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				 pratiche filosofiche 
                 
                
  
				Quando la filosofia abita altrove 
                  
                di Francesca Scarazzato 
                    
                Nel gennaio 2011 si è tenuto a 
                  Genova un convegno promosso dalla comunità San Benedetto 
                  al Porto. Titolo: “Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche 
                  in movimento”.  Ne 
                  scrissero su “A” 365 (ottobre 2011) i due organizzatori, 
                  Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin. 
  Ora, con il medesimo titolo, ne escono gli atti.  
                 
                  Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ 
                  ... ricorda Signore questi servi/  
                  disobbedienti alle leggi del branco 
                   
                  Fabrizio De André 
                  Smisurata preghiera 
                 È possibile fare filosofia uscendo 
                  fuori dai luoghi in cui è istituzionalmente accreditata? 
                  Si direbbe di sì, a giudicare dalle numerose iniziative 
                  che sono state realizzate in questi anni in Italia e che vanno 
                  sotto il nome di pratiche filosofiche. Un insieme molto vario 
                  di attività che portano la filosofia in luoghi ad essa 
                  tradizionalmente estranei – aziende, carceri, comunità 
                  di recupero, piazze – o approntano luoghi ad hoc – 
                  studi privati per la consulenza individuale, sportelli comunali, 
                  caffè, aperitivi filosofici – o infine, ed è 
                  il caso della Philosophy for children (P4c), modificano il luogo 
                  dove la filosofia è più di casa, l'aula scolastica, 
                  per trasformare la classe in una comunità di ricerca, 
                  impegnata a condividere un'esperienza di pensiero. 
                  Ma portare altrove la filosofia in che modo la altera? E quali 
                  sono gli effetti di questa alterazione? Che tipo di relazione 
                  con la filosofia mettono in gioco le pratiche? E in che modo 
                  fanno i conti con quel regime di verità che da sempre 
                  il discorso filosofico pretende di detenere? Sono solo alcune 
                  delle domande sollevate da un libro da poco in libreria, dal 
                  titolo eloquente Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche 
                  in movimento1, a cura 
                  di Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin, due tra i più 
                  attivi esponenti delle pratiche filosofiche in Italia. A loro 
                  si deve l'organizzazione del convegno omonimo a Genova il 15 
                  e 16 gennaio 2011, su iniziativa della comunità San Benedetto 
                  al Porto, dove Silvia da anni propone comunità di ricerca 
                  – Philosophy for community – con gli ospiti delle 
                  comunità e delle cascine fondate da don Andrea Gallo. 
                  Il convegno, a cui hanno partecipato più di centocinquanta 
                  persone, tra insegnanti, educatori, esperti di pratiche filosofiche 
                  in ambito sociale ed educativo, si è svolto in due luoghi 
                  simbolo di Genova, a testimonianza del desiderio e della possibilità 
                  di risignificare gli spazi. Il primo giorno nelle vie del centro 
                  cantate da De André, nella casa di quartiere Ghettup, 
                  un luogo ideato, insieme ad altre associazioni, dalla comunità 
                  di don Gallo, per dare vita a uno spazio di servizio, di relazioni, 
                  di partecipazione, in un quartiere dove coabitano, non sempre 
                  facilmente, comunità di migranti, abitanti del centro 
                  storico, transessuali. Proprio da qui si è voluto dare 
                  inizio all'incontro, aperto, a nome della comunità di 
                  San Benedetto, dagli interventi di Domenico Chionetti e don 
                  Gallo (a cui, nel libro, è dedicata una bella intervista), 
                  con l'invito a riflettere su “Come drogano le nostre menti”, 
                  un testo di Chomsky quanto mai significativo. Il giorno seguente 
                  il convegno ha occupato le sale di Palazzo Ducale, nel cuore 
                  della zona rossa ai tempi del G8, un luogo a cui tutti associamo 
                  i ricordi di quei terribili giorni. Qui si sono susseguiti gli 
                  interventi, ora raccolti nel volume, di alcune delle figure 
                  più rappresentative delle pratiche filosofiche, soprattutto 
                  nell'ambito della promozione della philosophy for children. 
                  Oltre agli autori sono intervenuti Antonio Cosentino (presidente 
                  del Crif, Centro di ricerca sull'indagine filosofica, che per 
                  primo ha portato la P4c in Italia), Walter Kohan (professore 
                  di filosofia dell'educazione all'Università di Rio de 
                  Janeiro, che da anni si dedica alla formazione degli insegnanti 
                  e alla filosofia con i bambini, nella prospettiva non tanto 
                  di una filosofia per l'infanzia, quanto di un'infanzia della 
                  filosofia2), lo spagnolo Felix 
                  Garcia Moriyòn (presidente dell'Icpic – International 
                  council of philosophical inquiry with children – il cui 
                  lavoro è volto a mettere in evidenza le relazioni tra 
                  la P4c e il pensiero anarchico), Giuseppe Ferraro (professore 
                  all'Università di Napoli ed autore di esperimenti di 
                  filosofia “fuori le mura”, ad esempio nel carcere 
                  minorile di Nisida3), Francesco 
                  Codello (esponente delle scuole libertarie) e, dal mondo delle 
                  pratiche, Roberto Peverelli, Marta Cai e Roberto Franzini Tibaldeo. 
                  Il libro ha il pregio di voler rendere conto della forma aperta, 
                  interlocutoria, appassionata con cui si sono svolte le relazioni. 
                  Coloro che hanno preso la parola hanno infatti provato a smontare 
                  la forma del monologo per sollecitare il dialogo (esemplare 
                  in questo senso l'intervento di Kohan), operando volutamente 
                  una prima disattesa: rompere lo schema tradizionale del convegno 
                  per sostituire al dispositivo conferenziere, portatore di un 
                  sapere/pubblico, relegato al ruolo di uditore-spettatore, l'apertura 
                  alla partecipazione, nello spirito della con-ricerca che contraddistingue 
                  la P4c. Una prima disattesa, dunque. Ma che cosa si vuole intendere 
                  con questa parola, e in particolare con l'espressione “disattendere 
                  i poteri”? 
                Fermarsi a pensare 
                 Per chiarirlo può essere utile fare riferimento a una 
                  delle tante, illuminanti, definizioni di potere che ci ha lasciato 
                  Foucault: “Potere è tutto ciò che tende 
                  a rendere immobili e intoccabili quelle cose che ci sono presentate 
                  come reali, vere e buone.”4 
                  Sperimentiamo il potere così inteso ogni giorno: siamo 
                  tutti presi dentro quelli che Foucault definisce dispositivi 
                  di sapere/potere che determinano i nostri comportamenti, ci 
                  definiscono nei ruoli, incasellano la nostra vita in una logica 
                  binaria di normale/anormale, sano/malato, dicibile/indicibile, 
                  pensabile/impensabile. Se da una parte tutto ciò è 
                  funzionale a rassicurarci, poiché ci offre un'identità 
                  riconoscibile, socialmente accettata, e ci sgrava persino dalla 
                  fatica del pensare, dall'altra ci rende perfettamente funzionali 
                  alla macchina del potere, docilmente obbedienti, disciplinati, 
                  quando non soggetti da curare, se qualcosa nella nostra vita 
                  fa attrito e non scorre più silenziosamente lungo i binari 
                  della “normalità”. Disattendere il potere 
                  sarà perciò, innanzitutto, provare, con una mossa 
                  propriamente filosofica, a rendere di nuovo mobili le definizioni, 
                  aperti alla trasformazione i pensieri, sino a “smarrire 
                  le proprie certezze per cominciare a sapere come e fino a qual 
                  punto sarebbe possibile pensare in modo diverso”5. 
                  È questa la sfida che le pratiche filosofiche, così 
                  come sono pensate e proposte in questo volume, raccolgono e 
                  rilanciano: invitare a fermarsi a pensare, creare pause nel 
                  tempo produttivo per sperimentare anche l'utilità dell'inutile, 
                  opporre dei movimenti alle posizioni, dei divenire alle identità. 
                  Forse anche non desiderare il potere, per aprire ad altri desideri, 
                  poiché come sostiene Deleuze: “in qualsiasi luogo 
                  avvenga, sia pure una piccola famiglia o una scuola di quartiere, 
                  non c'è uno sbocciare, un dischiudersi, del desiderio 
                  che non metta in questione le strutture stabilite. Il desiderio 
                  è rivoluzionario in quanto vuole un numero sempre maggiore 
                  di connessioni e concatenamenti”6. 
                  Si delinea allora la valenza politica delle pratiche filosofiche, 
                  ovvero “una politica della soggettività scabrosa 
                  che non coincide con un ripiegamento in sé stessi, ma 
                  chiede l'invenzione di forme nuove di riconoscimento e di legami 
                  intersoggettivi”7, una 
                  politica che scommette sulla possibilità di dare vita 
                  a pratiche concrete, che promuove luoghi di pensiero e di socializzazione 
                  in cui sperimentare possibili linee di fuga dall'appiattimento 
                  conformistico, in cui ritrovare parole che sappiano dire il 
                  senso della nostra esperienza, per sottrarci al linguaggio anonimo 
                  e stereotipato. Parole, intense, toccanti, come quelle pronunciate 
                  da don Gallo in apertura del convegno: “La libertà 
                  di pensiero, la capacità critica e autocritica, ci avviano 
                  a un processo di non identificazione con un unico pensiero dominante, 
                  assoluto, certo. Vogliamo stare sulla nostra terra, con libertà. 
                  La pratica filosofica ci chiede di ascoltare la parola di tutti, 
                  di saperla raccogliere, di identificarci, se riteniamo, con 
                  l'altro, di saper accogliere e comprendere il suo punto di vista. 
                  E ancora oggi nel nostro mondo dobbiamo spingerci a difesa dei 
                  diritti delle classi sfruttate, con le lotte di liberazione, 
                  con la loro cultura. Questo è il cammino. Siamo tutti 
                  d'accordo e siamo coscienti che solamente uomini o donne libere 
                  possono essere liberatori? Ci vuole bontà, tenerezza, 
                  sensibilità; se non si coltivano queste cosa dobbiamo 
                  coltivare? Chi vuole intraprendere senza più ritardi 
                  il cammino dell'amicizia?” 
                  È una politica dell'amicizia quella a cui ci invita don 
                  Gallo, in cui il prendersi cura significhi generare nuove relazioni, 
                  nuovi modi di abitare il mondo che abbiamo in comune, in cui 
                  possano incidere anche i saperi delle persone “comuni”, 
                  ora estromessi perché non appartenenti a quell'unico 
                  regime di verità che è il discorso tecnico-scientifico. 
                “Ridere la verità” 
				 Una politica non ingenua, naturalmente, poiché il rischio 
                  di cui le pratiche filosofiche devono essere consapevoli è 
                  quello di diventare esse stesse un'ulteriore merce spendibile 
                  sul mercato delle terapie dell'anima8, 
                  in quell'onnipervasiva “cultura terapeutica”9 
                  in ci siamo immersi10. La prima 
                  decisiva disattesa, pertanto, che può davvero rimettere 
                  in movimento un pensiero critico, sarà quella che dovrà 
                  porre in atto il “praticante filosofo”. Egli, ma 
                  dovremmo anche dire ella, dal momento che molte sono le donne 
                  che si dedicano alle pratiche filosofiche, dovrà, con 
                  una prima mossa indebolente, disattendere le aspettative di 
                  chi si rivolge al filosofo come detentore di verità, 
                  destituendosi dalla posizione di soggetto supposto sapere. Come 
                  sostiene Silvia Bevilacqua: “le pratiche sono filosofiche 
                  non solo perché provano a fare filosofia, ma perché 
                  accolgono uno sguardo filosofico di alterazione e di disattesa 
                  del proprio regime discorsivo”11. 
                  Sarà utile allora imparare a “ridere la verità”12, 
                  come suggerisce Pierpaolo Casarin, poiché sono l'ironia 
                  e l'autoironia che ci permettono quella presa di distanza critica 
                  dalle cose e da noi stessi che ci consente di depotenziarci 
                  rispetto ai ruoli di potere. Una filosofia capace di ridere 
                  di sé stessa – facendo paradossalmente proprio 
                  il riso della donna di Tracia – diventa un potente antidoto 
                  al rischio che anche le stesse associazioni di pratiche filosofiche 
                  si cristallizzino in luoghi di potere. Mettere in discussione 
                  i regimi di discorso che ci determinano – fosse anche 
                  come i più brillanti filosofi o i migliori educatori 
                  – permette di aprire un reale spazio di gioco, in cui 
                  ci sia posto anche per l'altro, per la sua irriducibile alterità, 
                  come sostengono Cai e Franzini Tibaldeo. 
                  I contributi raccolti in questo volume evidenziano quanto questo 
                  sia importante soprattutto nelle relazioni educative. Educare 
                  – ci ricorda Codello – significa accompagnare il 
                  processo di crescita senza voler ricondurre bambine e bambini 
                  ad un ideale unico, predeterminato, liberare il “poter 
                  essere” piuttosto che irreggimentare nel “dover 
                  essere”. Non si tratta infatti di “insegnare per” 
                  o “apprendere da”, perchè si apprende solo 
                  con gli altri, e solo se – sostiene Kohan – “questo 
                  apprendimento dice una trasformazione di sé”. Ciò 
                  comporta, da parte dell'insegnante, la necessità di uno 
                  spostamento, di un decentramento, come invita a fare Peverelli, 
                  per garantire agli alunni spazi di partecipazione, in cui sperimentare 
                  un pensiero critico, creativo, cooperativo, come avviene tanto 
                  nella P4c quanto nelle pratiche educative anarchiche, mette 
                  in luce Moriyòn. Educare alla libertà di giudizio, 
                  al pensare insieme agli altri ma con la propria testa, permette 
                  di fare della comunità di ricerca filosofica una pratica 
                  di libertà, afferma Cosentino. Favorisce infatti il divenire 
                  capaci di autodeterminarsi, piuttosto che essere determinati 
                  dal potere, così da realizzare quella trasformazione 
                  auspicata da Foucault: “Gli intellettuali non avranno 
                  più il ruolo di dire che cos' è bene. Così 
                  starà alla gente stessa lavorare o agire spontaneamente 
                  in modo tale da poter definire da sé che cosa sia bene 
                  per sé. (…) Il bene è definito da noi, 
                  è praticato, è inventato. E si tratta di un'opera 
                  collettiva”13. Un'opera 
                  possibile persino in carcere, ci dimostra Ferraro, perché 
                  “sophia non è un sapere di competenze, ma un sapere 
                  del gusto del bene”, quello che ci permette di toccare 
                  le cose vere. 
                 Francesca Scarazzato 
				Note
                  
                 
                  - Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), “Disattendere 
                    i poteri. Pratiche filosofiche in movimento”, Mimesis 
                    edizioni, Milano-Udine, 2013. 
                  
 - Cfr. Walter Kohan, “Infanzia e filosofia”, Morlacchi, 
                    Perugia, 2006. 
                  
 - Cfr. G. Ferraro, “Filosofia fuori le mura”, 
                    Filema, Napoli, 2010. 
                  
 - “Il potere, i valori morali e l'intellettuale. Un'intervista 
                    con Michel Foucalt” in “Materiali foucaltiani”, 
                    anno I, n. 2, luglio-dicembre 2012, p. 137. 
                  
 - M. Foucault, “Storia della sessualità. Vol. 
                    II”, Feltrinelli, Milano, 1986, p.12. 
                  
 - G. Deleuze, C. Parnet, “Conversazioni”, Ombre 
                    Corte, Verona, 2006, p. 87. 
                  
 - Pier Aldo Rovatti, “Considerazioni sulla consulenza 
                    filosofica” in “Aut Aut” n. 332, ottobre-dicembre 
                    2006, p. 32. 
                  
 - Decisiva in questo senso la critica svolta da Alessandro 
                    Dal Lago in “Il business del pensiero. La consulenza 
                    filosofica tra cura di sé e terapia degli altri”, 
                    Manifesto libri, Roma, 2007. 
                  
 - Franck Furedi, “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia 
                    nella vita quotidiana”, Feltrinelli, Roma, 2005. 
                  
 - Un'attenta disamina di questo rischio e delle contromosse 
                    possibili per attenuarlo è esemplarmente contenuta 
                    nel volume di Pier Aldo Rovatti, “La filosofia può 
                    curare? La consulenza filosofica in questione”, Raffaello 
                    Cortina editore, Milano, 2006. 
                  
 - Silvia Bevilacqua, “Pratiche filosofiche in movimento 
                    (forse più che un contributo un esercizio filosofico)”, 
                    p.58, in S. Bevilacqua, P. Casarin [a cura di], “Disattendere 
                    i poteri. Pratiche filosofiche in movimento”, Mimesis 
                    Edizioni, Milano-Udine, 2013. 
                  
 - Crf. R. Prezzo, “Ridere la verità”, Raffaello 
                    Cortina editore, Milano, 1994. 
                  
 - “Il potere, i valori morali e l'intellettuale. Un'intervista 
                    con Michel Foucalt”, op. cit., p. 144. 
  
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