i nodi non risolti di una situazione che rende ogni giorno più drammatica la condizione di un paese ingovernato.
Il dato paradossale di questa stagione della politica italiana è che il governo Letta non ha amici, neppure tra i partiti che lo sostengono. Gli unici che lo puntellano sono coloro che lo hanno fortemente voluto: Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi.
Adesso, dopo l'Aventino-farsa minacciato dai deputati del Pdl, che hanno offerto al loro idolo le dimissioni da parlamentari, Letta, di ritorno dal viaggio in America, chiede una verifica sulla tenuta della maggioranza. Anche se dovesse ottenere una nuova fiducia, l'esperimento delle larghe intese reggerà soltanto se il duo Napolitano-Letta sarà disposto a subire il costante ricatto del Pdl, pur di non perdere l'effimero bastone di un comando puramente formale. Il che significherà perpetrare l'ennesimo tradimento a un paese stremato, lontanissimo dai demenziali giochi di una politica nazionale in mano a uomini privi di ogni dignità, disposti a tutto pur di non perdere quei privilegi ottenuti da un sistema in caduta verticale, che riunisce attorno allo stesso tavolo parassiti per vocazione, delinquenti conclamati e personaggi anonimi che non sanno neppure loro come siano arrivati a sedere su quelle poltrone, alle quali, quindi, non intendono rinunciare, qualunque sia il prezzo da pagare e da fare pagare.
Come sfuggire a questo destino annunciato?
Orate fratres!

Antonio Cardella