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				 anarchismo queer 
                
  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   “Crea tu il tuo genere”  | 
                   
                 
                 
				La “a” e la “q” 
                   
                di Samuele Grassi 
                  
                L'introduzione – che qui proponiamo – al recente volume Anarchismo 
  queer ci pare un buon approccio alle tematiche a esso legate: 
  dai nuovi movimenti di contestazione dopo Seattle alla messa in discussione 
  delle culture “di genere”, dall'analisi critica del patrimonio teorico 
  e pratico dell'anarchismo alla ricerca di nuove chiavi di interpretazione sociale e di lotta al potere. 
                 
                  Con la proposta di incrociare 
                  etica anarchica e resistenza queer, questo volume lambisce lo 
                  scarto tra i discorsi su autonomia e autogestione in Italia 
                  e in ambito internazionale, in particolare in Inghilterra e 
                  negli Stati Uniti. Un presupposto di questo studio è 
                  che il postanarchismo e le teorie queer condividono spazi, promesse 
                  e ancor più spaccature e passaggi imprevedibili. 
                  Il termine “queer” evoca il superamento delle politiche 
                  identitarie gay, lesbiche, bi- e trans del trentennio che va 
                  dagli anni sessanta alla fine degli ottanta1. 
                  Nella sua accezione di termine-ombrello per racchiudere esperienze 
                  e movimenti di liberazione sessuale esso rischia, però, 
                  di congelarsi intorno alle politiche integrazioniste incapaci 
                  di rapportarsi al pluralismo di differenze costitutivo del termine 
                  stesso; in altre parole, rischia di restare un elemento dell'acronimo 
                  Lgbtiq, per quanto questo sia insufficiente a contenerlo. Nell'ultimo 
                  decennio fenomeni di trasformazione del “queer” 
                  (tra virgolette) in un'etichetta facilmente spendibile sul mercato, 
                  come prodotto-immagine della cultura globale e globalizzata, 
                  hanno rivelato il rovescio del progressismo sessuale riconosciuto 
                  all'Occidente: il carrello di Ikea, per citare solo l'esempio 
                  di una pubblicità recentemente apparsa in Italia che 
                  discuterò in seguito, è la riprova mediatica che 
                  i gay (le lesbiche forse ancora no) hanno finalmente raggiunto 
                  il potere, non solo d'acquisto2. 
                  Ma il queer non è limitato né alla soggettività 
                  gay, né al rapporto dei movimenti di liberazione sessuale 
                  con il mercato; piuttosto, esso rappresenta le promesse disattese 
                  di quello che rimane un ampio progetto politico anti-essenzialista 
                  e anti- (o post-) identitario. Di conseguenza, sondare il terreno 
                  di critica al processo di omologazione queer è parte 
                  di una critica estesa alla normatività oltre i confini 
                  nazionali. 
                  Dalle proteste contro l'Organizzazione mondiale del commercio 
                  a Seattle (Wto, 1999) al May Day di Londra (2000) e alle manifestazioni 
                  contro i summit del G8 in Europa (Praga 2000 e Genova 2001), 
                  Giappone e Stati Uniti, fino al momento presente con il movimento 
                  Occupy!, lo hacking di Anonymous, il caso wikileaks e 
                  la rivolta degli indignados spagnoli, il terreno per 
                  riflettere sulla stanchezza nei confronti del potere sembra 
                  essere conseguenza inevitabile del progresso di un terzo del 
                  mondo a spese dei restanti due terzi; su questo scenario si 
                  è aperto il terzo millennio. Da un lato il desiderio 
                  di abbattere il potere, dall'altro quello di partecipare alla 
                  costituzione democratica del nuovo; cioè il ritorno dell'anti-politica 
                  e dell'utopia – che vedremo al centro della definizione, 
                  di per sé “im-possibile”, del postanarchismo 
                  – avviene nell'ambito di sperimentazioni collettive spesso 
                  offuscate dall'attenzione rivolta a fenomeni di violenza episodica, 
                  dai media come dalla politica istituzionale. Entrambe adoperano 
                  questa strumentalizzazione per reprimere il dissenso e istigare 
                  reazioni di pubblica condanna. 
                  Dalla fine degli anni sessanta, il discorso sull'autonomia si 
                  è concentrato da noi sulle fasi del movimento operaista, 
                  seguendo un tipo di indagine teorico-politica che privilegiava 
                  il modello marxista della lotta di classe: movimenti come Avanguardia 
                  operaia, Lotta continua e Potere operaio, in cui militavano, 
                  tra gli altri, Toni Negri e Primo Moroni dai quali poi prese 
                  forma Autonomia operaia (v. Balestrini, Moroni [1988] 1997). 
                  Dal sessantotto e per tutto il decennio successivo queste realtà 
                  della sinistra extra-parlamentare si sono diffuse su tutto il 
                  territorio italiano parallelamente alla nascita dei centri sociali 
                  autogestiti. Col tempo, la radicalizzazione economista (anti-capitalista) 
                  del movimento autonomo italiano ha rallentato, se non proprio 
                  impedito, che si creassero zone di contatto e contaminazioni 
                  tra il pensiero dell'autonomia e altre categorie sociali tra 
                  cui genere, razza e sessualità. Solo recentemente il 
                  modello autonomista italiano di lotta contro l'egemonia si è 
                  aperto a queste categorie di oppressione. Ne è esempio 
                  UniNomade 2.0 (Napoli), un collettivo di teorici, accademici 
                  e non, studenti e attivisti che hanno creato “un laboratorio 
                  in cui mettere continuamente in tensione e in discussione la 
                  separatezza tra pratiche teoriche e pratiche politiche” 
                  (UniNomade 2.0.), usando quindi la “conricerca” 
                  per osservare la crisi neoliberista da angolazioni molteplici 
                  attente a forme complesse di differenza e oppressione3. 
                  Le esperienze di autorganizzazione delle donne sono un caso 
                  a sé stante rispetto a questo quadro di riferimento, 
                  a dimostrazione che nei regimi capitalisti oppressione economica 
                  e oppressione di genere sono inseparabili. Riprendendo il modello 
                  autonomista/marxista e intrecciandolo con la lotta all'(etero)sessismo, 
                  fin dagli anni settanta le donne hanno interrogato le categorie 
                  di reddito, lavoro, sessualità e riproduzione per denunciare 
                  l'immobilismo del patriarcato e la morale cattolica. Così 
                  possiamo citare per la situazione odierna l'esempio del Movimento 
                  femminista proletario rivoluzionario e del collettivo Facciamobreccia, 
                  riconoscendoli storicamente come frutto di reti de-centralizzate 
                  che hanno combattuto la violenza e lo sfruttamento anche sessuale 
                  con il fine di autodeterminarsi. E forse non è troppo 
                  eccentrico supporre che questo femminismo radicale italiano 
                  abbia tratto ispirazione dal modello di autonomia e autogestione 
                  delle femministe libertarie spagnole Mujeres Libres, che in 
                  soli tre anni durante la Guerra Civile (dal 1936 al 1939) aggregarono 
                  20.000 donne contro l'oppressione sistematica, anche quella 
                  interna al movimento anarchico spagnolo, per rivendicare l'auto-determinazione 
                  economico-politica, socio-culturale e sessuale (v. Ackelsberg 
                  1991; Nash 1975; trad. it. 1991). 
                  La nascita del cosiddetto “movimento dei movimenti” 
                  durante le manifestazioni no-global a Seattle ha rappresentato 
                  una vera e propria apertura al cambiamento. Riprendendo le esperienze 
                  del Social Forum Mondiale di Porto Alegre nel 2002, realtà 
                  autonome dei centri sociali, dell'associazionismo e organizzazioni 
                  non governative sono entrate in contatto con l'attivismo Lgbt 
                  anche in Italia, aprendosi alla contaminazione e allo scambio 
                  e condividendo le proprie esperienze a livello locale. Al Social 
                  Forum Europeo di Firenze dello stesso anno, ad esempio, il gruppo 
                  bolognese Antagonismogay (oggi con il laboratorio Smaschieramenti) 
                  proponeva di indagare la coppia vivibilità-visibilità 
                  dei soggetti non eterosessuali in rapporto alla dicotomia normalizzazione/controllo, 
                  cioè di esaminare le ricadute di strategie politiche 
                  Lgbt assimilazioniste nel quadro della deriva neoliberista delle 
                  società occidentali. Su questo paradigma, insieme con 
                  altre realtà Lgbt/queer e trans italiane e gruppi dalla 
                  Grecia e dal Portogallo, gli attivisti bolognesi combattevano 
                  il patriarcato etero-sessista, benestante, bianco e omofobo 
                  su cui si fondano le società neoliberiste. Allo stesso 
                  tempo, però, interrogavano anche l'altra faccia del modello 
                  integrazionista Lgbt, cioè il paradigma del progressismo 
                  sessuale in quanto strategia a sostegno delle missioni civilizzatrici 
                  e guerrafondaie condotte dalle potenze occidentali (v. Azione 
                  gay e lesbica 2004)4. 
                   Queste 
                  dicotomie strutturano i modelli di gestione della lotta al terrorismo 
                  da parte delle “democrazie sessuali” – espressione 
                  riferita a “'regim[i] di giustificazione' dove convivono 
                  e si intrecciano i discorsi che riconoscono cittadinanze sessuali 
                  come marchio distintivo della superiorità dell'occidente 
                  e i discorsi nazionalisti e imperialisti legittimati da questa 
                  presunta superiorità”5. 
                  Esiste oggi un rapporto diretto tra l'assetto delle società 
                  occidentali e le politiche coloniali e imperialiste, come afferma 
                  Barbara de Vivo a proposito della campagna del governo di Nicolas 
                  Sarkozy in Francia (2010) sul divieto di indossare il velo integrale 
                  in pubblico: 
                  “Le popolazioni immigrate di origine musulmana (e non 
                  solo) sono specularmente costruite come un corpo estraneo rispetto 
                  alla società civile europea poiché portatrici 
                  di valori tradizionali che contrastano e mettono a rischio l'avanzamento 
                  dei diritti in Europa. Questo uso strumentale dei diritti è 
                  indirizzato verso una vera e propria concorrenza tra le donne, 
                  i soggetti Lgbtq e gli immigrati, e tra i sistemi di dominio 
                  quali il sessismo, l'omofobia e il razzismo [...] l'unico margine 
                  di 'emancipazione' per le donne, i gay e le lesbiche musulmane 
                  è quello di allontanarsi dalle 'culture di origine' e 
                  dalle proprie famiglie 'tradizionali' per metterle sotto accusa 
                  dopo aver abbracciato il discorso emancipazionista su base concorrenziale 
                  in Occidente” (2011: 158-159). 
                  Alle donne e agli uomini musulmani in particolare, e più 
                  in generale ai soggetti etnici, eterosessuali e non, si richiede 
                  di sottoporsi a vere e proprie forme di amnesia che riguardano 
                  il senso di appartenenza e il modo di vivere la propria cultura 
                  (v. Puar 2007: 27; Butler 2009). Solo così è loro 
                  possibile ottenere il riconoscimento delle società ospitanti 
                  in qualità di “soggetti civilizzati” in diritto 
                  di cittadinanza: costruzione egemonica volta all'assimilazione 
                  agli ideali nazionalisti degli Stati che accolgono. La reificazione 
                  del mondo musulmano è avvenuta secondo una scelta tra 
                  due termini: il terrorismo (i musulmani sono da combattere) 
                  o il multiculturalismo (i musulmani sono da assimilare, da inglobare), 
                  accomunati dalla “retorica della modernità sessuale 
                  che costruisce il centro imperialista come 'tollerante' e al 
                  contempo giudica l'altro arretrato come 'omofobo' e 'perverso'” 
                  (Eng, Halberstam, Muñoz 2005: 8). Ricordare gli interventi 
                  di giornalisti come l'egiziano Magdi Allam, frequenti sulle 
                  reti televisive italiane durante la guerra in Iraq e strumentalizzati 
                  per facilitare la circolazione della figura del musulmano-terrorista 
                  facendo appello alla necessità di “sanare” 
                  una cultura retrograda e pre-moderna, è utile per capire 
                  quanto questi discorsi ci interpellino direttamente, ma soprattutto 
                  come rimettano la questione della “responsabilità” 
                  al centro del dibattito filosofico-politico radicale6. 
                  A posteriori, i governi delle cosiddette superpotenze occidentali 
                  hanno dimostrato la loro incapacità di gestire l'alterità 
                  e le forme del dissenso, se non ricorrendo alla costruzione 
                  di barriere di paura e di odio, o all'uso della violenza militare. 
                  L'Italia, per citare solo i casi più evidenti, si trova 
                  a fare i conti sia con il peso dei fatti accaduti alla scuola 
                  Diaz e l'uccisione di Carlo Giuliani, sia con gli effetti di 
                  una politica dell'immigrazione basata sul rafforzamento dei 
                  confini e delle divisioni tra il medesimo (occidentale) e l'Altro 
                  (non-occidentale), tra “noi” e “loro”, 
                  tra civiltà e pre-modernità. 
                  Nel caso dell'Italia, ciò riguarda sia il ruolo degli 
                  Stati Uniti nell'assetto delle potenze mondiali sia quello dell'Europa, 
                  dove perdurano le volontà di implementare una Unione 
                  di entità sovranazionali come soggetto politico-economico 
                  autonomo (v. Anim-Addo, Covi, Karavanta, 2010a, a cura di). 
                  Esse sono in conflitto con il rafforzamento dei confini con 
                  cui i vari Stati intendono difendersi dai nemici esterni e interni, 
                  che si tratti dell'Islam come entità univoca o di popolazioni 
                  immigrate e/o richiedenti asilo che cercano di raggiungere le 
                  coste mediterranee settentrionali, pagando (a) qualunque costo, 
                  spesso con la vita. Creare nuove forme di pluralismo democratico 
                  che operino ai e sui limiti di società 
                  liberaliste sul modello di quella statunitense permette di sottrarsi 
                  a quelle realtà cooptate nel progetto nazionalista degli 
                  stati-nazione su base eurocentrista: un compito necessario per 
                  chi è impegnat* in progetti teorico-politici di critica 
                  non solo all'eterosessualità normativa. 
                Relazioni 
                 Dai primi anni novanta, la filosofia politica sollecitata 
                  dal termine “postanarchismo” si è interrogata 
                  sul bisogno di rileggere le origini della teoria e della prassi 
                  anarchiche per sviluppare nuove pratiche etiche della responsabilità. 
                  Così come il queer rischia di essere ridotto a un termine 
                  ombrello con cui rinunciare alla differenza in cambio di visibilità 
                  e assimilazione, il postanarchismo rischia di diventare slogan 
                  di una politica difficilmente spendibile in termini di rapporti 
                  tra l'individuo e il sociale, rischio in parte connesso all'uso 
                  del prefisso “post-” (v. capitolo I). Nell'obiettivo 
                  di precisare la scelta terminologica tra anarchismo e postanarchismo, 
                  in questo libro adotterò il secondo riferendomi a tesi 
                  e testi che operano nell'ottica di espandere i limiti di una 
                  visione (l'anarchismo “classico”) ritenuta obsoleta, 
                  rileggendo o dialogando con altre filosofie radicali del novecento 
                  come il poststrutturalismo francese, il femminismo, gli studi 
                  sul genere e la sessualità, le teorie queer. “Anarchismo”, 
                  invece, indicherà la filosofia politica radicale propositiva 
                  di un'etica anti-autoritaria, storicamente collocata nel XIX 
                  secolo ma sempre e ancora internazionalmente attiva; un insieme 
                  eterogeneo che ricondurrei a tre questioni principali: la critica 
                  al potere, la relazionalità e l'utopia come parametri 
                  per la ricerca di forme non-gerarchiche del vivere (v. Daring 
                  et al. 2013a, a cura di; Gurrieri 2010). 
                  Le teorie queer hanno radicalizzato il discorso sul genere e 
                  la sessualità muovendo da un'articolazione fluida dei 
                  due concetti, e attivando una serie di pratiche discorsive non-egemoniche 
                  che sembrano incrociarsi produttivamente con il discorso postanarchico. 
                  Il modello della performatività queer presuppone una 
                  corrispondenza univoca tra “dire” e “fare” 
                  qualcosa, quindi è breve il passo verso la concezione 
                  di un mondo che si fa teatro e di un teatro che è già 
                  mondo (Frabetti 2011a: 33, 30). La performatività queer 
                  ha attraversato la filosofia del linguaggio di John L. Austin, 
                  il decostruzionismo di Jaques Derrida, le teorie sul genere 
                  di Judith Butler (1990, 1993 e 2004) e Eve Sedgwick (1990). 
                  In particolare, Derrida ha contribuito presupponendo che qualunque 
                  cosa accada in situazioni ordinarie del sociale è inclusa 
                  in un catalogo di convenzioni normative che la rendono accettabile; 
                  si tratta, appunto, di citazioni senza matrice7. 
                  In questo modo, il queer ha sovvertito la concezione essenzialista 
                  delle lotte identitarie (lesbo, gay, bi-, trans) come un caos 
                  rivoluzionario dalle forti connotazioni anarchiche, che tuttavia 
                  sono sempre state parte di un'etica della liberazione sessuale 
                  (v. Daring et al. 2013a, a cura di; Heckert, Cleminson, 
                  2010 e 2011a, a cura di; Kissack 2008). 
                  Il caos anarchico continua oggi a essere associato, spesso per 
                  comodità, a un'etica della violenza che le idee proposte 
                  in questo volume rifiutano. Inserendosi nell'ambito di teorizzazione 
                  offerto da un numero ancora esiguo di testi circolati in Italia 
                  di recente, così come da un numero maggiore di siti internet 
                  e blog, questo saggio intende piuttosto mettere l'accento su 
                  quelle forme di resistenza che, sfruttando la rete (anche nel 
                  senso di Internet) per la circolazione di resoconti di esperienze 
                  e materiali di vario tipo (audio, video, scritti ecc.), rappresentano 
                  esempi documentari importanti di interventi autogestiti di grande 
                  impatto. 
                  Penso, ad esempio, alle pratiche di azione diretta del Clandestine 
                  Insurgent Rebel Clown Army (Circa), vere e proprie performance 
                  collettive ispirate ai movimenti di teatro di strada come l'agit-prop 
                  e altre avanguardie degli anni sessanta e settanta. Nato nel 
                  Regno Unito nell'ambito delle proteste contro la guerra in Iraq 
                  e poi diffuso in altri paesi europei, il Circa propone l'uso 
                  del linguaggio del corpo per inscenare proteste dalla teatralità 
                  giocosa e ironica, partecipate da attiviste/i in tuta mimetica, 
                  trucco e parrucche da clown. Penso alla mobilitazione in occasione 
                  del G8 a Gleneagles, in Scozia (2005), una delle tante costruite 
                  dal gruppo, durante la quale i militari-clown stringevano in 
                  un abbraccio i membri delle forze dell'ordine, mimando pianti 
                  e risate di gruppo, schioccando baci col rossetto rosso sugli 
                  scudi anti-sommossa della polizia. Sono immagini straordinarie 
                  e dirompenti per la sincerità con cui queste pratiche 
                  de-codificano e ri-codificano il corpo per riprendere spazi 
                  che ci sono stati sottratti e ristabilire “legami di comprensione 
                  infiniti” (Maddog 2009) oltre ogni confine, barriera e 
                  differenza con cui il neoliberismo ha reciso l'essenziale socialità 
                  umana. 
                  Nonostante i tentativi coatti di repressione, screditamento 
                  e marginalizzazione, l'ondata di dissenso a livello mondiale 
                  ha dimostrato il bisogno di negoziare alternative sostenibili 
                  al capitalismo e al suo collasso. Essa ha ripensato la rivoluzione 
                  come negoziato continuo e come esplorazione di forme di resistenza 
                  collettiva, agite abbattendo confini e superando barriere in 
                  nome di una giustizia universale ben diversa da quella predicata 
                  dalle istituzioni senza effettiva ricaduta sul sociale: 
                  “Le forme di protesta e di opposizione che stanno evolvendosi 
                  in mezzo mondo, puntano i piedi sull'estrema necessità 
                  di ripensare le forme della comunicazione, una conquista. Collettivi 
                  molto radicati propongono tattiche inesplorate nelle strade 
                  durante cortei anti-capitalisti con una passione differente 
                  e veramente coinvolgente, magari anche con riferimenti più 
                  pungenti e sotterranei” (Maddog 2009). 
                  In questo tipo di mobilitazioni vi è la stessa teatralità, 
                  la stessa propensione all'aspetto ludico della resistenza e 
                  alla sovversione di linguaggi attraverso il corpo che ha contraddistinto 
                  l'attivismo dei movimenti di liberazione sessuale dal Gay Liberation 
                  Front a Stonewall fino ad Act Up, prima negli Stati Uniti poi 
                  in Inghilterra nell'attivismo di OutRage! dei primi anni novanta. 
                  Le pratiche di azione diretta di questi movimenti rappresentavano 
                  forme “esperienziali” di teatro per valutare “non 
                  soltanto un futuro alternativo, possibile, ma anche quali identità 
                  potessero costruirsi al suo interno” (Greer 2012: 134, 
                  136). Seguono e hanno seguito questi esempi le reti internazionali 
                  anarcoqueer, tra cui Bash Back!, Gay Shame, Ladyfest, Queers 
                  Without Borders, Queeruption e Queer Mutiny. Con una storia 
                  relativamente recente e in parte giù documentata in ambito 
                  anglofono e in altri paesi in Europa, esse sovrappongono discorsi 
                  ed etiche antagoniste queer, femministe, anticapitaliste e antirazziste, 
                  partecipando in azioni di massa transitorie e incontenibili. 
                  Ognuna di queste reti costituisce una micro-politica dell'effimero, 
                  che corrisponde alla definizione di T.A.Z. – zona temporaneamente 
                  autonoma di Hakim Bey: “una sommossa che non si scontri 
                  direttamente con lo Stato, un'operazione di guerriglia che libera 
                  un'area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve 
                  per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che 
                  lo Stato la possa schiacciare” (1991; trad. it. 2007: 
                  15)8. Ancora in questo ambito 
                  è da collocare il movimento pink, un insieme disperso 
                  di pratiche libertarie del desiderio e del piacere anche sessuale, 
                  di etiche hacker “black, pirate”, le cui radici 
                  affondano nelle sottoculture punk dagli anni settanta in poi: 
                  “La chiave di volta del Pink è costituita da forme 
                  di convergenza fra tendenze e forme d'espressione pink queer 
                  e attivismo noglobal, secondo una progressione/commistione di 
                  significati che possiamo sintetizzare come pink, punk, no global 
                  [...] Pink vuol dire femminista, queer, strano, libertario, 
                  vuol dire dissenziente, deviante, vuol dire aggressività 
                  gioiosa. Tutte qualità intrinsecamente eretiche e noglobal” 
                  (Foti 2009: 46, 47). 
                  È interessante notare come, per i motivi esplicitati 
                  in apertura a questa introduzione, in Italia spesso attivismo 
                  pink, antagonismo queer, teorie e pratiche anti-autoritarie 
                  convergano, senza necessariamente auto-definirsi anarcoqueer 
                  come invece avviene in altri Paesi: con l'eccezione delle mailing-list 
                  “Deviazioni” (http://www.ecn.org/deviazioni/) 
                  sul sito Ecn (Isole nella rete) e il blog “anarcoqueer.wordpress.com” 
                  di recente formazione, si tratta perlopiù di collaborazioni 
                  internazionali e di attività – dalla circolazione 
                  di materiali in Rete all'organizzazione di raduni, convegni, 
                  gruppi di discussione e interventi – da parte di movimenti 
                  attivi in varie zone sul territorio nazionale. Basandomi su 
                  scritti che trattano di networking, antagonismo radicale e sottoculture 
                  queer (A/I 2012; Bazzichelli 2006; Foti 2009; Ilardi, 2009, 
                  a cura di; Warbear 2009a, 2009b) e su informazioni tracciabili 
                  in Internet fino al passaparola di contatti negli ultimi due 
                  anni, in questo studio discuterò dei gruppi Antagonismogay/Smaschieramenti, 
                  FrangettEstreme, Mujeres_Libres, Sexyshock di Bologna; A/Matrix, 
                  OrgogliosamenteLGBTIQ, Phag Off! e il collettivo Facciamobreccia 
                  di Roma; Pornflakes queer crew di Milano e la Torino Samba Band. 
                  Al momento, il recente libro La società de/generata 
                  di Alex B. (2012)9 risulta 
                  inoltre essere il primo e finora unico studio a trattare sul 
                  piano teorico l'evoluzione di un anarchismo queer, dimostrando 
                  lo stato ancora tutto “in-divenire” di queste istanze 
                  di critica anti-normativa. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   “Quest'anno va di moda il rosa su fondo nero”  | 
                   
                 
                 
                Utopie 
                 In contesti anglofoni, l'espressione queer(ing) anarchism 
                  si riferisce alle connessioni possibili tra i modi di fare esperienza 
                  del mondo attraverso la lente della sessualità, caratteristici 
                  del queer, e i principi anti-autoritari dell'anarchismo10. 
                  Secondo Deric Shannon e Abbey Willis questo incrocio è 
                  anzitutto capace di sovvertire ogni criterio di oggettività 
                  poiché rifiuta l'autorevolezza di un unico punto di vista 
                  proponendo al suo posto un pluralismo di prospettive: “un 
                  collasso dell'anarchismo per accogliere una anti-identità 
                  politica allo stesso modo in cui il queer doveva rispondere 
                  (o, forse, estendere la domanda?) alle questioni di identità 
                  sessuale e di genere” (2010: 440); e suggeriscono di perseguire 
                  un “poliamorismo teorico” che adotti posizionamenti, 
                  sviluppi discorsi e prospettive eterogenee e anche apparentemente 
                  contraddittorie, nel privato come nel pubblico-politico: “una 
                  discussione per stabilire connessioni tra i modi di amare e 
                  di pensare, e abbattere le barriere del pensare/agire/amare 
                  e così via accettate in un mondo di principi gerarchici, 
                  di coercizione e di controllo. Un controllo in parte svelato 
                  se si dimostra il processo di naturalizzazione di queste distinzioni 
                  categoriche e si inizia a mettere in discussione la necessità 
                  di operare distinzioni tra modalità differenti di interessarsi 
                  alla vita e alle idee” (2010: 440). 
                  Sempre seguendo Shannon e Willis, nella seconda parte di questo 
                  volume incrocerò teorie e posizionamenti non sempre facilmente 
                  intersecabili al fine di dimostrare la loro rilevanza per una 
                  critica anti-essenzialista alla normatività. Da tali 
                  processi di sovrapposizione e contaminazione emergeranno quelle 
                  che definisco “etiche della responsabilità”11. 
                  Nel tentativo di attribuire una riflessione teorico-filosofica 
                  e un soggetto politico alle connessioni in oggetto, Benjamin 
                  Shepard individua una serie di affinità tra prassi postanarchiche 
                  e queer: entrambi scelgono “il piacere e la democrazia 
                  diretta piuttosto che le logiche del profitto”, e promuovono 
                  un concetto di libertà basata sull'auto-determinazione 
                  che comprenda anche “esperienze eclettiche, dinamicità 
                  e sperimentazione” e critichi ogni forma di normatività. 
                  Infine, nel rivendicare “il rispetto del piacere” 
                  contro il proibizionismo sessuale, postanarchismo e queer condividono 
                  “una cultura della resistenza” sottoforma 
                  di T.A.Z. (nell'anarchismo) e controculture (nel queer) (v. 
                  2010: 515-18). A queste linee, che condivido, aggiungerò 
                  a fine volume un altro importante termine di confronto ripreso 
                  dal femminismo deleuziano di Rosi Braidotti e dalla critica 
                  alla violenza etica di Judith Butler: il concetto di “responsabilità”. 
                  Il sé è sempre vulnerabile all'Altro e viceversa, 
                  dice Butler; nel momento in cui il soggetto si rende umilmente 
                  consapevole della propria vulnerabilità, l'etica si apre 
                  all'incontro con e tra differenze (2005; trad. 
                  it. 2006). L'anarchismo queer, così come è mio 
                  obiettivo presentarlo, rappresenta il tentativo di contaminare 
                  i confini tra teoria e pratica, di radicalizzarli attraverso 
                  letture anti-autoritarie delle differenze seguendo i percorsi 
                  inevitabilmente affini del (post-)anarchismo e del queer, per 
                  riflettere su quali nuove dimensioni di libertà consentono 
                  e, soprattutto, quali vietano: un discorso dedicato al confronto 
                  con alcuni principi, su tutti quelli di democrazia, pluralismo, 
                  singolarità, etica, sostenibilità e responsabilità12. 
                Red Emma 
                 Il volume è organizzato come segue. Nel capitolo I 
                  riassumo i tratti significativi delle teorie di Lewis Call, 
                  Todd May e Saul Newman attraverso una lettura dettagliata di 
                  alcuni loro scritti, concentrando l'analisi su tre questioni: 
                  la localizzazione del post-anarchismo nell'ambito delle filosofie 
                  politiche radicali contemporanee, la critica al potere e le 
                  figure della resistenza da loro proposte. In questo capitolo 
                  è importante il concetto di genealogia ripreso dagli 
                  studi di Michel Foucault: un metodo d'indagine a cavallo tra 
                  storia, filosofia e sociologia che interroghi le condizioni 
                  di emergenza di un fenomeno anziché limitarsi a posizionarlo 
                  su un asse puramente cronologico. Essa “serve a sovvertire 
                  l'apparente inevitabilità del presente. Dirompente, sovversiva, 
                  la genealogia sottolinea l'alterità del passato mostrando 
                  la propria immagine multipla nel presente, un'immagine soggetta 
                  a un'alienazione costitutiva” (Love 2007: 44). L'anarchismo 
                  “della soggettività” con cui Newman, leggendo 
                  Max Stirner e Foucault, propone un soggetto (post)anarchico 
                  anti-essenzialista, plurale e democratico, è un concetto 
                  rilevante per l'etica, sul quale torno più volte nel 
                  corso del volume. Introdotto in vari scritti il postanarchismo 
                  come nuova filosofia politica in Italia, Salvo Vaccaro sostiene 
                  infatti che: “quando il post-anarchismo riflette intorno 
                  alla soggettività, intende anche offrire come spunto 
                  di riflessione l'interrogativo sull'unità del soggetto 
                  storico incarnato nei corpi degli individui, contrapponendo 
                  a tale categoria la nozione più sfumata di singolarità, 
                  al plurale, che convivono entro la cornice identitaria di uno 
                  stesso individuo” (2008: 8). 
                  Prendo dunque in esame la questione di una soggettività 
                  anarchica queer, se questa sia in grado di prefigurare mappature 
                  sostenibili del radicalismo politico o se addirittura essa non 
                  sia già parte integrante dei rispettivi progetti – 
                  il postanarchismo e il queer – che compongono l'analisi 
                  di questo saggio. 
                  Il capitolo II, seguendo Foucault e Butler discute il principio 
                  di opacità del soggetto come presupposto di un'etica 
                  relazionale della vulnerabilità; verso questo tipo di 
                  etica anti-fondazionalista si orienta la discussione del rapporto 
                  tra femminismo e anarchia da Mary Wollstonecraft a Emma Goldman, 
                  per poi arrivare alle tracce di soggettività anti-autoritarie 
                  negli scritti di femministe non-essenzialiste della fine del 
                  secolo scorso. Gli scritti di Goldman sono fondamentali per 
                  la costruzione di una genealogia del femminismo anti-autoritario; 
                  come sostiene Bruna Bianchi, “attraverso la sua vita e 
                  la sua elaborazione teorica [Goldman] ha contribuito a dare 
                  una dimensione femminista all'anarchismo e una dimensione libertaria 
                  al femminismo” (in Goldman 1910; trad. it. 2009: 21)13. 
                  Goldman si concentrava su questioni molteplici, dalla necessità 
                  per ogni donna di emanciparsi dalla doppia tirannia subita sia 
                  a livello personale/intimo sia come soggetto politico, alla 
                  “tragedia” del suffragio che, in quanto movimento 
                  borghese, non poteva né affrontare radicalmente né 
                  tantomeno risolvere l'oppressione femminile nel sociale (v. 
                  Bettini 1999). Ma intanto qualcosa si poteva fare, perché 
                  “la vera emancipazione non inizia dai seggi elettorali 
                  né dai tribunali. Ha inizio nell'animo della donna” 
                  (Goldman 1910; trad. it. 2009: 114). 
                  Goldman credeva nella pratica dell'amore libero come alternativa 
                  radicale al matrimonio e si schierava apertamente contro la 
                  “tratta”, un subdolo meccanismo patriarcale che 
                  costringeva le donne, specie quelle non sposate, a prostituirsi 
                  (v. Jose 2005); e combatteva affinché le donne si liberassero 
                  dai “tiranni interiori” effetto del sessismo in 
                  ogni relazione sociale disponibile (v. Jose 2005), che impedivano 
                  lo sviluppo autonomo di individui liberi capaci di condividere 
                  forme di socialità alternative alla “bancarotta 
                  morale” dello Stato. Intrecciando femminismo e anarchia 
                  nella teoria e nella pratica, la resistenza allo Stato proposta 
                  da Goldman era una “combinazione strategica di individualismo 
                  e sessualità per destabilizzare le definizioni patriarcali 
                  di genere” (Borghi 2002: 6). 
                  Le variazioni del e sul genere in Goldman possono 
                  essere lette dal punto di vista di una “androginia intellettuale” 
                  rintracciabile anche nell'appello di Wollstonecraft alla maschilizzazione 
                  delle donne in un passo interessante di A Vindication of 
                  the Rights of Woman[Rivendicazione dei diritti delle 
                  donne]: “se è contro l'imitazione delle virtù 
                  maschili, o più propriamente, il raggiungimento di quelle 
                  capacità e virtù il cui esercizio nobilita il 
                  carattere e innalza le femmine nella scala degli esseri animali, 
                  quando le si include entro il termine comune di umanità, 
                  credo che tutti coloro che le osservano con occhio filosofico 
                  si augurino con me che esse diventino sempre più mascoline” 
                  (1792; trad. it. 2008: 29). 
                  Wollstonecraft continua qui una discussione precedente, nella 
                  quale ha discusso l'ostracismo sociale subito dalle donne che 
                  mostrano abbigliamento, abitudini o comportamenti non conformi 
                  agli stereotipi di femminilità della morale borghese, 
                  e osserva che “se una donna di intelletto tenta di dare 
                  un'inclinazione più razionale alla conversazione, la 
                  fonte comune di consolazione è che questa donna difficilmente 
                  troverà marito” (1792; trad. it. 2008: 123). 
                  Appropriandosi di questi stereotipi e ribaltandone gli esiti, 
                  il suo obiettivo non è sostituire il potere femminile 
                  a quello maschile, poiché questo comporterebbe solo un 
                  temporaneo spostamento di confini, ma lavorare in un'ottica 
                  di ri-significazione del genere. Un'ottica che attraversi il 
                  maschile e il femminile verso articolazioni mobili, fluide, 
                  antitetiche al potere repressivo della società e della 
                  cultura messa sotto accusa attraverso la sua disamina del sistema 
                  educativo nell'Inghilterra di fine settecento. 
                Il femminismo nord-americano non-bianco 
                 Il femminismo ha condotto battaglie da una pluralità 
                  di prospettive, partecipando a teorie e pratiche in costante 
                  ridefinizione. Così come è avvenuto per alcune 
                  teorie queer, il femminismo identifica il luogo di “un 
                  movimento (un queering)” tra posizionamenti diversamente 
                  situati e localizzabili all'interno di un progetto ampio di 
                  liberazione dalle oppressioni, su tutte la lotta al sessismo 
                  (Busarello 2010: 57). Nella gestione di queste lotte, il femminismo 
                  ha posto almeno due ordini di problemi, il primo dei quali riguarda 
                  la natura dell'oppressione. In particolare, esso ha stabilito 
                  “che le forme di oppressione non sono tutte identiche, 
                  ma anzi diversamente strutturate, e che si intersecano 
                  in incarnazioni complesse. Il confronto tra i differenti assi 
                  d'oppressione sarebbe dunque un lavoro cruciale, non perché 
                  consentirebbe di gerarchizzare le oppressioni, ma, al contrario, 
                  perché la relazione che ciascuna oppressione intrattiene 
                  con altre particolari articolazioni del sistema culturale potrebbe 
                  essere singolarmente rivelatrice” (Sedgwick 1990; trad. 
                  it. 2011: 66). 
                  Il secondo ordine di problemi riguarda il confronto con la creazione 
                  di soggetti e figure della resistenza che non corrano il rischio 
                  di replicare strutture e meccanismi autoritari – un ambito 
                  in cui rimane vitale, almeno fino dagli anni ottanta, il contributo 
                  del femminismo nord-americano non-bianco, al quale guardo, in 
                  parte, per discutere la prospettiva di alcune soggettivazioni 
                  femministe a conclusione del capitolo II: il cyborg di Donna 
                  Haraway, il soggetto intersezionale di Kimberlé Crenshaw 
                  e la mestiza di Gloria Anzaldúa14. 
                  Con la scelta di tesi e testi di una genealogia come la mia 
                  intendo sostenere che le zone di contatto tra femminismo e anarchia 
                  non si concentrano sull'archivio anarco-femminista “canonico”, 
                  che dovrebbe necessariamente includere anche Voltairine de Cleyre, 
                  Angela Heywood, Louise Michel, Etta Palm e Lois Waisbrooker, 
                  e, dagli anni settanta, le zines, i testi di Martha Ackelsberg, 
                  Carol Ehrlich, Peggy Kornegger così come lo SCUM Manifesto 
                  di Valerie Solanas (1967) fino alla raccolta di testi del 
                  gruppo Dark Star Collective (2002) e, in Italia, all'etica cyber 
                  di Helena Velena, indubbiamente importanti. Apro però 
                  la sezione sulle radici del femminismo anti-autoritario dall'incontro 
                  tra Wollstonecraft e William Godwin, per poi arrivare a dialogare 
                  con tesi e testi anche di femministe che non si definiscono 
                  anarchiche, ma che presentano affinità più o meno 
                  marcate con discorsi che intreccerò, tra queste Donna 
                  Haraway e Rosi Braidotti. Come sostiene Alix Kates Shulman, 
                  infatti, l'etica femminista e una politica antiautoritaria come 
                  l'anarchismo sono entrambi “sostanzialmente e fortemente 
                  anti-gerarchici e anti-autoritari. Entrambi operano in forme 
                  di organizzazione sociale consensuali dal basso, si affidano 
                  all'impegno collettivo di gruppi esigui, come ad esempio i centri 
                  di assistenza domiciliari, centri di accoglienza per donne maltrattate, 
                  squadre anti-stupro, gruppi per la presa di coscienza, anziché 
                  grandi coalizioni di partito; entrambi poi scelgono il cambiamento 
                  attraverso l'azione diretta” (2007: 252). 
                  Nel capitolo III indago alcuni aspetti dei presupposti etico-politici 
                  del discorso antirelazionale/antisociale di alcun* teoriche 
                  e teorici queer. In risposta alla capitalizzazione (in parte 
                  anche mediatica) delle identità sessuali, costoro rifiutano 
                  la felicità imposta dai modi di vivere out and proud 
                  proponendo politiche del fallimento, delle passioni tristi, 
                  di sessualità anti-normative con le spalle volte al futuro; 
                  e mostrano l'ubiquità di relazioni con il potere definite 
                  il fondamento di un progresso continuamente riattivabile e riattivato, 
                  dietro al quale r-esistono soggetti e articolazioni effimeri 
                  e rivoluzionari. Queste riflessioni formano il contesto per 
                  discutere l'omonormatività e l'omonazionalismo prendendo 
                  spunto anche dalla lettura di testi culturali di massa (pubblicità 
                  e fotografia), ognuno dei quali diventa una “scena strutturante 
                  dell'interpretazione” (Butler 2009: 85), cioè compie 
                  di per sé l'atto di interpretare l'oggetto/il soggetto 
                  rappresentato. Nella teoria e nella pratica, il queer abita 
                  gli spazi dell'utopia poiché comprende una parte politica 
                  di contestazione di ciò che esiste, segnando il limite 
                  di ciò che esiste e di ciò che “potrebbe 
                  essere” (v. Muñoz 2009: 38). Se la molteplicità 
                  di punti di vista adottata per confrontarsi con i discorsi sulle 
                  differenze e la loro diversa realizzazione sovverte il binarismo 
                  “dentro/fuori”: dentro/fuori la “teoria, dentro/fuori 
                  la ”resistenza“, dentro/fuori la “politica”, 
                  ci si interroga su ciò che comporti in termini di costi, 
                  di sostenibilità e responsabilità [accountability] 
                  per il soggetto; e su come si giustificano questi costi nell'ambito 
                  di una critica alla normatività del potere e al potere 
                  della normatività. 
                  Lo sforzo necessario per abbandonare le strutture invisibili 
                  del sé, quelle che Wollstonecraft riconduceva all'ideale 
                  borghese di sensibilità nell'Inghilterra del Settecento 
                  e che Goldman definiva “tiranni interiori”, è 
                  un passo importante, se non il più urgente. Promuovere 
                  iniziative che prevedano un certo distacco dai fondamenti del 
                  consenso democratico è altrettanto necessario; questo 
                  spostamento può aiutare a differenziare tatticamente 
                  – nel senso che ricorre in questo volume (cfr. May 1994; 
                  trad. it. 1998) – il “noi” collettivo da un 
                  “io” impuro, anti-fondazionalista in ricerca di 
                  sostenibilità etiche che includano la relazionalità 
                  con l'Altro. Si tratta quindi anche di coltivare “alleanze 
                  non violente” (Frabetti 2011b: 85) alternative alla comunità, 
                  la quale è inevitabilmente costruita in base alla logica 
                  binaria inclusione/esclusione e quindi a un meccanismo gerarchico 
                  costretto a ripetersi. 
                A proposito di anarchia 
                 Sull'onda di questo ragionamento Newman sostiene che, nelle 
                  loro tesi, Foucault, Gilles Deleuze e Félix Guattari 
                  hanno finito col replicare, almeno in parte, la logica binaria 
                  del potere: hanno investito di una certa autorità una 
                  serie di figure anti-essenzialiste (i corpi e i piaceri per 
                  Foucault, il corpo-senza-organi e il rizoma per Deleuze e Guattari) 
                  che, per quanto efficaci, non riescono a portare a termine la 
                  creazione di un soggetto, aggiungerei “incarnato”, 
                  della resistenza. Diversamente, la decostruzione di Derrida 
                  “permette di aprire il dominio dell'etica alla re-interpretazione 
                  e alla differenza, e quest'apertura è di per sé 
                  etica. È un'etica dell'impurità. Se la moralità 
                  è sempre contaminata dal suo altro – se non è 
                  mai pura – allora ogni giudizio morale, ogni decisione 
                  è per necessità indecidibile. Il giudizio morale 
                  deve sempre essere auto-inquisitore e cauto, perché privo 
                  di fondamenti assoluti” (Newman 2001: 127). 
                  Un'entità etica consapevole della propria impurità 
                  serve a Newman come veicolo per confutare il presupposto morale 
                  della legge. L'ideale di giustizia derridiano non si sedimenta, 
                  continua Newman, si modifica di volta in volta a seconda delle 
                  contingenze; il suo unico legame di dipendenza è con 
                  un'etica della responsabilità che ne contraddistingue 
                  e ne caratterizza la costituzione15. 
                  La giustizia “conserva la legge poiché opera in 
                  nome della legge; ma allo stesso tempo sospende la legge nel 
                  processo di reinterpretazione continua”. Se ad “anarchia” 
                  si sostituisce il termine “an-archia”, cioè 
                  un tipo di azione “costretta a rendere conto di se stessa, 
                  proprio come questa costringe l'autorità a fare altrettanto”, 
                  è possibile aprire l'esterno all'interno, costituire 
                  resistenza dall'interno del potere verso un fuori in 
                  continuo movimento: “Derrida allude alla possibilità 
                  di un fuori generato dall'interno [...] Rivela questa 'linea' 
                  dell'indecidibilità esistente tra interno e esterno, 
                  e opera ai limiti dell'interno per trovare un esterno, proprio 
                  come opera ai limiti della tesi poststrutturalista per trovare 
                  un 'oltre'” (Newman 2001: 128, 130-131). 
                  L'an-archia, per Newman, allude in effetti all'impossibilità 
                  di affidarsi a principi morali e/o linee guida come forme di 
                  prassi politica e etica. Il poststrutturalismo ha dimostrato 
                  che i concetti di moralità e razionalità su cui 
                  si è impostata gran parte della filosofia politica, se 
                  essenzializzati, sono in realtà strumenti normativi per 
                  “giustificare il dominio” di soggetti non conformi 
                  (2001: 161-164). Per questo motivo, un'etica senza fondamento 
                  (v. anche May 1994), che attraverso la significazione vuota 
                  [empty signification] della semiotica rompa il legame 
                  significante-significato per aprire al divenire e al pluralismo, 
                  potrebbe performare il ruolo di un “tendere a” che 
                  ritengo abbia affinità profonde con le teorie queer. 
                  Occorre tuttavia precisare che, più che di una rottura, 
                  si tratta, come si vedrà, di una tensione tra significante-significato 
                  e un'etica del divenire in cui il soggetto si (ri)crea ogni 
                  volta in maniera diversa. In altre parole, la contraddizione 
                  diventa il presupposto dell'etica, anziché un ostacolo 
                  alla sua affermazione, poiché genera possibilità 
                  e alternative inaspettate (Newman 2001: 165, 167). 
                  A questo proposito, Federica Frabetti, parlando del suo rapporto 
                  con il queer, fa riferimento alla “possibilità 
                  di pensare a un futuro possibile come promessa non messianica, 
                  come l'inatteso [...] come portatore di qualcosa che non possiamo 
                  prevedere (e che perciò cambierà il mondo)” 
                  (in Pustianaz, 2010, a cura di: 85). “Queering anarchia” 
                  (capitolo III) vuol dire anche riconoscere che queste due politiche 
                  radicali condividono un investimento passionale nei luoghi dell'altrove, 
                  in un futuribile ancorato al presente che deve necessariamente 
                  restare eccentrico, evitando di cristallizzarsi su identità 
                  fisse e di perdere la sua sostanziale radicalità antagonista. 
                  Così facendo il queer incrocia già il dominio 
                  etico del postanarchismo; per Newman, ad esempio, l'inatteso 
                  è alla base di teorie e prassi in grado di prendere le 
                  distanze da un'etica fondata su principi immutabili, e di permettere 
                  di sperimentare nel presente forme di sostenibilità posticipate: 
                  “non bisogna accontentarsi mai delle forme esistenti di 
                  democrazia ma piuttosto impegnarsi per una maggiore democratizzazione 
                  nel qui e ora; per un'articolazione continua della promessa 
                  democratica im/possibile di una libertà e un'egualità 
                  perfette [...] e integrare il concetto di democrazia a venire 
                  con una micro-politica e un'etica libertaria allo scopo di rimuovere 
                  i nostri investimenti psichici nel potere e nell'autorità 
                  inventando pratiche inedite della libertà” (2010: 
                  180, 181)16. 
                Ripensare l'agire individuale 
                 La conclusione del volume è suddivisa in due parti: 
                  nel capitolo IV discuto le pratiche pink/queer nate nell'ambito 
                  delle mobilitazioni di massa del movimento dei movimenti, per 
                  poi concentrarmi sulla questione della responsabilità 
                  partendo dagli spunti teorici cui ho già accennato. Essi 
                  riflettono sull'urgenza di ri-pensare l'agire individuale nel 
                  mondo nella teoria e nella pratica, partendo da incontri imprevedibili 
                  con l'alterità – altre teorie, altre pratiche, 
                  altri soggetti, che ci rendono necessariamente impur* – 
                  come pratica quotidiana di operare il dissenso. Infine, la “Coda” 
                  contiene una sequenza di spunti, riflessioni e proposte per 
                  negoziare un'etica queer risultante dagli incroci sviluppati 
                  nei capitoli precedenti. Attraverso il dialogo tra sessualità, 
                  teorie queer ed etica anarchica cerco di proporre il soggetto 
                  queer come colei/colui che intuisce il fondamento della propria 
                  presenza nel mondo in ciò che non le/gli appartiene; 
                  un soggetto politico sempre già contestualizzato in un 
                  “fuori interno” al potere (v. Newman 2001). L'anarchismo 
                  queer rompe i legami tra significanti e significati nell'articolazione 
                  dell'esperienza e li sostituisce con espressioni singolari, 
                  autonome, anti-autoritarie in continuo divenire. Qui e ora.
                  Samuele Grassi 
				Note 
                
                  - È indubbiamente riduttivo consegnare il queer all'ambito 
                    di un superamento delle politiche identitarie della sessualità; 
                    tuttavia, intendo esplicitare i vari richiami in termini di 
                    teoria e di pratica politica nel seguito di questa introduzione 
                    e nei capitoli successivi. 
                  
 - Ringrazio Massimiliano Bertelli e la redazione della rivista 
                    Il Grandevetro per avermi permesso di presentare queste 
                    riflessioni in un intervento sul numero Questa o quello 
                    per me pari sono (103, 2012). 
                  
 - I suggerimenti di Clotilde Barbarulli, Liana Borghi, Renato 
                    Busarello, Giovanni Campolo e Marco Pustianaz sono stati preziosi 
                    per le riflessioni in oggetto, qui e altrove in questa introduzione. 
                  
 - Nel capitolo III, questo paradigma è al centro della 
                    discussione dell'omonazionalismo (v. Puar 2007 e altri). 
                  
 - “Democrazie sessuali” è un termine particolarmente 
                    efficace ripreso dalla critica all'omologazione queer e mutuato 
                    dall'attivismo italiano. Nel 2011 Facciamobreccia ha organizzato 
                    un convegno sul tema (v. capitolo III), posizionando l'Italia 
                    come una democrazia sessuale “fantasma” in quanto 
                    occupa una posizione sia interna, sia esterna in questo ordine: 
                    “una periferia europea e mediterranea in cui convergono 
                    normativa antidiscriminatoria e respingimenti in mare, globalizzazione 
                    e identitarismo regionalista, neoliberismo in crisi e conservatorismo 
                    religioso” (Facciamobreccia). 
                  
 - Mentre faccio queste considerazioni, si avvicina la presentazione 
                    del neo-partito di Magdi Allam, Io amo l'Italia (1 dicembre 
                    2012). 
                  
 - Nella sua applicazione della citazionalità ai fondamenti 
                    del concetto di genere, Butler sostiene che citando il genere 
                    stesso, anch'esso una copia senza originale, ci si rende conto 
                    della capillarità delle norme che lo regolano e dei 
                    loro effetti, e si dimostra la sua vulnerabilità in 
                    quanto categoria (Frabetti 2011a: 35-6). 
                  
 - Ciò che rende la T.A.Z. realmente dirompente e sovversiva 
                    di ogni ordine precostituito è proprio la sua transitorietà, 
                    il modo in cui stabilisce il potere creativo dell'effimero. 
                    Prosegue Hakim Bey: “Appena la T.A.Z. è nominata 
                    (rappresentata, mediata) deve svanire, svanirà, lasciandosi 
                    dietro una corteccia vuota, solo per poi saltare fuori ancora 
                    da qualche altra parte, ancora una volta invisibile perché 
                    indefinibile in termini dello Spettacolo” (1995; trad. 
                    it. 2007: 15). 
                  
 - La società de/generata. Teoria e pratica anarcoqueer, 
                    Nautilus, Torino. 
                  
 -  Essa ha riscosso un discreto interesse fin da subito, come 
                    dimostra anche la rete internazionale Anarchist Studies Network 
                    fondata dai ricercatori britannici Ruth Kinna e Alex Prichard, 
                    che contiene sezioni su “Gender” e “Sexuality”. 
                  
 - Attraverso la sua critica all'eteronormatività, il 
                    queer è un modo per delegittimare il valore intrinseco 
                    attribuito alle identità sessuali dominanti: partendo 
                    da questo presupposto Laura Portwood-Stacer afferma che questo 
                    modello di critica “echeggia nella filosofia fondamentale 
                    dell'anarchismo, nell'impegno all'autonomia e all'opposizione 
                    contro le gerarchie, cioè a relazioni di potere inique 
                    che autorizzano una violazione dell'autonomia di alcune persone 
                    da parte di altre” (2010: 480). 
                  
 - Ringrazio Aldo Ceccoli per aver stimolato le mie riflessioni 
                    su questo e altri punti di questa introduzione. 
                  
 - Sul rapporto tra femminismo e anarchia in Emma Goldman, 
                    v. anche Wexler, cit. in Hewitt 2001: 313. 
                  
 - In proposito, si vedano Heckert, Cleminson, 2011a, a cura 
                    di; Rousselle, Evren, 2011, a cura di. 
                  
 - In Jacques Derrida, la differenza tra giustizia e legge 
                    è tale che, a differenza di quest'ultima, la giustizia 
                    si apre sempre all'altr*; diventa imprevedibile, proprio perché 
                    altrimenti non avrebbe ragione di contrapporsi alla legge 
                    stessa. 
                  
 - L'anarchia a venire di Newman è una rielaborazione 
                    del concetto di a-venire di Derrida. 
  
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