cultura 
                  
                  
                Crisi di Gaia 
				e della soggettività 
                Pubblicato solo come e-book negli Usa (primavera 2012), con 
                  il laconico titolo Declaration, è uscito in italiano, 
                  ma in versione anche cartacea, il nuovo saggio di Antonio Negri 
                  e Michael Hardt, con diversa titolazione: Questo non è 
                  un manifesto (Feltrinelli, 2012, pp.112, e 10,00). Titolo 
                  curioso. Per un verso rimanda a un celebre quadro del surrealista 
                  Magritte in cui viene raffigurata una pipa, seguita dalla dicitura 
                  Ceci n'est pas une pipe. (L'intento dell'autore era di 
                  sottolineare la differenza tra l'oggetto reale e la sua rappresentazione: 
                  mettendo in risalto la differenza fra il mondo della realtà 
                  e quello dei segni, il dipinto invita alla riflessione sulla 
                  comunicazione umana e i suoi codici, verbali e non). Per altri 
                  versi il nuovo saggio di Negri e Hardt non può non richiamare 
                  alla memoria un altro manifesto, quello di Marx ed Engels, commissionato 
                  dalla Lega dei Comunisti e pubblicato nel 1848. 
                  In fondo, se facciamo interagire lo sguardo straniante surrealista 
                  con il pensiero critico marxiano forse possiamo cogliere la 
                  prospettiva di questo agile volumetto, il verso dove intende 
                  volgersi. Il libro non vuole presentarsi come un manifesto perché 
                  viene dichiarata finita l'epopea dei produttori di manifesti 
                  con la separatezza che, volenti o nolenti, essi producono; oggi 
                  siffatta presenza non è indispensabile, peggio, diviene 
                  ostacolo da oltrepassare, poiché ogni tentativo di elaborazione 
                  teorica rivendica la sua internità genetica rispetto 
                  alla prassi del movimento, alla sua espressività: “I 
                  manifesti offrono lo squarcio di un mondo a venire chiamando 
                  in vita un soggetto che, sebbene fantasma, deve materializzarsi 
                  e diventare agente del cambiamento. I manifesti fanno le veci 
                  degli antichi profeti che con il potere della loro visione creano 
                  un popolo. Gli attuali movimenti sociali hanno invertito questo 
                  ordine rendendo obsoleti manifesti e profeti”. 
                   
                  Figure soggettive della crisi 
                  Il libro prende le mosse dai movimenti che, nella stagione trascorsa, 
                  hanno incendiato le piazze di tutto il mondo: Madrid, Atene, 
                  Il Cairo, New York, per ricordare le più note. Le pagine 
                  più interessanti sono quelle che provano a descrivere 
                  le forme di soggettività prodotte dalle attuali crisi 
                  sociali e politiche: sono l'indebitato, il mediatizzato, 
                  il securizzato e il rappresentato. Si tratta di 
                  figure impoverite, il cui potenziale di azione si trova sempre 
                  più dissimulato e mistificato. Vediamole da vicino, come 
                  spunto per alcune osservazioni critiche, nella consapevolezza 
                  che il libro dispiega comunque anche altre tematiche che qui 
                  non vengono toccate. 
                  Aggiungiamo solo che l'approdo finale del volume intende tratteggiare 
                  le nuove forme che potrà assumere il potere costituente 
                  dispiegato dai movimenti, i quali imporranno una radicale socializzazione 
                  dell'interpretazione costituzionale (motivo, questo, assai caro 
                  a Negri, fin dagli scritti contenuti ne La forma stato, 
                  volume del '77 e oggi riproposto, in cui la costituzione italiana 
                  del '48 veniva – a partire dalle lotte operaie e dalla 
                  modificazione della composizione di classe – sottoposta 
                  a critica; ciò va ascritto a merito di Negri, dinanzi 
                  a una sinistra – anche alternativa – tutt'oggi saldamente 
                  ancorata all'applicazione del dettato costituzionale). 
                  Ma veniamo alle figure nate dall'odierna crisi. L'indebitato 
                  è l'esito antropologico dell'egemonia della finanza. 
                  Il dominio non viene più esercitato esclusivamente sul 
                  luogo di lavoro e dentro l'orario della giornata lavorativa, 
                  ma si dispiega sull'intero arco del tempo di vita e attraverso 
                  una coercizione morale che si esplicita, in primis, insinuando 
                  senso di colpa nella coscienza del soggetto. “L'indebitato 
                  è coscienza infelice che rende la colpa una forma di 
                  vita”. (Per una genealogia del debito non si può 
                  non rimandare al ponderoso saggio di David Graeber, Debito. 
                  I primi 5000 anni, edito dal Saggiatore l'anno passato). 
                  Il mediatizzato è colui che si trova sottoposto 
                  a un surplus di informazione, attraverso canali televisivi, 
                  web, telefoni cellulari. Questa invasione mediatizzata anziché 
                  arricchire e divenire strumento di liberazione, passivizza il 
                  soggetto, giocando il ruolo di Big Brother che – 
                  attraverso l'esercizio di una servitù volontaria (La 
                  Boétie è un autore da rileggere in questi tempi, 
                  insieme a Orwell!) – rende sempre più indistinta 
                  la separazione tra controllo sociale, lavoro e vita. 
                  Il securizzato è la persona che vive in un costante 
                  stato d'eccezione, dove la paura signoreggia e in cui le consuetudini 
                  legali sono sospese da un potere totale, panottico, che richiede 
                  all'attore sociale di saper recitare, in un vero e proprio teatro 
                  dell'assurdo quotidiano, sia il ruolo di guardia che quello 
                  di recluso. Con le parole di Foucault, citato nel libro, “La 
                  prigione comincia ben prima delle sue porte”. 
                  Il rappresentato esprime la crisi irreversibile in cui 
                  versa il sistema politico fondato sul principio di rappresentanza, 
                  laddove quest'ultima non è agente di pratiche democratiche 
                  ma il suo contrario. Non basta: la rappresentanza rivela ancor 
                  più oggi, con la presenza di sistemi di potere a livello 
                  planetario che ne erodono l'esercizio, la mistificazione che 
                  la fonda: l'essere, per definizione, un dispositivo volto a 
                  separare l'elettore dall'eletto, il controllore dal controllato. 
                   
                  Da dove ripartire? 
                  Da questa fotografia dello stato di cose Negri e Hardt si indirizzano 
                  verso un rovesciamento di prospettiva, non come esito dialettico, 
                  ma come l'irruzione di un kairos soggettivo in grado 
                  di infrangere il presente. 
                  Ma – domandiamoci – queste figure raccontano davvero 
                  tutto quello che c'è da sapere sull'attuale crisi o sono 
                  descrizioni parziali? Dico ciò perché colpisce, 
                  proseguendo la lettura, il modesto rilievo volto alla questione 
                  cosiddetta ambientale. Ancor più strano, dato che in 
                  un passaggio del libro si parla del degrado e della distruzione 
                  di piante e specie animali, della contaminazione della terra 
                  e del mare, giungendo a questa conclusione: “Sembra che 
                  l'umanità sia completamente impotente davanti alla distruzione 
                  del pianeta e delle condizioni necessarie alla propria vita”. 
                  Dopodiché il discorso vira e prende altra direzione. 
                  Strano. Delle due l'una: o non si crede a una simile affermazione 
                  (la si fa perché politically correct) o se le 
                  si dà il dovuto credito non può essere congedata 
                  sbrigativamente. 
                  Ancora: le figure dell'indebitato, mediatizzato, securizzato 
                  e rappresentato sono esaurienti nel comprendere tale crisi o 
                  c'è dell'altro che può aiutarci a capire perché 
                  siamo nello stato in cui siamo? Prima delle figure sopra ricordate, 
                  anzi, condizione necessaria perché queste potessero affermarsi 
                  ce n'è un'altra: il soggetto scisso da ogni relazione 
                  con la natura, fuori e dentro di lui. Tali interrogativi non 
                  li troveremo nel libro di Negri e Hardt. C'è, al contrario, 
                  in tutta la produzione di Negri un'enfasi posta verso la società 
                  metropolitana, il lavoro astratto, il cognitariato, le nuove 
                  tecnologie, ecc. Il fatto che oggi l'economia finanziaria – 
                  la produzione di denaro per mezzo di denaro – sopravanzi 
                  gli altri settori economici, indica il prevalere dell'astrazione 
                  da ogni relazione vitale. Il capitalismo, nella sua corsa verso 
                  un profitto sempre maggiore, sta intaccando la sostanza naturale 
                  della vita, mettendola a repentaglio. 
                  Non si tratta di coltivare fantasie utopistiche o, peggio ancora, 
                  regressive (come certe posizioni di Zerzan che rischiano di 
                  invalidare la portata critica del suo stesso pensiero). Lo sappiamo 
                  bene, bisogna guardare avanti, ma facendo i conti con la propria 
                  storia (qui l'aggettivo possessivo “propria” si 
                  riferisce alla storia della specie umana), domandandosi: come 
                  è iniziato tutto ciò? da dove ripartire? (Ad esempio, 
                  da anni, in solitudine, Jacques Camatte va riflettendo su tale 
                  ordine di questioni, a partire dall'erranza millenaria dell'umanità). 
                  Ancora: se guardiamo a casa nostra, notiamo che un punto di 
                  snodo fondamentale delle lotte in corso si trova in Valsusa 
                  e non in qualche megalopoli à la Blade runner. 
                  Questo vorrà pur dir qualcosa. Intorno alla difesa del 
                  territorio e della comunità che vi risiede si stanno 
                  davvero ricomponendo reti multitudinarie (ambientalisti, centri 
                  sociali, precari, studenti, cittadinanza attiva, ecc.). Sarebbe 
                  opportuno partire dalla concretezza di queste esperienze, anziché 
                  inseguire una qualche centralità (di volta in volta: 
                  l'operaio-massa, l'operaio-sociale, il lavoratore cognitivo), 
                  vero e proprio pensiero ossessivo dell'operaismo. Per fare un 
                  esempio, Luca Abbà, che è stato – suo malgrado 
                  – simbolo della lotta No Tav, fa l'agricoltore biologico 
                  e il giardiniere, non ha certo la fisionomia del lavoratore 
                  cognitivo, semmai è più vicino ai temi riguardanti 
                  real work e reinhabitation di cui parlano Gary 
                  Snyder e i bioregionalisti americani. 
                  Da qui dobbiamo allora iniziare, con l'intelligenza di saper 
                  costruire ponti fra gli uomini e le donne che protestano nelle 
                  piazze delle città in fiamme e la costruzione di una 
                  relazione vitale tra il mondo umano, animale, vegetale e minerale, 
                  ciò che gli antichi chiamavano Gaia, l'organismo vivente 
                  di cui facciamo parte. In questa direzione piacerebbe incontrare 
                  anche Negri e Hardt.
                  Federico Battistutta 
                   
                 
                  Piazza Fontana/ 
La ricostruzione che ancora manca 
                  
                Piazza Fontana 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo 
                  bisogno, a cura di Stefano Cardini (Milano-Udine, Mimemis 
                  Edizioni, 2012, pp. 287, euro 20,00) è un libro nato 
                  su iniziativa del Centro di ricerca in Fenomenologia e Scienze 
                  della persona dell'Università Vita-Salute San Raffaele. 
                  Gli autori devolvono il ricavato dei diritti d'autore all'Associazione 
                  delle vittime della strage. 
                  Il libro è composto da dieci interventi di autori diversi. 
                  L'impulso a scriverlo è derivato dal dibattito suscitato 
                  dal film Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana. 
                  In questo libro si parla ben poco della strage di Piazza Fontana, 
                  della morte di Giuseppe Pinelli, dell'omicidio del commissario 
                  Calabresi e delle altre vicende legate a questi eventi. Tranne 
                  Luciano Lanza, Sul filo della memoria. Un racconto di parte 
                  ma non partigiano, e Guido Salvini, 12 dicembre 1969. 
                  Una storia incompiuta, tutti gli altri autori più 
                  che riflettere su quei fatti cercano di rispondere al quesito 
                  filosofico: «La verità esiste?», come nota 
                  Roberta De Monticelli nell'intervento conclusivo. 
                  Si ragiona quindi sul rapporto tra verità e finzione 
                  nel mondo d'oggi e sul rapporto tra verità e ricerca 
                  storica, ci si interroga a fondo sul rapporto che tanto lo storico 
                  quanto il comune cittadino ha con la storia più recente 
                  di questo Paese e, più in generale, con la Storia tout 
                  court. Vien da pensare che forse sono venute meno le condizioni 
                  che hanno permesso per lungo tempo agli esseri umani di percepire 
                  la propria esistenza come uno svolgimento nel tempo, cioè 
                  dotata di senso storico. 
                  Si arriva così a domandarsi se sia possibile arrivare 
                  a una conoscenza autentica del passato, o ci si debba accontentare 
                  di «rappresentazioni» e «narrazioni», 
                  magari arbitrarie, visto che in molti casi la storia sembra 
                  diventata una procedura di assemblaggio più o meno creativo 
                  di materiali del passato senza alcun rapporto con la ricerca 
                  di qualsivoglia «verità». Perciò un 
                  libro come questo offre molti necessari spunti di riflessione 
                  sulla filosofia della storia che però, non sostanziati 
                  da una puntuale ricostruzione dei fatti, in Piazza Fontana 
                  43 anni dopo data per scontata e acquisita, rischiano di 
                  apparire dotte disquisizioni sul sesso degli angeli. 
                  Nell'introduzione il curatore scrive che questo libro «è 
                  anche un ragionato elogio della storiografia» e 
                  tuttavia l'unico intervento ascrivibile a uno storico è 
                  quello di David Bidussa, La storia degli anni inquieti. Il 
                  dovere e il problema di scriverla. Bidussa è uno 
                  studioso profondo e intelligente, ma è uno «storico 
                  sociale delle idee»: anche lui, quindi, più filosofo 
                  che storico. 
                  Ciò che ancora manca, nella letteratura sulla strage 
                  di Piazza Fontana, è però proprio una ricostruzione 
                  compiutamente storiografica, cioè scevra, nei limiti 
                  del possibile, da contaminazioni ideologiche, filosofiche, sociologiche, 
                  politologiche, giornalistiche. 
                  L'abuso pubblico, il vero e proprio stupro della storia che 
                  è stato condotto in tempi recenti, ha fatto sì 
                  che oggi sia sempre più difficile comunicare l'importanza 
                  della conoscenza storica per il progresso civile di un paese 
                  ma anche per il progresso intellettuale dei singoli individui. 
                  Questo libro, pur dotato di innegabili pregi, funziona come 
                  accorato appello contro tale degenerazione ma, sul piano della 
                  conoscenza storica, nulla aggiunge a quanto già sappiamo. 
                  Semmai cagiona la disperante sensazione che niente di più 
                  riusciremo mai a sapere e che sia oramai impossibile scrivere 
                  la storia dei fatti del 12 dicembre 1969 e dell'epoca che li 
                  ha generati. 
                  
                 Andrea Saccoman 
                 
                   
                 
                  La notte in cui 
nacque Frankenstein 
                  È un libro anonimo. Vedendo la copertina, leggendo solo 
                  il titolo, questo libro non dice nulla. Ma proprio l'anonimato 
                  sembra la sua forza. Su uno sfondo nero, tetro, che richiama 
                  alla mente l'oscurità e l'ignoto, campeggia l'immagine 
                  di un pipistrello con le ali aperte, che si confonde con lo 
                  sfondo descritto. O meglio, si tratta di un vampiro! Molto originale, 
                  la copertina. Che a prima vista sembra non avere alcuna relazione 
                  con il titolo del libro. D'altronde, quando il titolo e la copertina 
                  di un libro ci svelano ogni cosa, la delusione è assicurata. 
                  Non è questo il caso. 
                  Il libro che stiamo recensendo – Shelley, Byron, Polidori, 
                  La notte di Villa Diodati, a cura e con un saggio introduttivo 
                  di Danilo Arona, (Nova Delphi, Roma, 2011, pp. 350, € 12,00) 
                  – contiene tre capolavori della letteratura inglese della 
                  prima metà del XIX secolo, ed è un libro che merita 
                  la nostra attenzione. Chi oggi non conosce Frankenstein 
                  di Mary Shelley? Eppure il celebre romanzo gotico è ancora 
                  in grado di stupirci. Dopo tante pubblicazioni in lingua italiana, 
                  esce ora, con una nuova traduzione e per I tipi delle edizioni 
                  romane di Nova Delphi, una nuova edizione, in cui l'opera è 
                  raccolta insieme ad altri tre testi della letteratura inglese 
                  firmati da Lord Byron (La sepoltura) e da John Polidori 
                  (Il vampiro): non un'antologia, ma un lavoro curato e 
                  unitario, di cui ci aiuta a tracciare le fila il prezioso saggio 
                  introduttivo di Arona, notevole per intelligenza e sensibilità, 
                  che ci fornisce un ausilio per contestualizzare le opere in 
                  questione. 
                  La notte del titolo, fredda e molto piovosa, è quella 
                  del 16 giugno 1816. Un gruppo di intellettuali e letterati si 
                  incontra a Villa Diodati, sulle rive del lago di Ginevra; ispirati 
                  dalla lettura di un vecchio volume di novelle fantastiche, Phantasmagoria, 
                  alcuni di loro, tra cui Byron, Shelley e Polidori, si cimentano 
                  in una sorta di scommessa letteraria: ognuno avrebbe scritto 
                  un racconto fantastico da leggere e confrontare con gli altri 
                  nelle notti successive. Nascono così La sepoltura, 
                  Il vampiro e il celebre Frankenstein. Non meno 
                  originale di quest'ultimo è il racconto di Polidori, 
                  il primo della lunga serie di romanzi sui vampiri (da Dracula 
                  a Twilight), molti dei quali portati anche sul grande 
                  schermo. 
                  Il saggio introduttivo di Danilo Arona analizza e descrive tutta 
                  una serie di dinamiche sociali e umane dei vari personaggi di 
                  fantasia, collegandoli con le esperienze personali dei loro 
                  autori e in qualche modo giustifica la nascita di questi mostri 
                  tracciando una biografia molto ben riuscita dei loro autori 
                  e creatori, restituiti alla loro vita quotidiana. Una tale ricostruzione 
                  storico-letteraria non esisteva, se non parzialmente nell'introduzione 
                  di Mary Shelley al suo Frankenstein. Merito di Arona 
                  l'aver presentato e fatto conoscere questa storia, ben oltre 
                  la leggenda, e completato la ricostruzione di Shelley, fatta 
                  di poche, scarne e soggettive righe. 
                  Ne viene fuori un libro stupendo, che restituisce le tre opere, 
                  per la prima volta riunite, al loro naturale contesto e alla 
                  propria curiosa genesi: quella suggestiva notte di letture e 
                  storie di fantasmi a villa Diodati, nel lontano 1816. 
                  
                Franco Di Sabantonio
                 
                  
  
                 
                  Dietro le ultime 
elezioni americane 
                  Spinto dalla macchina della comunicazione mediatica, eletto 
                  per ben due volte alla presidenza degli Stati Uniti, il fenomeno 
                  Obama risulta in parte incomprensibile se non si va a riconsiderare 
                  un passato quarantennale durante il quale ben tre candidati 
                  di colore scesero in campo per la presidenza. Di questi tre 
                  candidati il pubblico forse ricorda solo Jesse Jackson, immemore 
                  di Dick Gregory e di Shirley Chisholm. 
                  Matteo Ceschi, autore di Tutti i colori di Obama. L'altra 
                  storia delle elezioni americane (Franco Angeli, Milano 2012, 
                  pp. 151, euro 22.00) ricerca le origini del successo di Obama 
                  nell'America politica e sociale profonda, caratterizzata dalla 
                  lotta per i diritti civile dei neri e contro ogni pregiudiziale 
                  razziale. Lo fa ripercorrendo il dibattito culturale e politico 
                  che ha attraversato la comunità nera circa la possibilità, 
                  non affatto scontata, fin dall'inizio, di giungere a una visione 
                  post-razziale (post-racial) che, secondo l'autore, si è 
                  affermata tra mille difficoltà, superando il pregiudizio 
                  razzista così diffuso in quel paese e non solo, al fine 
                  di abbattere le divisioni etniche. Si consideri che la comunità 
                  afro-americana aveva costruito e difeso la propria identità 
                  sulla netta contrapposizione fra “noi e loro”, per 
                  rivendicare e rivalutare le lontane origini africane in nome 
                  di un nazionalismo nero, una sorta di separatismo rispetto all'identità 
                  nazionale americana. 
                  L'analisi è condotta con una dettagliata disamina di 
                  come i mezzi di comunicazione, stampa e televisione, diedero 
                  o non diedero spazio e commenti alla discesa in campo dei candidati 
                  neri alla presidenza del paese. Al pubblico genericamente disattento, 
                  compresa quella parte critica verso il sistema americano, si 
                  ripropongono le battaglie intraprese dai precedenti candidati 
                  neri, a cominciare da Dick Gregory che nel 1968 annunciò 
                  la sua candidatura in nome del Peace and Freedom Party, una 
                  formazione politica californiana nata l'anno prima su posizioni 
                  marxiste libertarie. Due i suoi intenti sintetizzati in uno 
                  slogan: «Per prima cosa farei dipingere la Casa Bianca 
                  di nero. Per seconda riporterei a casa tutti i ragazzi dal Vietnam». 
                  Nel dettaglio poi il suo programma evidenziava la centralità 
                  della post-racial politicis a partire dalla difesa dei diritti 
                  di tutte le minoranze e la chiamata a una lotta comune per una 
                  serie di obiettivi politici e riformisti radicali. 
                  Negli anni settanta il disegno post razziale riscontrò 
                  un certo credito all'interno del movimento femminista anche 
                  se incontrò la resistenza di una visione impostata sul 
                  binomio genere-razza e l'idea di una liberazione delle donne 
                  di colore che escludeva dal dibattito le femministe bianche 
                  americane e europee. Il messaggio fu invece recepito diversamente 
                  dal movimento delle lesbiche e in alcuni settori di orientamento 
                  marxista libertario. Le lesbiche videro nel discorso post- razziale 
                  un modo per superare definitivamente quella che consideravano 
                  la prigione del gender in cui si era impantanato il movimento 
                  femminista. In questo contesto emerse la candidatura, all'interno 
                  del partito democratico, di Shirley Chisholm, una donna afroamericana 
                  prima a essere eletta alla camera dei deputati. Il fatto che 
                  questa volta ad incarnare lo spirito post-razziale fosse una 
                  donna afro-americana con una rispettabile carriera istituzionale 
                  diede valore a una scelta non affatto scontata. Ma non tutta 
                  la comunità politica nera l'appoggiò. Una parte 
                  continuò a indicare nel separatismo nero il modo di agire 
                  della comunità al fine di avviare una politica “nera” 
                  indipendente a uso e consumo della popolazione nera: il concetto 
                  di Blak nation era così contrapposto a quello di American 
                  people della candidata. 
                  Pur ottenendo una certa risonanza nella campagna elettorale 
                  delle primarie dei democratici, naturalmente Shirley Chisholm 
                  non la vinse, ma contribuì a rafforzare l'dea del post-racial 
                  come soluzione all'interno della quale tutte le componenti etnico-sociali 
                  avrebbero potuto trovare i canali più adatti per esprimersi 
                  e partecipare alla vita politica. Dei precedenti due aspiranti 
                  alla presidenza, solo Jesse Jackson, candidatosi due volte (1984 
                  e 1988) alle primarie del partito democratico poté godere 
                  di una certa visibilità presso i media. Animatore della 
                  comunità afro-americana fin dai tempi delle marce per 
                  i diritti civili, si ritagliò uno spazio sulla stampa 
                  e nella televisione e si guadagnò stima e simpatia in 
                  una parte della comunità culturale di massa: giornalisti, 
                  scienziati, ecologisti, il magnate di Playboy, star della società 
                  dello spettacolo, musicisti come Aretha Franklin, Michael Jackson 
                  e il regista Spike Lee. Le sue conoscenze e l'abilità 
                  oratoria in pubblico, l'autorevolezza conseguita in patria e 
                  all'estero con posizioni politiche coraggiose, consentirono 
                  al reverendo si mantenere la scena anche dopo i due consecutivi 
                  tentativi di conquistare la nomination democratica. 
                  Fin dalle sue origini, essendo figlio di una famiglia meticcia, 
                  Obama impersonò la versione post-razziale. Si può 
                  infatti dire che la “portava nel sangue”. La sua 
                  visione contribuì alla destabilizzazione delle linee 
                  del colore e delle identità etniche, tanto che si è 
                  parlato di post-etnic, una concezione che si oppone all'assunto 
                  che le persone siano vincolate per una sorta di ordine naturale 
                  delle cose, a fare causa comune con altri che hanno la pelle 
                  dello stesso colore, gli stessi tratti somatici, la stessa discendenza. 
                  Il suo fu ed è un approccio ecumenico alla questione 
                  razziale che cammina su una fune da equilibrista. Dà 
                  voce alle minoranze che si sentono emarginate e disprezzate, 
                  con un tono conciliante che non fa sentire minacciati i bianchi 
                  e dà ai conservatori l'impressione di essere disposto 
                  ad ascoltare i loro punti di vista. 
                  
                Diego Giachetti 
                  
  
                 
                  Taranto/ 
				  inquinamento, malapolitica e passione calcistica 
                  
                L'Eroe dei due mari (Altrainformazione e PeaceLink editori, 
                  2012, pp. 100, € 10,00): un libro a fumetti, tratto da 
                  un romanzo di Giuliano Pavone, che narra una storia di sport 
                  e passione calcistica quale sogno di riscatto sociale per una 
                  città come Taranto, simbolo e paradigma di tutti i sud 
                  del mondo impegnati a difendere la propria dignità contro 
                  lo strapotere capitalista e iperliberista, e che vuole rappresentare 
                  un importante parallelismo con l'esistenza sociale di una popolazione 
                  privata del proprio diritto alla vita, alla salute e alla dignità 
                  del lavoro. La visione moderna dello sport del calcio, non quello 
                  professionistico e legato alle bieche logiche di mercato, ma 
                  quello di provincia, incarnato da persone che vivono in una 
                  città dove le problematiche occupazionali, economiche 
                  e sociali mordono con forza le basi della dignità umana, 
                  rappresenta un valore nella lotta quotidiana dei cittadini di 
                  Taranto per rivendicare il diritto alla salute e al lavoro in 
                  forma degna e conforme alla Costituzione, ossia “lavorare 
                  per vivere e non per morire”. Originale è la modalità 
                  rappresentativa del libro che tratta, tramite il fumetto, e 
                  illustra, in forma visiva, un parallelismo che, scritto in termini 
                  testuali, non espliciterebbe quel senso di dinamicità 
                  e vicinanza alle tecniche di comunicazione molto affini ai giovani. 
                  Tramite l'animazione visiva del fumetto, sapientemente tracciata 
                  dai giovani autori, viene alleggerita la componente comunicativa, 
                  per focalizzare lo scottante e drammatico contenuto delle vicende 
                  tarantine. L'eroe dei due mari porta al riscatto la squadra 
                  calcistica del Taranto, così come i movimenti ambientalisti 
                  conducono una città alla riappropriazione di diritti 
                  imprescindibili: la salvezza di una Taranto che vive il dramma 
                  del proprio declino, della trasformazione ambientale, attraverso 
                  il degrado e il dissesto ecologico, a causa dell'inquinamento 
                  industriale. “L'Eroe dei due mari” fa vivere un 
                  sogno di riscatto alla squadra del Taranto. Attualmente tale 
                  riscatto invece permane, non viene arrestato, ma riesce a dare 
                  la massima espressione di sé tramite un forte movimento 
                  associazionistico, di democrazia partecipata e attivismo dal 
                  basso, volto alla realizzazione di una città ecosostenibile, 
                  a misura di persona. 
                  Fra classe operaia e quanti si occupano di problemi ambientali 
                  ed ecologici esistono molti punti di contatto. Sarebbe un grave 
                  errore scinderli. È giusto quindi che le esperienze si 
                  confrontino, perché la crisi ambientale non potrà 
                  essere risolta se non si vince la lotta per attuare condizioni 
                  lavorative accettabili, con adeguati interventi sanitari e di 
                  bonifica e con la realizzazione di opportune misure di sicurezza 
                  nei luoghi di lavoro, per il rilancio culturale, morale, umanistico 
                  e ambientale della città di Taranto. 
                  In appendice il libro è corredato da venti pagine di 
                  cronologia, scritte da Giuliano Pavone, in cui si ricostruisce 
                  la storia del rapporto fra Taranto e l'Ilva, ricche di dati 
                  sull'inquinamento ambientale. 
                  
                Laura Tussi 
                  
  
                 
                  Non soltanto 
				  Gaetano Bresci 
                  È uscito recentemente il libro di Alessandro Affortunati 
                  Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese 
                  dalle origini alla Resistenza (Zero in condotta, 2012, 
                  pp. 192, Ä 12,00). Ne pubblichiamo la prefazione 
                  di Giorgio Sacchetti. 
                   
                  Anarchico di Prato, ovvero, regicidio di Monza: 
                  quelle tre palle che il 29 luglio del 1900 cambiano il corso 
                  della storia italiana fissano, in un'immagine tragica e memorabile, 
                  un evento destinato a proiettarsi, con effetti condizionanti, 
                  su tutto il nuovo secolo. L'anarchismo militante, dopo l'era 
                  delle cospirazioni e degli attentati, abbandona quelle prassi 
                  organizzative di derivazione post-risorgimentale per trovare 
                  una sua nuova dimensione, popolare e di massa, specie in Toscana. 
                  Complici di tutto questo il progetto giolittiano di allargare 
                  le basi dello stato e la conseguente apertura di nuovi inediti 
                  spazi per la politica e la socialità. Le narrazioni tardo 
                  novecentesche, la stessa storiografia, hanno però pregiudizialmente 
                  inchiodato, per così dire, Prato alla figura di Gaetano 
                  Bresci. 
                  Occorrevano allora studi pregevoli come questo di Affortunati 
                  per restituire ad un movimento i suoi connotati effettivi e 
                  veritieri, dentro un ambito territoriale molto interessante 
                  dai punti di vista socioeconomico e antropologico culturale. 
                  La ricerca ha inizio dai prodromi internazionalisti libertari, 
                  ossia dalla fase in cui si esplicita anche localmente la tendenza 
                  antiautoritaria del socialismo, per approdare alla Resistenza. 
                  È una presenza certo minoritaria, ma vivace e significativa, 
                  quella che emerge. Le cesure temporali racchiudono settant'anni 
                  con i vari snodi cruciali, politici e sociali: dalla crisi di 
                  fine secolo (culminata con quell'episodio che ha reso Prato 
                  “famosa”) fino alla guerra europea, dalla Rivoluzione 
                  d'ottobre al fascismo, dalla guerra di Spagna alla lotta partigiana. 
                  Sono eventi di grande impatto che si rivelano come traumi anche 
                  esistenziali, capaci di mutare psicologia e orizzonti mentali, 
                  oltreché la quotidianità di milioni di uomini 
                  e donne, e che ridefiniscono le modalità stesse della 
                  militanza operaia. 
                  Il libro, che prende le mosse da una bibliografia di base non 
                  copiosa, si caratterizza principalmente per l'utilizzo di un 
                  ricco repertorio di documenti, carte di polizia ma anche fonti 
                  soggettive, e per la centralità assegnata alle storie 
                  di vita dei militanti. Inoltre è ben presente la visuale 
                  sul peculiare contesto sociale ed economico territoriale, non 
                  tanto come mera descrizione ambientale, ma come nesso fra identità 
                  del lavoro e formazione delle culture politiche sul territorio. 
                  Le commistioni con la vecchia Sinistra risorgimentale e la sociabilità 
                  legata ai mestieri tessili connotano gli esordi dell'anarchismo 
                  pratese. Affortunati ci fornisce una mappa ragionata, assai 
                  pregevole, del sovversivismo locale, di quell'humus popolare 
                  ribelle che cova nei tuguri abitati dal popolino, fra le botteghe 
                  di artigiani ed i magazzini di cenciaioli indipendenti. 
                  Quando, negli anni ottanta dell'ottocento, si esaurisce il ciclo 
                  virtuoso dell'internazionalismo si apre una lunga fase di ripensamento 
                  teorico ed organizzativo. La questione sociale di Firenze 
                  lancia nel 1884 il nuovo Programma per il comunismo anarchico, 
                  redatto da Errico Malatesta. Nel decennio successivo si giungerà 
                  ad una vera e propria revisione dell'originario progetto cospirativo 
                  (lascito peraltro di prassi ereditate da Mazzini, Garibaldi 
                  e Pisacane). Ma “la rivoluzione non si fa in quattro gatti...”. 
                  La crisi di fine secolo impone un diverso protagonismo delle 
                  masse popolari. La medesima esigenza palesata a suo tempo dalla 
                  “svolta” di Andrea Costa trovava una possibile soluzione, 
                  sebbene di segno opposto: “... la rivoluzione non si fa 
                  che quando il popolo scende in piazza...”. E la piazza 
                  rimarrà, per gli anarchici, il luogo topico per l'agognata 
                  insurrezione, almeno fino alla “settimana rossa” 
                  del 1914. 
                  Su questo lungo periodo di transizione il libro ci fornisce 
                  spunti di eccezionale interesse: sulla pubblicistica libertaria 
                  edita a Prato (ad esempio la Tribuna dell'operaio del 
                  1892), sulla presenza in città di un influente quanto 
                  discusso personaggio come Giovanni Domanico, sul rapporto conflittuale 
                  e dialettico che si instaura con il nuovo partito appena fondato 
                  a Genova. “Il confine fra anarchismo e socialismo rimaneva 
                  in città molto sfumato...” scrive Affortunati. 
                  Nel centro tessile nasce, sotto l'iniziale egida libertaria, 
                  la Camera del lavoro. È la fase in cui l'anarchismo italiano 
                  “incontra” il sindacato. Con i tumulti del pane 
                  del Novantotto, che in Toscana hanno il loro epicentro a Figline 
                  Valdarno e a Prato, la questione sociale si fa questione nazionale. 
                  Le fortune francesi delle teorie sindacaliste rivoluzionarie 
                  si replicheranno in Italia. Organizzazione anarchica, anticlericalismo 
                  e antimilitarismo saranno poi gli altri fronti di impegno degli 
                  anarchici pratesi. Infine la guerra civile e la lunga lotta 
                  antifascista. 
                  Una preziosa appendice sugli schedati del Casellario politico 
                  centrale suggella il volume. Ne emergono figure epiche di militanti 
                  (un nome per tutti: Anchise Ciulli), storie di vita avventurose. 
                  Sui connotati proletari di questo movimento a Prato, affatto 
                  trascurabile, non vi sono dubbi. I mestieri esercitati nella 
                  statistica riportata vedono al primo posto quello di tessitore, 
                  al secondo: classificatore di stracci... 
                  
                Giorgio Sacchetti 
                  
  
                 
                Mendace 
				  come un eroe 
                  Underground, the Julian Assange story nasce come film 
                  per la tv australiana Channel Ten. Girato nel 2012 dall'australiano 
                  Robert Connolly, è un adattamento del libro del 1997 
                  Underground: Tales of hacking, madness and obsession on the 
                  electronic frontier scritto dalla ricercatrice e giornalista 
                  Suelette Dreyfus, con la collaborazione di Julian Assange. 
                  Il film, ambientato a Melbourne alla fine degli anni '80, ricostruisce 
                  le vicende dell'adolescente Julian (nome in codice “Mendax”), 
                  patito del computer, in particolare quando, con due amici altrettanto 
                  appassionati, trova il modo di accedere alla rete riservata 
                  Milnet, il network militare degli Stati Uniti d'America. Julian 
                  scopre documenti riservati che rivelano l'uccisione deliberata 
                  di civili da parte del governo Usa durante il conflitto in Iraq, 
                  nell'Operazione Desert Storm. Il ritmo si fa incalzante con 
                  la polizia sulle tracce dei ragazzi (alias “International 
                  Subversives”). L'incoscienza della gioventù si 
                  mischia allora al senso civico, alla determinazione e all'urgenza 
                  di fare la differenza, condividendo la conoscenza con la collettività, 
                  in un percorso di coerenza e attivismo che oggi conosciamo, 
                  di militanza nei fatti e nella prassi. 
                  Scorrono i titoli di coda al British Film Institute. La ricercatrice 
                  Suelette Dreyfus sale sul palco per una sessione di domande 
                  e risposte. Ci parla di un importante progetto sul “whistleblowing” 
                  un concetto che purtroppo in Italia fa ancora fatica a entrare 
                  nell'uso quotidiano. Il whistleblowing (da “blow the whistle”, 
                  soffiare il fischietto), è quell'attività rischiosa, 
                  eroica e coraggiosa che consiste nel denunciare dal suo interno 
                  le malefatte di un'organizzazione, un'impresa privata, l'esercito, 
                  il governo. In questo senso WikiLeaks è un'organizzazione 
                  whistleblower, in quanto dà voce a documenti riservati 
                  di interesse pubblico, ricevuti in forma anonima, garantendo 
                  un impatto globale e al contempo proteggendo la fonte. Suelette 
                  e altri ricercatori dell'università di Melbourne hanno 
                  lanciato il World Online Whistleblowing Survey, il primo sondaggio 
                  internazionale sul whistleblowing, a cui chiunque può 
                  partecipare rispondendo a domande sulla propria attitudine rispetto 
                  a questa pratica, e alle condizioni necessarie perché 
                  la “soffiata” possa avvenire. 
                  E “whistleblower” è una parola chiave in 
                  tutta la vicenda WikiLeaks. Oltre ad Assange, il whistleblower 
                  che sta pagando duramente per aver voluto mostrare al mondo 
                  intero le menzogne e i crimini commessi dal governo statunitense 
                  e non solo, è Bradley Manning. Il soldato, in carcere 
                  militare dal maggio 2010 (più di 900 giorni), è 
                  sospettato di aver passato a WikiLeaks migliaia di documenti 
                  segreti e cablogrammi diplomatici tra cui il video Collateral 
                  Murder che mostra in diretta l'uccisione di dodici civili 
                  iracheni da parte di elicotteri Usa nel 2007. Il capo d'accusa 
                  più scioccante che pende sul destino di Manning è 
                  quello di aver “aiutato il nemico”, crimine punito 
                  con la pena capitale nella più potente “democrazia” 
                  del mondo. La domanda chiave che si sono posti in tanti è: 
                  “Chi è il nemico?” La risposta più 
                  probabile è che il nemico siamo noi, la collettività 
                  stessa, l'opinione pubblica, WikiLeaks. 
                  Infatti, esporre crimini di guerra e menzogne perpetrati dai 
                  governi è un atto che la stampa mainstream di tutto il 
                  mondo è stata pronta a condannare, crogiolandosi nell'autocensura, 
                  nella diffamazione, nella viltà. Sui contenuti del “leak” 
                  ovviamente, è un muro di silenzio. Peccato che tra i 
                  “giornalisti” protagonisti di questa operazione, 
                  siano in tanti a ignorare l'essenza del mestiere di chi fa inchiesta 
                  e indaga su crimini politici. No, non lo possono sapere gli 
                  scribacchini che passano il tempo a scopiazzare articolacci 
                  di bassa qualità sulla frequenza delle docce di Assange. 
                  Tutti i possibili mezzi sono stati dispiegati in questi due 
                  anni con l'intento di zittire e censurare questo giornalista 
                  che in pochi hanno il coraggio di chiamar tale: da quello economico 
                  a quello mediatico della propaganda, fino a quello legale. È 
                  la famosa trappola della legalità. Lo sanno le libere 
                  pensatrici, gli anarchici, le attiviste, i giornalisti scomodi 
                  che devono affrontare sulla loro pelle la repressione, le intimidazioni, 
                  i controlli, le schedature: queste sono le armi con cui lo stato 
                  punisce la resistenza civile. Chi viola il segreto di stato 
                  infrange la legge perché la collettività non può 
                  sapere. In fondo qual è lo scopo ultimo di un governo 
                  se non quello di esistere? Qualunque pazzo intenda smascherarne 
                  le malefatte o abbia il coraggio di opporsi e metterne in discussione 
                  la legittimità dev'essere zittito e sottoposto a pena 
                  esemplare. Una macchina propagandistica di autoconservazione 
                  si attiva immediatamente, con un'efficacia collaudata e scientifica, 
                  per isolare il colpevole e infamarlo. Grandi ideali di patria 
                  e onore saltano fuori sbandierati con orgoglio ed ecco che il 
                  concetto di legalità assume contorni inquietanti. La 
                  legalità tanto sbandierata dai governi (ricordiamo le 
                  parole di Obama su Manning: “He broke the law”, 
                  “Ha infranto la legge”), è la legalità 
                  di torturare, massacrare, lanciare bombe sui civili, assassinare 
                  “criminali”, buttarli in mare. Il tutto impunemente. 
                  E in questa farsa di ideali sbandierati e proclamati in pubblico, 
                  mentre dietro le quinte si spiano i liberi cittadini del libero 
                  mercato, Underground è un film più attuale 
                  che mai, dall'intrinseca coscienza politica, realizzato in un 
                  momento in cui anonimato e sorveglianza sul web sono questioni 
                  essenziali per chiunque faccia uso della rete, non solo per 
                  gli attivisti di mezzo mondo coinvolti nella campagna per la 
                  libertà di stampa che ruota attorno a WikiLeaks e Assange. 
                  Un appunto finale per gli appassionati del Commodore 64 e di 
                  un'era in cui la tecnologia muoveva i primi passi: sono brividi 
                  di piacere. L'hacker, questa creatura sconosciuta, misteriosa, 
                  deformata e infame, aggeggia con plasticoni enormi, stacca e 
                  riattacca fili furtivamente, con la maestria incosciente di 
                  una gioventù che anela al cambiamento. Ed ecco che l'hacker 
                  altro non è che un attivista, o meglio un attore all'interno 
                  di una società addormentata e annichilita dalla propaganda. 
                  Un essere fluido che si muove tra codici e password mendaci, 
                  in continua sfida con gli altri e con se stesso, che finisce 
                  per esporre le schifezze dei governi per il bene di cittadini 
                  ingrati e colpevoli di apatia e disinteresse, egoismo e conformismo, 
                  per poi prendere tutta ma proprio tutta la colpa. Se quel qualcuno 
                  è un giovane australiano che a distanza di vent'anni 
                  ha poi cambiato per sempre l'essenza stessa del giornalismo, 
                  ben venga. 
                  
                Serena Zanzu 
                  
                
                
  
                   
                 
                  Retrospettive/ 
				  Pasolini l'eretico 
                
                   
                    |   | 
                   
                   
                    Pier Paolo Pasolini (1922-1975)  | 
                   
                 
                Disilluso? Dillo senza timori! 
                  Marina Cvetaeva 
                  Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922/Roma, 2 novembre 
                  1975) oggi avrebbe novant'anni. Forse. Senza la tragica morte 
                  su commissione all'Idroscalo di Ostia. Forse sarebbe ancora 
                  vivo. È arduo immaginarlo nel nostro tempo, cittadino 
                  di una società, collettività integralmente omologata 
                  che, insieme al cinismo, alla disillusione, alla televisione 
                  – creatura atroce –, all'indifferenza civile e morale, 
                  coltiva tuttavia il personale, congenito e strutturale disimpegno 
                  politico/sociale in una spettacolare apatia culturale. 
                  Vivrebbe in un paese che ha corrisposto perfettamente alle sue 
                  analisi sulla mutazione e il degrado antropologici, ovvero il 
                  “genocidio culturale”. Chissà cosa avrebbe 
                  detto – ma soprattutto scritto – della caduta di 
                  tutte le ideologie, dei mass-media, della giustizia, del Vaticano, 
                  della cultura, dei giovani, di tutti i politici-clown-clan, 
                  del potere economico, del capitalismo, della sinistra... Sicuramente 
                  – come sempre – avrebbe avuto più intuito 
                  di tanti pseudo intellettuali; ci sarebbe stato d'aiuto per 
                  leggere poeticamente e antropologicamente una società 
                  degenerata e imbarbarita. 
                  Ancora oggi c'è una ricorrente attitudine a sminuire 
                  il valore teorico degli scritti pasoliniani e ancora si sente 
                  ribadire il concetto secondo cui la sua Weltanschauung è 
                  unicamente poetica. Proprio come scrive Pasolini nel '66: “È 
                  un modo per esorcizzarmi. [...] È quindi anche un modo 
                  per escludermi e di mettermi a tacere”. Un intellettuale 
                  puro che precorre i tempi delle inchieste. A mo' d'esempio si 
                  legga il suo libro postumo Petrolio in cui egli comprende 
                  in tempi non sospetti la funzione-cardine di Eugenio Cefis (successore 
                  di Enrico Mattei all'indomani della sua non accidentale morte) 
                  nell'indicare un mutamento autoritario non più basato 
                  sulle stragi ma sulla limitazione della democrazia e sul totalitarismo 
                  del sistema economico globale. Le identiche tematiche contro 
                  cui ci scontriamo in questo momento storico. 
                  Alberto Moravia sosteneva che “Pasolini è morto 
                  in una maniera intonata non già alla sua vita ma ai pregiudizi 
                  e alle convinzioni della società italiana; ossia non 
                  per colpa sua ma per colpa degli altri. In altri termini e per 
                  dirla con chiarezza definitiva: Pelosi e gli altri come lui 
                  sono stati il braccio che ha ucciso Pasolini; ma i mandanti 
                  del delitto sono una legione, in pratica l'intera società 
                  italiana. [...] E cioè: la borghesia italiana che è 
                  secondo noi, tutta o quasi conservatrice quando non è 
                  addirittura fascista. [...] Questo suo dovere di perire per 
                  mano assassina lo circondava come una nube funesta fin dai tempi 
                  del suo processo in Friuli. [...] Pasolini era del tutto indifeso 
                  e non si appoggiava a nulla come tutti i veri intellettuali. 
                  [...] Donde l'insopprimibile sua tendenza a scandalizzare. [...] 
                  Ignorava il pericolo mortale che correva scandalizzando una 
                  classe come la borghesia italiana che in quattro secoli ha creato 
                  i due più importanti movimenti conservatori d'Europa, 
                  cioè la controriforma e il fascismo”. 
                  Negli anni in cui Pasolini osserva la società come poeta, 
                  scrittore, drammaturgo, linguista, saggista, giornalista, sceneggiatore 
                  e regista, già intuisce i tempi, l'epoca, “il progresso 
                  come falso progresso”. Sul Corriere della Sera del 29 
                  ottobre '75 scrive: “I giovani sottoproletari romani hanno 
                  perduto (devo ripeterlo per l'ennesima volta?) la loro 'cultura', 
                  cioè il loro modo di essere, di comportarsi, di parlare, 
                  di giudicare la realtà: a loro è stato fornito 
                  un modello di vita borghese (consumistico): essi sono stati 
                  cioè, classicamente, distrutti e borghesizzati”. 
                  Non si può sorvolare sul suo coraggio e sulla sua forza. 
                  “Io sono una forza del Passato. [...] Giro per la Tuscolana 
                  come un pazzo, / per l'Appia come un cane senza padrone. [...] 
                  E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno d'ogni moderno 
                  / a cercare i fratelli che non sono più”. 
                  La “disperata vitalità” spinge Pasolini a 
                  concepire e pianificare la propria morte violenta quale “montaggio 
                  del film della sua vita”, come asserisce Giuseppe Zigaina, 
                  “la morte-montaggio”. 
                  La straordinarietà del montaggio di Salò 
                  o le 120 giornate di Sodoma sta nel far coincidere il 
                  tempo della morte reale con il tempo del montaggio del film 
                  postumo in cui si è rivelato l'estremo gesto formativo 
                  del Poeta. Analogia tra montaggio reale e montaggio metaforico 
                  della sua opera-vita. “Una cosa – scrive Pasolini 
                  – è essere martirizzati in camera e una cosa è 
                  essere martirizzati in piazza, in una 'morte spettacolare' – 
                  ma la cosa essenziale è restare in vita”. In cui 
                  “restare in vita” indica restare nella vita del 
                  dopo, ossia nella gloria e nell'eternità. 
                  Pasolini intuisce anzitempo i rischi insiti nel neocapitalismo 
                  italiano, un modello fondato sull'accumulazione di beni superflui 
                  più che su uno sviluppo etico-culturale. Dice appunto: 
                  “E io ritardatario sulla morte, in anticipo sulla vita 
                  vera, bevo l'incubo della luce come un vino smagliante”. 
                  Addita in primo luogo la televisione, atta a sovvertire il tessuto 
                  sociale e ad alterare in profondità l'individuo 
                  e i suoi comportamenti psichici, culturali e umani. Oggi il 
                  suo coraggio intellettuale sarebbe essenziale: dire ciò 
                  che è, sempre e dovunque. Questa è la dimensione 
                  antropologica, culturale e politica in cui collocare Pasolini 
                  oggi per rileggerlo e farlo rivivere in chiave marxista e libertaria, 
                  in un presente sempre più omologato, globalizzato e conformista 
                  e in un futuro le cui premesse presagiscono un deserto culturale 
                  apocalittico. 
                  
                Domenico Sabino 
                 
                 
                   
                
                   
                    |   Londra 
					Incendiata la storica libreria Freedom  | 
                   
                   
                     
                         I 
                          locali della storica libreria anarchica Freedom di Londra 
                          hanno subito un pesante attacco incendiario nella notte 
                          tra giovedì 31 gennaio e venerdì 1 febbraio. 
                          Nonostante l'intervento dei pompieri, che hanno lavorato 
                          fino alle 7 di mattina per spegnere le fiamme, una parte 
                          del piano terra dell'edificio ha subito considerevoli 
                          danni. Fortunatamente nessuno è rimasto ferito. 
                          Secondo le ricostruzioni dei compagni, è stata 
                          forzata una finestra e poi versato del liquido infiammabile 
                          all'interno. L'attacco non è stato rivendicato 
                          ma è assai probabile che esso sia da attribuirsi 
                          all'estrema destra, che già nel 1993 si era resa 
                          responsabile di un atto simile. 
                           
                          Freedom non è solo una libreria: è un 
                          editore di movimento dal 1886, quando Charlotte Wilson 
                          e Pëtr Kropotkin cominciarono a pubblicare l'omonimo 
                          giornale, che continua a uscire mensilmente. Freedom 
                          edita libri e ospita le attività di diversi gruppi 
                          tra cui Solidarity Federation, Anarchist Federation, 
                          Advisory Service for Squatters, Corporate Watch e London 
                          Coalition Against Poverty. 
                          Dal giorno dopo l'incendio la risposta solidale di tante 
                          e tanti è stata tangibile, tanto che lunedì 
                          4 febbraio Freedom ha riaperto i battenti, anche se 
                          il magazzino, che contava circa ottomila volumi, si 
                          è ridotto non di poco. 
                           
                          Chi voglia aiutare per la ricostruzione può farlo 
                          con una donazione o acquistando dei libri dal sito: 
                         
                          www.freedompress.org.uk 
                          E-mail: shop@freedompress.org.uk 
                          Freedom Press 84b Whitechapel High Street, London, E1 
                          /QX, Regno Unito. 
                         
                          (grazie per la collaborazione ad Antonio Senta) 
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