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				 anarchismo/1 
                  
                Identità erranti 
                  
                di Maria Matteo 
                    
                La crisi attuale sembra segnalare l'affermarsi di sensibilità e pratiche anarchiche. Ma il guado da attraversare è lungo e difficile. 
                 
                  Il lungo addio dal novecento che stiamo attraversando finirà probabilmente 
  con il declinare in modo altro le questioni che hanno segnato il secolo appena 
  trascorso, sino a riporne alcune nella cassetta degli attrezzi di un passato 
  che non torna. Il tempo dell'attraversamento che stiamo vivendo nel suo porsi 
  all'intersezione di tempi e modi dell'agire politico e sociale è come 
  un guado tra due sponde su cui non sappiamo se finirà con l'insistere 
  un ponte. Forse non c'è né guado né ponte per i più 
  giovani, perché sono già stabilmente oltre. 
  Tuttavia lo sguardo che tenta di collegare le due sponde vede come i percorsi 
  che segnano l'agire politico degli attivisti radicali degli anni dieci si ancorino 
  saldamente alla negazione del passato più che all'affermazione del presente. 
  Le identità che segnano questa nostra epoca sono costitutivamente erranti, 
  in moto, disponibili alla sperimentazione più che all'impegno, interessate 
  al viaggio più che all'approdo. Sono i figli e i nipoti di illusioni 
  e sconfitte, sono figli e nipoti di percorsi di libertà che si sono dipanati 
  nonostante le illusioni e le sconfitte. Un viaggiatore che approdasse 
  nel nostro paese direttamente dagli anni sessanta coglierebbe immediatamente 
  due dati. La rivoluzione della vita quotidiana come percorso in parte compiuto, 
  in parte dimenticato; la trasformazione sociale come orizzonte remoto, rarefatto, 
  quasi impalpabile. Lo stesso viaggiatore coglierebbe la ricchezza delle esperienze 
  di autogestione territoriale che aprono crepe nell'omologazione della merce 
  e la contestuale rarefazione dello scontro di classe, la difficoltà nel 
  costruire percorsi di lotta capaci di mettere in difficoltà l'avversario. 
  Da un lato la spinta alla sottrazione dall'ordine che imbriglia le vite, dall'altro 
  la difficoltà di immaginare un percorso che spezzi quest'ordine. 
  Viviamo un'epoca di rivoluzionari senza rivoluzione. Colpisce che lo stesso 
  persistere di una mitologia rivoluzionaria è spesso più rappresentazione 
  rituale, che fonte viva cui attingere. 
                  La strategia della sottrazione 
				  Se il capitalismo trionfante ha seppellito le rivoluzioni del secolo scorso, 
  tuttavia la cecità, l'assenza di prospettive che oltrepassino l'eterno 
  ritorno dell'oggi, l'impossibilità a far fronte alla crisi ecologica, 
  l'evidenza che una crescita inarrestabile è insostenibile e distruttiva, 
  aprono vistose crepe in un'impalcatura che divora se stessa. Il capitalismo 
  continua a promettere a ciascuno la propria chance ma l'immagine che lo riflette 
  è una clessidra strettissima al centro, appena più larga poco 
  sopra, molto ampia alla base. 
  Chi sceglie di voler spezzare questa clessidra non trova a soccorrerlo una teoria 
  sociale solida, solo alcune grandi idee di riferimento, come l'abolizione della 
  proprietà privata, la messa in comune delle risorse fondamentali, la 
  promozione di stili di vita più sobri, la riduzione degli sprechi, l'eliminazione 
  della merce e la sensibile riduzione degli scambi. Non solo. La transizione 
  e finanche la rottura rivoluzionaria si perdono in un futuro remoto. 
  L'estinguersi felice del grande meccano sociale che fa girare le storia, con 
  il suo triste corollario di esegeti di come starci dentro, come interpretarne 
  il modo, come sollecitarne l'ingranaggio ha donato la libertà della sperimentazione, 
  la vertigine di un domani che non offre promesse ma non impone itinerari. La 
  consapevolezza che l'incastro tra i molti luoghi dell'agire cosciente, nella 
  loro multiforme agilità, si scontra con un magma violento, distruttivo, 
  perfettamente anomico, non offre troppi margini all'ottimismo. 
  I processi di finanziarizzazione dell'economia capaci di ingoiare milioni di 
  vite con un colpo di tastiera agito in automatico da un programma educato a 
  reagire in quel modo, rendono più impalpabile l'avversario, al punto 
  che gli stessi attori privilegiati del piano alto della clessidra perdono di 
  fisicità. 
  Questo favorisce la strategia della sottrazione rispetto a quella del conflitto, 
  spesso senza cogliere che non c'è fuga, non c'è luogo, che possa 
  vivere se non nello scontro. Qualsiasi spazio liberato, anche se sopravvive 
  ai periodici assedi, muore comunque d'asfissia se non mira a crescere, allargarsi, 
  moltiplicando le lotte. 
  Nella melma dei piani bassi della clessidra la durezza dello sfruttamento più 
  bestiale ci consegna la violenza di classe nella sua cruda nudità. Non 
  ci sono orpelli, ammortizzatori, finto cordoglio per le vittime. È la 
  giungla sociale. Ci lavoravano in tremila in quella fabbrica di Dacca, dove 
  si stava piegati sulle macchine da cucire mentre i muri scricchiolavano, mentre 
  il pavimento si spaccava, mentre la vita se ne andava tra le macerie. Mille 
  cadaveri li hanno tirati fuori, per gli altri la fabbrica è stata anche 
  la tomba. Qui, nel nostro nord, terrorizzato dal sud che avanza a ci ingoia, 
  qualcuno ha pianto, le ditte più astute hanno annunciato maggiore attenzione 
  per chi morendo rischia di sporcare di sangue i loro marchi. 
  Poi si volta pagina e si dimentica. 
  Chi governa il mondo ha saputo creare i luoghi dove mediare tra i diversi interessi 
  e, insieme costruire i meccanismi di una governance sovranazionale che imponga 
  le proprie regole. Non senza crepe, non senza scontri, non senza guerre. 
  Rompere quest'ordine folle senza essere travolti dalle macerie è la scommessa 
  che ci attraversa, ma resta sullo sfondo, nello spazio di un domani che non 
  riusciamo a immaginare. 
  L'opacità degli anni che viviamo è il nostro peggiore nemico, 
  perché conduce le nostre identità erranti a intrecciare percorsi 
  che vivono un presente senza domani. 
                  Quell'esile passaggio di corde incrociate 
				  
                Intendiamoci. Nessuno rimpiange il sole dell'avvenire che illumina 
                  il futuro consegnandogli il presente. Resta il fatto che diventa 
                  difficile costruire un buon presente se non si immagina di impastarvi 
                  il futuro. 
                  Nella concretezza dei percorsi politici questo secondo decennio 
                  del secolo ci consegna una sempre più marcata attitudine 
                  a una liquefazione delle relazioni. Il senso di appartenenza, 
                  la relazione diretta all'interno di gruppi specifici, lascia 
                  il passo a un ampio nomadismo, a un viaggiare che passa da un 
                  luogo all'altro dell'agire politico e sociale, spesso senza 
                  trovare approdi definitivi. La stessa dimensione tribale che 
                  aveva segnato gli anni novanta si stempera sia nella materialità 
                  del vivere al tempo della crisi, sia nel disfarsi delle culture 
                  che l'avevano animata. 
                  Quest'attitudine ha segnato la fine dei partiti della sinistra 
                  novecentesca. E fin qui nessuno si lamenta. Investe tuttavia 
                  anche l'area libertaria, al punto da rendere obsoleto il dibattito 
                  tra organizzatori ed antiorganizzatori, tra chi preferisce un'organizzazione 
                  stabile e di sintesi e chi sceglie gruppi di affinità 
                  la cui relazione non sia formalizzata. Gli uni e gli altri devono 
                  fare i conti con il moltiplicarsi di percorsi individuali che 
                  si intrecciano e non si fermano, che spesso si raggrumano intorno 
                  a luoghi o lotte specifiche, per poi disperdersi altrove, in 
                  altre lotte, in altri luoghi. 
                  Un nomadismo che è anche fisico, ma più spesso 
                  rimanda al rifiuto cosciente di un ancoraggio, al concedersi 
                  l'agio della leggerezza, del movimento. Sul piano dell'analisi 
                  questa attitudine porta all'intreccio tra spunti e culture politiche 
                  diverse, con esiti a volte spuri, altre interessanti. 
                  Immaginate che il novecento sia stato smontato in tutti i vari 
                  pezzi che l'hanno costituito e messo in tante diverse cassette. 
                  Nel guado tra i due secoli c'è chi prende un pezzo da 
                  una parte ed uno dall'altra, per mescolarli, nelle convinzione 
                  – o illusione – che l'incastro vada “oltre” 
                  il secolo breve. Mi pare difficile che questo puzzle possa trovare 
                  una propria forma, tuttavia il dato più interessante 
                  è che l'orizzonte libertario, sia pure stemperato a talora 
                  banalizzato, sia divenuto spazio comune. Anche chi resta ancorato 
                  ad una prospettiva autoritaria è obbligato a farci i 
                  conti, a mascherare la propria attitudine gerarchica con il 
                  pretesto dell'efficienza o altri orpelli un po' stantii. 
                  L'anarchismo “classico”, quello che punta sull'organizzazione 
                  di sintesi, come quello che gioca la carta dell'affinità, 
                  si trova di fronte ad una vittoria del proprio orizzonte culturale 
                  e insieme ad una sfida ai propri percorsi. Il guado è 
                  molto lungo e difficile. Forse alla fine non ci sarà 
                  un ponte solido ma solo un'esile passaggio di corde intrecciate.
                  Maria Matteo
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