I troll Mumin, 
                  una famiglia allargata in piccola comunità 
				  
                  Lo 
                  spunto per parlare dei Mumin (Moomin) me lo offre l'edizione 
                  2012 della festa dei libri per bambini e ragazzi “La tribù 
                  dei lettori”, che si è tenuta a Roma, al Maxxi 
                  (Museo nazionale delle arti del XXI secolo) in via Guido Reni, 
                  dal 28 maggio al 2 giugno 2012. La Tribù li ha infatti 
                  premiati come i migliori, nelle edizioni Black velvet. Io invece 
                  li conosco da diversi anni nella mitica collana Gl'Istrici, 
                  diretta per Salani da Donatella Ziliotto. 
                  I Mumin sono quanto di più anticonformista e libertario 
                  – autenticamente libertario – mi sia capitato di 
                  incontrare nel vastissimo panorama dei libri per bambini e ragazzi. 
                  La loro comunità è nata nel 1946, in Finlandia, 
                  dall'immaginazione e dall'intelligenza di una raffinatissima 
                  disegnatrice e scrittrice appartenente alla minoranza di lingua 
                  svedese: Tove Jansson (Helsinki, 1914 - 2001). Dapprima le sue 
                  storie dei troll Mumin furono raccontate attraverso albi illustrati, 
                  poi divennero strisce a fumetti, infine veri e propri libri 
                  tradotti in più di trenta paesi. Lettura culto per generazioni 
                  di ragazzini in tutto il mondo ma soprattutto nordeuropei, che 
                  li hanno celebrati e li celebrano tuttora in numerosissimi fans 
                  club, i Mumin hanno guadagnato alla Jansson decine di riconoscimenti 
                  internazionali, tra cui nel 1966 la Medaglia H.C. Andersen (il 
                  Nobel della letteratura per bambini). 
                  Tralascio tutti gli annessi e connessi di carattere commerciale 
                  (tv, merchandising ecc.) che hanno accompagnato nel corso del 
                  tempo il “fenomeno Mumin”, per dire piuttosto dell'incanto, 
                  perché di incanto si tratta, che questi esseri suscitano 
                  in egual misura in piccoli e grandi. 
                  Prendiamo, per esempio, Il Cappello del Gran Bau (Adriano 
                  Salani Editore, Firenze 1990, pp. 157), un libro che Tove Jansson 
                  diede alle stampe nel 1968 e che, insieme con Magia di mezza 
                  estate, fu il primo della serie a essere pubblicato in Italia 
                  da Salani nel 1990. Non ne racconterò la trama. Ma in 
                  questo strampalato susseguirsi di avventure, il piacere dell'eleganza 
                  della scrittura (tradotta da Annuska Palme Sanavio e dalla stessa 
                  Ziliotto) e delle illustrazioni originali dell'autrice si accompagna 
                  a un altro piacere, senz'altro per me più sottile e stupefacente: 
                  quello della rappresentazione poetica e giocosa della coesistenza 
                  pacifica e non gerarchica di un gruppo di individui. 
                  Nel breve prologo, sempre lo stesso, che accompagna tutti i 
                  suoi testi editi da Salani, Tove Jansson spiega che, a differenza 
                  dei troll comuni delle saghe nordiche, “che sbucano solo 
                  di notte”, questi troll Mumin “sono molto più 
                  civili e istruiti” e “hanno un grandissimo amore 
                  per il sole”. “D'estate naturalmente sono felici” 
                  afferma la scrittrice, che ci tiene anche a partecipare ai lettori 
                  come proprio la mezza estate, il 21 giugno, sia la loro festa 
                  più grande. 
                  Dal mio punto di vista è proprio il sole la chiave di 
                  lettura per comprendere la visione del mondo e delle relazioni 
                  sociali che sta alla base di questa cosmogonia creata dalla 
                  Jansson. 
                  I troll Mumin – "famiglia allargata in piccola comunità, 
                  che vive nell'omonima valle" – non sono esenti da 
                  invidie, gelosie o rabbia. Il loro universo non è affatto 
                  un eden. Anzi, se c'è un tratto nel quale ci si può 
                  riconoscere completamente è la verità di un quotidiano 
                  raccontato senza ipocrisie. La loro sostanziale solarità 
                  li spinge tuttavia ad adottare quasi sempre atteggiamenti aperti 
                  e tolleranti, spesso addirittura amorevoli nei confronti dei 
                  propri simili. E dettati da una grandissima gioia di vivere. 
                  Una joie de vivre esplosiva e liberatoria, che non conosce 
                  sensi di colpa. 
                  È lo stesso Papà Mumin a esemplificare con una 
                  metafora la saggia filosofia che regola la vita nella Valle: 
                  considerando la fugacità dell'estate nordica, bisogna 
                  cercare di divertirsi il più possibile finché 
                  si è in tempo, dichiara nel Cappello del Gran Bau 
                  davanti a figli e amici riuniti. 
                  Ma come sono risolti i conflitti qui, in questa specifica storia 
                  e anche nelle altre della saga? Accettando di partecipare tutti, 
                  troll piccini compresi, a un confronto aperto e leale, che non 
                  esclude la messa a nudo dei propri sentimenti, per quanto deplorevoli. 
                  Sembra molto banale, vero? Non lo è! 
                  “Bisogna tenere consiglio. Tutti si trovino al cespuglio 
                  di lillà alle tre per discutere la questione”, 
                  stabilisce Grugnino, dovendo affrontare uno spinoso problema, 
                  qual è quello del “furto” di un “rubino 
                  grande come la testa di una pantera, incandescente come un tramonto, 
                  vivo come il fuoco e come lo scintillio dell'acqua”. (Che 
                  però non è stato rubato per il suo valore economico, 
                  bensì per la bellezza che promana). Nessuno nella comunità 
                  pensa di sottrarsi all'appello. 
                  La scena del tribunale è spassosissima, giocata com'è 
                  sul filo della parodia dei tribunali veri. Ma è notevole 
                  soprattutto per l'epilogo. Un epilogo che sfocia nella mediazione, 
                  l'unica via realmente percorribile dopo aver riconosciuto le 
                  ragioni di tutti i contendenti. In tal modo il verdetto non 
                  potrà che essere equo, e questo grazie anche alla partecipazione 
                  attiva di ciascun membro del gruppo. 
                  Qualche volta, leggendo, capita di commuoversi. A me è 
                  successo spesso di ridere e di sentirmi al contempo profondamente 
                  colpita dall'acutezza psicologica, delicata e leggera, con la 
                  quale la Jansson tratteggia i suoi personaggi. 
                  Nel Cappello del Gran Bau è la descrizione dell'amicizia 
                  tra Tabacco e il troll Mumin a farmi un grandissimo effetto. 
                  Si tratta di un legame prezioso, fondato sul rispetto della 
                  diversità e delle esigenze reciproche. Quando infatti 
                  Tabacco, sentendo il richiamo di luoghi remoti dove “ha 
                  bisogno di andare da solo”, parte, il troll Mumin è 
                  così generoso da accettare la felicità dell'amico 
                  pur soffrendo moltissimo il distacco. 
                  “Brindo a Tabacco, che stanotte vaga verso sud, solitario, 
                  ma certo felice quanto noi! Auguriamogli un posto tranquillo 
                  per la sua tenda e per il suo cuore!” afferma davanti 
                  alla comunità in festa questo piccolo grandissimo troll 
                  nascondendo le lacrime. 
                  Il microcosmo dei Mumin è un esperimento di libertà 
                  che possiamo proporre ai nostri bambini e che possiamo condividere 
                  con loro in un percorso di crescita comune. Saremo sorpresi 
                  dalla franchezza con cui l'autrice parla... di noi. E anche 
                  dall'ironia, spesso sferzante, con cui lo fa. 
                  Per quanto riguarda il piccolo troll Mumin, così triste 
                  per la partenza di Tabacco, vien quasi voglia di abbracciarlo, 
                  di averlo anche noi per amico tra quelli che possiamo contare 
                  sulle dita di una mano. 
                  Emanuela Scuccato
                 
                   
                   
                   Il ritorno di  
                  Cristiano De André 
                 Penso che si provi sempre un forte brivido ascoltare Le 
                  vent nous portera dei Noir Désir, avvertire come 
                  una ebbrezza la voce vellutata del leader ribelle (e maledetto) 
                  della rock band francese (scioltasi nel 2010), Bertrand Cantat, 
                  che intona “... mentre aumenta la marea/ognuno fa i propri 
                  conti/ io mi ritrovo in fondo alla mia ombra/polvere di te/il 
                  vento ti porterà/ ma il vento ci guiderà... ”. 
                  Un capolavoro assoluto di poesia e struggente malinconia dell'ultimo 
                  decennio (uscito nello stesso giorno dell'attentato alle Torri 
                  gemelle di New York), Cristiano De André ne ha rifatto 
                  una splendida versione tutta in italiano e l'ha inserita in 
                  Come in cielo così in guerra (Nuvole production), 
                  album comparso sugli scaffali a dodici anni di distanza dall'ultimo 
                  Scaramante. 
                
                   
                     
  | 
                   
                   
                    |   Cristiano De André  | 
                   
                 
				 
                  Per realizzarlo De André è volato in California 
                  e si avvalso dell'aiuto di Corrado Rustici, che ne ha curato 
                  gli arrangiamenti, e della partecipazione di artisti sempre 
                  più richiesti a livello internazionale, come il bassista 
                  e compositore Kaveh Rastegar e il batterista Michael Urbano 
                  (che lavora da un po' di anni anche con Ligabue). Dieci tracce 
                  che si tengono insieme senza stridore anche se De André 
                  (che, oltre a cantare, suona violino, bouzouki e chitarra acustica) 
                  ha cercato di mischiare le carte del rock con l'etno, l'elettronica 
                  con la word music (qui i sentori di Peter Gabriel si avvertono, 
                  eccome). Un album curatissimo nei minimi dettagli con De André 
                  che si racconta senza nascondersi e lascia pulsare dentro le 
                  sue canzoni gli ideali, l'amore, il legame spesso conflittuale 
                  tra genitori e figli, l'affanno dell'affrontare la vita che 
                  è poi il disagio del vivere di tutti. Ci ha messo in 
                  questo lavoro il cuore e, soprattutto, la poesia che permette 
                  di osservare, abbracciare più in profondità le 
                  cose e la vita. 
                  Dai dieci pezzi sicuramente viene fuori un Cristiano De André 
                  fortemente ispirato, che si veste da demone e angelo, da viandante 
                  con le sue certezze e insicurezze. Oltre alla cover dei Noir 
                  Désir che, tra l'altro, ha un testo tanto in sintonia 
                  col pensiero più deandreiano (nel senso che è 
                  affine tanto al padre Fabrizio che al figlio Cristiano) del 
                  sentirsi sulla terra profughi infiniti, si può provare 
                  una certa emozione nell'ascoltare altri brani ricchi di candore 
                  e delicate sfumature come Non è una favola, Disegni 
                  nel vento e Sangue del mio sangue, ma sono altrettanto 
                  da scoprire Ingenuo e romantico e Vivere, le cui 
                  sonorità più si ascoltano e più entrano 
                  dentro. Una nota a parte meritano Le bambole della discarica, 
                  testo scritto insieme al poeta pavese Oliviero Malaspina dove 
                  le donne (le bambole) di cui si parla sono le puttane di oggi 
                  che si vendono non per soddisfare il bisogno primario del pane, 
                  ma per arrampicarsi sullo specchio di un benessere illusorio, 
                  e sicuramente Credici, un pezzo indiscutibilmente politico 
                  in cui si può specchiare lo stato di un paese malridotto, 
                  “svenduto al peggior dei medioevi”, dove viene richiamata 
                  alle sue responsabilità anche la “Santa Madre Chiesa” 
                  che ha voltato le spalle a Cristo per inchinarsi allo Ior e 
                  all'Opus Dei. 
                  In questa stagione mancava nel panorama della musica italiana 
                  un album così ricercato e ponderato su un ben definito 
                  stilema di generi, e ora è arrivato da Cristiano De André, 
                  come fosse un delicato fiore (dono) di primavera.
                 Mimmo Mastrangelo 
                   
                   
                   L'insurrezione che viene. 
                  Due letture 
                 Provando a commentare – 
                  in un precedente numero di “A” (n.378) – 
                  il recente libro di Negri e Hardt, Questo non è un 
                  manifesto, si evidenziavano alcuni limiti interpretativi 
                  del volume riguardo agli attuali movimenti in corso d'opera, 
                  auspicando, come opzioni, necessarie rotture di piani affinché 
                  emergessero aperture di orizzonti più inclusive e di 
                  maggiore respiro, in grado di coniugare le proteste dei vari 
                  movimenti metropolitani contro la crisi economico-finanziaria 
                  con le conseguenze provocate dal disastro ambientale, nella 
                  considerazione che una sola è la crisi che dilaga, che 
                  ci attraversa e di cui si parla. 
                    
                  Produzione di verità e pratiche 
                  politiche  
                  Il recente volumetto di Gustavo Esteva, Antistasis. L'insurrezione 
                  in corso (Asterios, Trieste, 2012, pp. 96, € 9,00), 
                  pur nella sua brevità, adempie meritoriamente a questa 
                  prospettiva inclusiva. Riprendendo Foucault (autore che taglia 
                  trasversalmente e sotterraneamente l'intero testo), la questione 
                  per Esteva non sta nel modificare le idee della gente, ma si 
                  tratta di lavorare sui dispositivi (politici, economici, istituzionali, 
                  ecc.) di produzione della verità, ovvero l'insieme di 
                  enunciati in base ai quali governiamo (o veniamo governati): 
                  noi stessi e gli altri, i corpi e le menti. Non a caso il libro 
                  si apre con l'affermazione che l'insurrezione inizia dal linguaggio. 
                  La sostituzione del sostantivo con il verbo – denominatore 
                  comune di molte delle attuali iniziative sociali e politiche 
                  – dichiara il passaggio dall'idea all'azione, all'utopia 
                  concreta: in questione è il mangiare degli uomini e delle 
                  donne, così come l'abitare, l'apprendere, il curarsi 
                  e via dicendo. 
                  Fondatore nella città messicana di Oaxaca della Universidad 
                  de la Tierra (luogo in cui non vi sono insegnanti né 
                  esami o programmi da rispettare: lì, i ragazzi non sono 
                  consumatori dell'istruzione come merce, né rivendicano 
                  il diritto allo studio, ma esercitano in maniera conviviale 
                  la libertà di conoscere), Esteva – assai vicino, 
                  come si può intuire, alle posizioni di Ivan Illich – 
                  si definisce “attivista sociale e intellettuale pubblico 
                  deprofessionalizzato”. 
                  “Stiamo vivendo una catastrofe di civiltà che mette 
                  a rischio la sopravvivenza della vita umana”: questo è 
                  il punto d'avvio del saggio e da qui l'autore prova a sondare 
                  i segnali di inversione, le vie di fuga e di rottura che si 
                  possono intravedere. 
                  Un'insurrezione sta attraversando il mondo, dice Esteva, e alcune 
                  sue espressioni sono sotto gli occhi di tutti: la primavera 
                  araba, gli indignados spagnoli, le manifestazioni greche, 
                  il movimento Occupy statunitense, ma anche il dramma e la lotta 
                  dei popoli migranti, o il raggruppamento internazionale di via 
                  Campesina impegnato nella difesa della biodiversità, 
                  per la sovranità alimentare e per politiche in campo 
                  agro-alimentare più legittime e sostenibili. 
                  A partire da ciò Esteva rielabora alcune domande, per 
                  così dire classiche, individuando al contempo possibili 
                  direzioni di percorso. In breve: ciò che sta accadendo 
                  (e l'attenzione del libro è rivolta in primis, 
                  anche se in modo non esclusivo, a quanto succede nel continente 
                  latinoamericano) ha la portata di un'insurrezione? Qual è 
                  la sua fisionomia? Quali rischi e quali potenzialità 
                  esprime? Possiede tratti realmente anticapitalistici o rischia 
                  di essere funzionale al regime dominante, un ulteriore tassello 
                  che, sebbene involontariamente, ne alimenta la sopravvivenza? 
                   
                  L'alternativa comunitaria 
                  La sola alternativa, secondo Esteva, è quella comunitaria. 
                  Né individualismo capitalista né statalismo socialista, 
                  con le derive autoritarie verso cui entrambi degenerano (criminalizzazione 
                  dell'avversario, stato di eccezione), ma recupero pieno del 
                  valore della collettività, la quale può assumersi 
                  in prima persona compiti e responsabilità, senza accentramenti, 
                  deleghe o surrogati di sorta (vi sono qui interessanti riferimenti 
                  al pluralismo radicale di Raimon Panikkar). Non vi è 
                  ed è bene che non vi sia un centro-guida che articoli 
                  un unico movimento di resistenza e di protesta mondiale; ad 
                  esso è preferibile l'idea di una rete plurale, interconnessa 
                  e dinamica, che si muove ed entra in azione quando un nodo della 
                  rete agisce o viene aggredito. Così come va abbandonata 
                  l'ossessione della presa del potere (attraverso le tornate elettorali 
                  o con la lotta armata), concentrandosi invece verso una progressiva 
                  erosione dei meccanismi statali e dei suoi apparati (istituzioni, 
                  esperti, ecc.), per la creazione di una normatività “dal 
                  basso”, una democrazia davvero radicale. Il riferimento 
                  esplicito dell'autore va all'esperienza zapatista (di cui fu 
                  consigliere nel corso dei negoziati dell'Ezln con il governo 
                  messicano), al loro mandar obedeciendo (“comandare 
                  obbedendo”) e ben espresso dalle parole dello stesso Marcos: 
                  “Il nostro vantaggio è per l'appunto di non avere 
                  un centro-guida, né un piano preconcetto nel tentativo 
                  di omogeneizzare le parti di questa rete”. E ancora: “La 
                  maggiore scommessa dello zapatismo è nel proclamare la 
                  possibilità di fare politica senza prospettare la presa 
                  del potere”. 
                
                   
                     
  | 
                   
                   
                    |   Gustavo Esteva  | 
                   
                 
                   
                  Il buen vivir 
                  L'approdo e la forma stessa di questo percorso è il buen 
                  vivir, di cui si parla molto in America latina e pochissimo 
                  in Europa (quando non lo si confonde con le varie forme di benessere 
                  narcisistico: vedi il new age). Buen vivir è 
                  un'espressione spagnola che riprende a sua volta un termine 
                  di origine quechua e che può essere sintetizzato come 
                  la ricerca di armonia e benessere collettivo con la natura intesa 
                  come terra mater, come madre natura (Pacha Mama), 
                  laddove la concezione occidentale dominante della terra è 
                  quella di una mera estensione, passiva, res nullius da 
                  predare e colonizzare. 
                  Su questo tema segnaliamo anche il volume di Carlo Sini, Del 
                  viver bene (Jaca Book, Milano, 2011), per molti versi 
                  differente da quello di Esteva ma non per questo distante, in 
                  cui viene compiuta una quanto mai articolata ricognizione genealogica 
                  – con gli strumenti della semiotica filosofica – 
                  riguardo l'economia dell'attuale mercato globalizzato, a cominciare 
                  dall'analisi delle strutture del sacrificio, del dono e dello 
                  scambio, fino a far affiorare le sottili relazioni intercorrenti 
                  tra scrittura, sapere e denaro con la conseguente mercificazione 
                  dei rapporti umani. Per giungere a riconoscere (in particolare 
                  nell'ampia appendice finale del saggio) nel buen vivir 
                  degli indios le tracce di possibili economie politiche alternative, 
                  fondate sul rispetto della biodiversità e del pluralismo 
                  culturale.
                 Federico Battistutta 
                   
                   
                   Un passaggio  
                  tra gli scheletri  
                  Homo 
                  sapiens che, con le loro fughe di morte, raccontano un'epica 
                  quanto tragica rincorsa verso un'irraggiungibile immortalità, 
                  ma anche quella di “qualcun altro” che, esibito 
                  pornograficamente o consumato quotidianamente, sta lì 
                  – immortalato – a suggerirci di incarnare finalmente 
                  un quid comune che ci ri-guarda. 
                  Una storia in-naturale, insomma, che è poi quanto prefigura 
                  Massimo Filippi in questo piccolo libro (Natura infranta. 
                  Dalla domesticazione alla liberazione animale, Ortica Editrice, 
                  2013), organizzato in 18 tesi – che dalla preistoria arrivano 
                  fino ai nostri giorni – e arricchito da quattro tavole 
                  in bianco e nero dell'artista Luigia Marturano; libro in cui 
                  l'autore si fa interprete di emozioni vitali che indagano (lasciandosi 
                  indagare) l'indeterminatezza del senso, dei sensi e del sentire. 
                  Uno dei protagonisti di questa storia altra è 
                  un cadavere. Un feto di maiale, “l'animale addomesticato 
                  e oppresso per eccellenza, con una sola testa e due corpi”. 
                  Il risultato di due violenze: quella incosciente della natura 
                  e quella istituzionalizzata dal devastante impulso di supremazia 
                  dell'umano che, sistematicamente e con “successo”, 
                  si è adoperato e si adopera in una guerra di presunta 
                  liberazione, ma che in realtà è una guerra fratricida 
                  che si concretizza nel millenario atto di autoaffermazione identitaria 
                  diretto contro la sua componente animale. 
                  Questo feto di maiale è mostruoso, è il risultato 
                  di malformazioni moltiplicate oltre ogni misura dal contesto 
                  forzato, per quanto onnipresente, dell'allevamento. Un mostro 
                  che, però, è in grado di emettere un urlo muto 
                  capace di rievocare l'impotenza della creazione e l'insalvabilità 
                  che la percorre. Un'eco straziante che indica con insistenza 
                  assordante (nella fragorosa indifferenza sociale) che quella 
                  bocca, spalancata più che aperta, è una porta 
                  annidata dentro le porte normalmente chiuse dell'umano, una 
                  via di fuga dall'ignominia del presente. Apertura incancellabile 
                  che continuamente evoca la necessità di una rivoluzione 
                  immanente del “chi” – piuttosto che dell'eternamente 
                  procrastinabile “cosa” –, una rivoluzione 
                  che travalichi le barriere di un sistema che ci ha ridotti, 
                  insieme agli altri animali, a strumenti funzionali ad un presunto 
                  ordine naturale e che contemporaneamente sorvoli oltre i labirinti 
                  delle prospettive ideologiche oggettivanti. Apertura che ci 
                  permette di intravvedere un sentiero che non segue né 
                  le vecchie orme conformi alla prima legge né le 
                  fatidiche promesse normative di un irrealizzabile superamento 
                  della condizione di sfruttamento generalizzato in cui viviamo. 
                  Un percorso che, abbandonando i disegni deliranti di liberarci 
                  dalla natura o di liberazione della natura, si 
                  incammina verso una liberazione alla natura ancora tutta 
                  da pensare. Un piccolo passaggio che ci fa intravvedere la possibilità 
                  “di costituirci come esseri naturali in quanto culturalmente 
                  coscienti della [nostra] finitudine”. 
                  In questo libro, che senza dubbio rappresenta un contributo 
                  lungimirante al dibattito antispecista, l'autore svincola la 
                  questione animale dai recinti concettuali imposti sia dall'ecologia 
                  profonda che dalle varie culture di stampo umanista, proponendoci 
                  un excursus di natura politica e filosofica che giunge a conclusioni 
                  del tutto inedite e rispondenti all'esigenza da parte del variegato 
                  movimento di liberazione animale – in crescente sforzo 
                  di autonomia e di autodeterminazione – di contestualizzare 
                  storicamente e socialmente il proprio messaggio. 
                 Davide Majocchi 
                   
                   
                   Cantami  
                  di questo vento 
                 Girotondi di vaste solitudini si muovono tra le linee melodiche 
                  disegnate da un giovane cantautore del nostro tempo. Sguardo 
                  che sfila e cuce, come sospinto da un buon vento, i richiami 
                  di un sentire profondamente umano. Ogni espressione, traccia 
                  di un'opera letteraria o slancio d'inventiva poetica, avanza 
                  scandita da un cantato avvolgente e accende il tempo dell'ascolto 
                  per queste Storie in forma di canzone di Nicola Pisu. 
                  Raccolta di immagini narranti che cercano lo spazio per raccontarsi 
                  e riposano su paesaggi sonori abitati da movimenti strumentali 
                  in armonica mescolanza. Il mare, con il suo moto oscillante 
                  che culla e trasporta, diventa spazio prediletto che accoglie 
                  le lacerazioni del dolore. Nel mare si conserva un amore senza 
                  via di scampo e scivola il pianto di Maria Maddalena, 
                  amante e madre che guarda la vita da una feritoia. Sulla 
                  pianura di sale vive il pescatore con la sua pelle bruciata 
                  e imbevuta di solitudine, il cui destino si consuma nel sentiero 
                  suggerito da una pallida luna. Acqua che scorre e rovescia le 
                  vele gonfie di algebre del vittorioso Colombo, eroe perdente 
                  tra il massacro dei nativi. Mare che si infrange sulla riva 
                  di altri mondi emarginati, quelli da cui proviene la voce di 
                  un professore che si appella alla vita mascherandosi d'euforia. 
                  Anche nel discreto passare della protagonista della prima 
                  storia tuona il delirio della solitudine, risolto invocando 
                  la salvezza nel richiamo di un amore di figlia. 
                  E ancora si riflette sulla fatalità del destino umano 
                  nel nucleo dedicato alla Sardegna, dove si muovono comparse 
                  carnevalesche dai presagi funesti. Resta sospesa, tra le storie, 
                  la voce di un ideale smisurato: emerge dai frantumi della 
                  sua vita invisibile, l'incantevole ritratto del giovane Franco 
                  Serantini il cui grido libertario annegò sul Lungarno 
                  come un sogno impossibile. Girotondi segnati dalla carica 
                  vitale di una folla umana che si muove tra smarrimenti e speranze 
                  nel tracciato dell'esistere. Nella scrittura in musica di Nicola 
                  Pisu, autore e compositore delle tredici canzoni che compongono 
                  l'album, la forte propulsione narrativa si dissemina in un lungo 
                  percorso che non tradisce la cifra stilistica prescelta ma si 
                  carica di esperienza e sperimentazioni intrise di buon vento. 
                 Laura Medda 
                 L'album è disponibile presso i principali negozi 
                  di musica online. è possibile ascoltare un'anteprima 
                  delle canzoni su nicolapisu.zimbalam.com 
                   
                   
                    Il pugile zingaro 
                  che sfidò il Terzo Reich 
                 Buttati giù, zingaro di Roger Repplinger (edizioni 
                  Upre Roma, Milano, 2013, pp. 292, € 12,00) si presenta 
                  come uno straordinario affresco sulla solitudine dell'uomo oppresso, 
                  forte anche dinnanzi alla consapevolezza della propria fine; 
                  una vicenda emblematica del coraggio di accettare l'esistenza 
                  comunque essa sia, anche quando condannata alla sofferenza e 
                  all'ingiustizia. 
                  La penna di Repplinger, con grande profondità e lucidità, 
                  ritrae il percorso dall'infanzia all'età adulta del protagonista, 
                  il sinto tedesco Johann “Rukeli” Trollman, regalandoci 
                  un racconto molto intenso sul piano emotivo. La ricerca sui 
                  personaggi è approfondita (soprattutto su Trollmann). 
                  Lo stile è ricercato ma senza troppi stancanti virtuosismi: 
                  è un'opera piacevole, che può essere apprezzata 
                  soprattutto da chi si sente in un certo senso speciale e reietto 
                  nei confronti della società e degli altri. È un 
                  lavoro estremamente maturo per la compiutezza del contenuto 
                  e per l'alta tensione emotiva sviluppata: un crescendo di sensazioni 
                  che avviluppa l'anima del lettore, tra momenti di allegria, 
                  di tenerezza, di tristezza, di speranza e di morte. 
                  Il libro trasuda umanità, prestando la voce a coloro 
                  che gridano aiuto e facendo entrare il lettore accorto nel mondo 
                  buio della diversità. Quella narrata da Repplinger non 
                  è una storia sconclusionata e surreale, ma è l'altra 
                  faccia della vita: quella meno fortunata, meno sorridente, meno 
                  scanzonata da una parte, e quella incanalata in un sistema totalitario 
                  dall'altra. 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    |   Johann Trollmann (nome sinto Rukeli)  | 
                   
                 
                 
                  Questo è un libro che si legge in apnea e che in apnea 
                  ti lascia quando lo hai finito; sarà anche questo un 
                  indicatore che ci dice che è una buona opera destinata 
                  a rimanere nel tempo. 
                  Johann Trollmann (nome sinto Rukeli) è nato il 27 dicembre 
                  1907 a Wilsche e ha iniziato a tirare di boxe per caso a 8 anni, 
                  dopo essere capitato in una palestra dove un amico si allenava 
                  già da due settimane, al 10 di Schaufelderstrasse. 
                  Campione della circoscrizione sud per ben quattro volte – 
                  la prima nel 1925, nei pesi medi, e campione dei dilettanti 
                  di Hannover dal 1925 al 1928, inizia a vincere spesso, in un 
                  periodo in cui il pugilato stava prendendo sempre più 
                  piede. Rukeli è agile come un gatto, molto veloce e così 
                  mobile sul tronco che non viene quasi mai colpito. Diventa una 
                  celebrità locale, piace alle donne, ha qualche soldo 
                  in tasca, diventa campione dei pesi medi della Germania nord-occidentale 
                  nel 1928 senza aver combattuto – l'avversario non si è 
                  presentato a causa di una malattia –. Il suo ultimo match 
                  da dilettante si svolge il 5 ottobre 1928 e vince ai punti. 
                  È proprio in quel periodo che Trollmann inizia a farsi 
                  conoscere per la sua boxe provocatoria e sopra le righe a cui 
                  si aggiunge un carisma che lo porta ad avere una reale presa 
                  sul pubblico. In effetti il suo modo di essere, spavaldo fino 
                  ad arrivare alla spacconeria, era una novità “spettacolare” 
                  per quei tempi ed esercitava un fascino immediato sul pubblico, 
                  sempre più assetato di sue notizie. 
                  Venerdi 9 giugno 1933, Berlino. Trollmann è rapido sul 
                  ring, l'avversario Witt tenta di colpire, Trollmann sfugge, 
                  agile e leggero, l'arbitro ammonisce i pugili: “combattere 
                  con più agonismo”.Trollmann domina il ring, Witt 
                  non ha chance, dopo dodici riprese l'arbitro, Otto Griese, sale 
                  al centro ring, verdetto: non c'è un vincitore. Witt 
                  è stupito, il pubblico rumoreggia, si arriva alle mani. 
                  Trollmann piange: ha vinto ma non gli assegnano il titolo. Si 
                  riunisce la commissione sportiva: visti i cartellini, Trollmann 
                  viene ufficialmente dichiarato il vincitore. Nuovo campione 
                  tedesco dei mediomassimi. Ma un campione zingaro nella Germania 
                  nazista è inconcepibile. Il lunedi seguente si riunisce 
                  la Bbd, autorità tedesca per il pugilato: il titolo viene 
                  sospeso, la commissione annuncerà il prossimo incontro 
                  per il titolo dei mediomassimi. È la fine della carriera 
                  di Trollmann e si sta edificando una “nuova Germania”. 
                  24 luglio 1933, Trollmann contro Eder. Le direttive per Rukeli 
                  sono chiare: deve perdere con dignità. Lui però 
                  è orgoglioso e reagisce: sfida gli ariani e nell'incontro 
                  si tinge i riccioli neri di biondo e si cosparge il corpo di 
                  borotalco. Accetta di stare al centro ring senza muoversi, alla 
                  tedesca, come vuole il regime, fermo, senza fare un passo indietro. 
                  Si fa picchiare, massacrare, finchè sfinito cade in una 
                  nube di bianco borotalco. Rukeli è fuori gioco e per 
                  lui inizia la paura, non degli avversari sul ring, ma di quelli 
                  fuori dal ring, che gli urlano: “Trollmann, buttati giù, 
                  altrimenti ti veniamo a prendere” e “Porco zingaro, 
                  vattene in Valacchia”. 
                  Nel '34, mentre Rukeli prende parte ad alcuni incontri di pugilato 
                  nel luna park, si intensifica la persecuzione dei sinti. Dopo 
                  essersi nascosto nella foresta di Teutoburgo, aver divorziato 
                  dalla moglie per preteggerla dalla deportazione e dopo aver 
                  combattuto sul fronte russo per la Wehrmacht (ed esser stato 
                  ferito), nel '42 Rukeli viene arrestato e trasferito nel lager 
                  di Neuengamme. È qui che la sua storia si intreccia con 
                  quella di un altro comapione dello sport: Otto “Tull” 
                  Harder, “ariano”, membro del comando delle SS del 
                  lager ed ex stella del calcio, che dopo la guerra sarà 
                  condannato a 15 anni di detenzione, ma che per il natale del 
                  '51 sarà già un uomo libero. 
                  Diverso è invece il destino di Johann, che nel 1944 muore 
                  assassinato dal triangolo verde Emil Cornelius, che Trollmann 
                  aveva umiliato, battendolo in combattimento. Cornelius, sconfitto, 
                  aveva minacciato: “gliela farò vedere io allo zingaro” 
                  e infatti Trollmann, sfinito dal lavoro, viene ucciso a randellate 
                  da Cornelius che occulta l'assasinio e ne denuncia la morte 
                  come incidente. Solo nel 2003 agli eredi di Trollmann viene 
                  consegnata la sua cintura da campione, in una mesta e disertata 
                  cerimonia. Gustav Eder, che aveva abbattuto l'inerme Rukeli 
                  in una nube di bianco borotalco, morì anziano nel 1993. 
                  Trollmann finì la sua vita assassinato a Wittenberge 
                  da un criminale comune per aver vinto un incontro di boxe.
                 Giorgio Bezzecchi 
                  vice presidente nazionale Federazione rom e sinti insieme 
                 
                   
                   Rom, questione 
                  di sguardi 
                  Briciole 
                  è il nome dato al trimestrale del Cesvot (Centro volontariato 
                  Toscana) che raccoglie gli atti dei percorsi formativi svolti 
                  dalle associazioni di volontariato attive in Toscana. Il numero 
                  32 (aprile 2012), dal titolo RomAntica cultura, è 
                  dedicato alla questione dell'“invisibilità ed esclusione 
                  del popolo rom” ed è curato da Valentina Montecchiari, 
                  Martina Guerrini e Valeria Venturini. 
                  Gli interessanti contributi raccolti nella pubblicazione sono 
                  il frutto di un lavoro collettivo che indaga esperienze e tematiche 
                  di notevole rilevanza e attualità. Offrono uno sguardo 
                  plurale e articolato che pone interrogativi, suscita dubbi, 
                  e allo stesso tempo rappresentano un'opportunità di approfondimento 
                  per una formazione interculturale. 
                  Merita un'attenzione particolare il saggio di Martina Guerrini 
                  Pratiche di dis-identità. La discriminazione sessista 
                  contro le donne romni in una prospettiva anticolonialista. 
                  L'autrice propone un rovesciamento di prospettiva dello sguardo 
                  rivolto alla donne romni, attingendo a una metodologia comparativa 
                  antropologica – già applicata allo studio delle 
                  donne migranti – che impone di ri-guardare con occhi più 
                  critici anche la nostra società. 
                  Qual è lo sguardo con il quale la nostra società 
                  considera quella rom? Caratteristiche patriarcali e sessiste 
                  esistono solo nella tradizione rom oppure, in qualche misura, 
                  persistono anche nella nostra società, che si considera 
                  “più emancipata”? O anche quest'ultimo non 
                  è forse uno stereotipo? La nostra società italiana 
                  sembrerebbe abilissima nel costruire “immaginari” 
                  a proprio uso e consumo. Quale rappresentazione ne dà 
                  delle identità delle donne romni? Zingara cartomante 
                  e un po' strega. Girovaga e felice per il mondo. Allo stesso 
                  tempo, povera vittima di un arcaico mondo patriarcale violento 
                  e misogino. 
                  Il nostro immaginario cristallizza in forme rigide, semplifica 
                  e schematizza laddove la complessità, il non definito 
                  caratterizzano la quotidianità. Quanto sfugge alle maglie 
                  del conosciuto viene ricompattato secondo un'ottica che predilige 
                  il controllo dall'alto. Con la presunzione di conoscere la cultura, 
                  il popolo rom quando invece ciò che si conosce è 
                  la nostra rappresentazione mentale del loro mondo. Ed è 
                  ancora più vero per le donne romni, delle quali si crede 
                  di conoscere i problemi, i bisogni, le aspirazioni. Ma l'ottica 
                  è deformata. Quindi, prevale la visione unidirezionale 
                  delle istituzioni e non la realtà variegata, multiforme, 
                  sfaccettata e mai definita una volta per tutte del popolo rom 
                  e delle romni in particolare. Siamo noi ad aver bisogno di dare 
                  loro un'identità circoscritta da assimilare o differenziare 
                  a seconda del momento, delle necessità. Così, 
                  prima imponiamo la nostra idea della loro identità, ci 
                  convinciamo di rispondere alle loro reali necessità, 
                  e infine siamo disposti ad assimilarli, a condizione che dimostrino 
                  di essere bravi ad accettare le nostre regole di convivenza. 
                  Ancora – si chiede Guerrini – non è il nostro 
                  sguardo sessista a prevalere negli elementi discriminatori verso 
                  le donne romni? Le donne sono le uniche alle quali le istituzioni 
                  chiedono conto dell'educazione dei figli, e le si condanna se 
                  li portano con loro quando vanno a chiedere l'elemosina, perché 
                  ritenute responsabili di coinvolgerli in attività degradanti. 
                  Forse la nostra società sta mostrando interesse per la 
                  crescente sofferenza di minori in situazioni di disagio nelle 
                  nostre famiglie, e troppo spesso sottoposti a violenza? Oppure, 
                  le istituzioni stanno facendo abbastanza per contrastare la 
                  persistenza di stereotipi sessisti nell'ambito dell'educazione 
                  scolastica? Solo le donne romni sono vittime di violenza domestica 
                  e dell'accettazione sociale di tale violenza? Quali conclusioni 
                  si possono trarre riguardo alle nostre donne italiane appartenenti 
                  alla società cosiddetta emancipata? Sono magari più 
                  fortunate, con i massacri quotidiani perpetrati a loro danno 
                  dai loro stessi mariti, compagni, conviventi? Sono solo alcuni 
                  interrogativi sollevati da Martina Guerrini. L'invito è 
                  quello di uscire dai panni delle “emancipatrici delle 
                  altre”, ri-orientare lo sguardo giudicante in un'ottica 
                  che osservi il mondo rom senza occhi da gagè e, soprattutto, 
                  includa e consideri “la voce delle altre e degli altri” 
                  e ne accetti posizioni antagoniste. Un esempio? Accettare il 
                  rifiuto, da parte del popolo rom, di prender parte alla guerra 
                  gagè delle identità. Allora, oltre allo sguardo 
                  bisognerà riorientare anche l'itinerario del viaggio. 
                  La provocazione di Marcello Palagi espressa nel titolo del suo 
                  saggio Volete un progetto? Non fate progetti! sembra 
                  calzare a pennello. Se i gagè, le istituzioni, i tribunali, 
                  le forze dell'ordine, l'assistenza sociale, le fondazioni, il 
                  volontariato insistono nel decidere al posto loro, significa 
                  che rom e sinti sono presi in considerazione solo come oggetto 
                  di provvedimento, rivolto a chi è giudicato come un “caso 
                  da risolvere”, un problema di ordine pubblico che riguarda 
                  un'umanità da contenere. Sì, perché rom 
                  e sinti sono considerati fermi allo stadio infantile e inetto, 
                  incapaci di decidere in modo autonomo. Una volta relegati a 
                  una condizione di genetica inferiorità è più 
                  facile instaurare rapporti di potere. Così si decide 
                  a tavolino una soluzione abitativa, senza averli interpellati 
                  in base alle loro reali esigenze. Si impongono modelli di vita 
                  gagè. Vengono sottratti i figli ai loro genitori in nome 
                  della presunta tutela dei diritti dei minori, senza contemplare 
                  il diritto dei minori di rimanere con i propri genitori. 
                  Si stipulano patti di legalità legittimando una legalità 
                  diversa, cucita su misura. E poi ci si indigna se rom e sinti 
                  continuano a vivere come se il patto non esistesse. Ma è 
                  un patto non patteggiato, piovuto dall'alto, declamato dai rappresentanti 
                  delle istituzioni, che dettano regole, magari nemmeno capite 
                  dagli interessati. Prevalgono l'imposizione, la repressione. 
                  Confronto alla pari, mediazione, dialogo sono i grandi assenti. 
                  Eppure rom e sinti hanno una funzione politica importante: tengono 
                  allarmata l'opinione pubblica, che poi si coalizza per sostenere 
                  programmi politici antidemocratici. Non ci sono, infatti, controindicazioni 
                  a perseguitare i rom. E oggi il razzismo mostra la sua duplice 
                  faccia. La propaganda che fa leva sull'immagine dello straniero 
                  percepito come pericoloso, deviante, criminale influenza e autoalimenta 
                  sia il razzismo popolare, sia quello istituzionale. A sua volta, 
                  si verifica una ricaduta nelle modalità di intervento 
                  dell'assistenza sociale, delle amministrazioni pubbliche e si 
                  condizionano altresì le valutazioni dei giudici, con 
                  grande amplificazione anche da parte dei mass media. Allora, 
                  cosa rimane da fare, secondo Marcello Palagi? Niente! Se si 
                  vuole fare qualcosa di buono, non si facciano progetti. Nessun 
                  progetto per rom e sinti, quindi, ma difesa del loro diritto 
                  a decidere da soli di se stessi, a scegliere per se stessi. 
                  Un valido progetto? Essere solidali e rispettosi dei loro diritti 
                  fondamentali. A partire dal rispetto del loro diritto a una 
                  visione minoritaria, originale del mondo. Visione, in un certo 
                  senso, profetica e critica del presente. 
                  Lo stesso giornalismo cova dentro di sé il germe del 
                  razzismo e della discriminazione. Lo sottolinea Lorenzo Guadagnucci 
                  in Giornalisti contro il razzismo. Come distruggere lo stereotipo 
                  negativo dei rom e degli immigrati. La questione immigrazione 
                  nelle varie redazioni – è risaputo – viene 
                  affidata ai cronisti di nera, ma i dati Istat confermano che 
                  non c'è correlazione tra i fatti reali, la criminalità 
                  in atto e il rilievo attribuito. L'enfasi sulla cronaca nera, 
                  il linguaggio usato negli articoli, le fonti considerate hanno 
                  portato alla falsa emergenza sicurezza. L'angolo visuale dei 
                  media è distorto. La discriminazione parte dall'uso del 
                  linguaggio. Al riguardo, nel 2008 il gruppo dei Giornalisti 
                  contro il razzismo ha messo in campo una proposta di autoregolamentazione. 
                  Al bando le parole tossiche. Clandestino. Perché evoca 
                  sospetto e la condizione di fuorilegge. Nomade. Si riferisce 
                  a un inesistente nomadismo, in quanto i rom e i sinti che vivono 
                  in Italia sono quasi tutti stanziali. Il termine serve però 
                  a giustificare la segregazione di gruppi familiari nei cosiddetti 
                  “campi nomadi”. Zingaro. Ha assunto nel tempo un'accezione 
                  dispregiativa ed è rifiutato dallo stesso popolo rom. 
                  Extracomunitario. Ha perso la sua originaria connotazione di 
                  extra rispetto alla Comunità europea e ora indica persone 
                  “extra” rispetto alla comunità maggioritaria, 
                  nel senso di “altre”, “escluse” per 
                  il colore della pelle o per la condizione di povertà. 
                  Ma il termine “extracomunitario” viene forse usato 
                  per indicare un cittadino statunitense o svizzero? Oppure per 
                  designare altre persone di pelle nera, ma famose nell'ambito 
                  del calcio, della moda o dello spettacolo? La Carta di Roma 
                  è un documento professionale importante per un uso del 
                  linguaggio rispettoso e non discriminatorio, pertanto tenuto 
                  a essere rispettato da tutti i giornalisti iscritti all'albo. 
                  Ma non basta. Guadagnucci sottolinea che anche ognuno di noi 
                  può dare un contributo rilevante. In che modo? Accogliendo 
                  l'invito a depurare l'immaginario comune dal lessico velenoso. 
                  Estirpare non solo nei discorsi pubblici, ma anche nell'uso 
                  quotidiano tutti quei termini impregnati di stereotipi mistificanti. 
                  Non solo. Serve una partecipazione ancor più diretta 
                  dei cittadini. Lettere al direttore, esposti all'ordine dei 
                  giornalisti, fino alla denuncia alla magistratura dei casi più 
                  gravi di violazione della deontologia professionale. Sono prese 
                  di posizione volte a contrastare queste forme di discriminazione, 
                  proprio a partire da un uso pubblico non stereotipato e stigmatizzante 
                  del linguaggio. 
                 Claudia Piccinelli 
                 Il volume è gratuito. Se si vuole scaricarlo in 
                  pdf (gratuitamente), si può farlo sul sito del Cesvot 
                  (cesvot.it). 
                  Se invece si desidera il libro cartaceo (per malati della 
                  carta stampata e delle grandi librerie), si può richiedere 
                  a questo indirizzo, pagando le sole spese di spedizione: 
                  altra_info@yahoo.it. 
                   
                   
                     
                 Donne, con equilibrio 
                  e tenacia 
                 
                  Ascoltare la rabbia di una donna è ascoltare l'urlo di 
                  tutti gli oppressi. E se avete timore di ascoltare la voce di 
                  chi lotta contro il proprio padrone, Dio o marito che sia, allora 
                  Funambole di Isabel Farah (Marco del Bucchia Editore, 
                  € 11,50) non è libro che fa per voi. Se al contrario 
                  avete il desiderio di aprire questo immenso vaso di Pandora, 
                  allora fatelo con tutta l'attenzione e la cura necessaria, proprio 
                  come fanno le funambole quando camminano sul filo sottile che 
                  le sorregge. Sedici donne, sedici voci che raccontano storie 
                  lontane nel tempo ma tremendamente vicine al nostro presente; 
                  il mito greco e la sua storia ufficiale tutta al maschile per 
                  una volta sono ribaltati e denudati dalle maschere di ipocrisia 
                  che lasciano sentire dietro il “profumo di giustizia, 
                  la puzza di legge”. 
                  La narrazione si tinge allora di rosso, come il sangue dell'oppressore 
                  ucciso, e di nero, come la rivolta “dinanzi al progetto 
                  della [propria] esistenza scritto da terzi”; la donna 
                  può finalmente gettare quegli abiti portati da anni per 
                  volontà altrui, scegliere di non vestire nessuna maschera 
                  e di non “interiorizzare nessun dogma” come gli 
                  uomini hanno invece fatto fino a perderne coscienza. 
                  La sua rabbia si intreccia stretta con la voce di tutte le altre 
                  donne, il suo progetto di rivalsa a quello di tutte le compagne 
                  di cammino, proprio come il filo sottile, e al tempo stesso 
                  forte, che lega tutte le oppressioni ma anche tutte le ribellioni, 
                  un filo su cui le donne hanno imparato a camminare con equilibrio 
                  e tenacia, proprio come le funambole. 
                 Laura Gargiulo 
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