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				 migranti 
                  
                Saluzzo. Il cuore del problema 
                  
                di Antonello Mangano 
                    
                Da nord a sud raccogliere la frutta diventa 
                  emergenza umanitaria. E lo sfruttamento è una catena. 
                 
                  La Calabria si trova a 1200 chilometri, 
                  la Francia a due passi. Frutteti a perdita d'occhio danno forma 
                  a uno dei distretti agricoli più ricchi d'Europa. 
                  Saluzzo, provincia di Cuneo. Alcune decine di africani vanno 
                  da un capo all'altro dell'Italia, due volte l'anno. E ci raccontano 
                  tutte le contraddizioni di questo paese. A ottobre, quando hanno 
                  appena finito di raccogliere pesche e kiwi. Ad aprile, quando 
                  la stagione delle arance calabresi è alle spalle. Da 
                  una zona ricca a una povera, si direbbe. Ma nel prospero Nord 
                  Ovest hanno dormito all'aperto sotto le Alpi (in condizioni 
                  “rosarnesi”) ed è intervenuta la Croce rossa 
                  per evitare che il freddo li uccidesse. Alle spalle del Foro 
                  Boario, lo spiazzo della fiera, bastava scavalcare un muretto 
                  alto mezzo metro per entrare in un delirio di cartoni, scarpe 
                  infangate, pentoloni, bombole del gas e materassi gettati sull'asfalto. 
                  Quando si è tenuta la fiera delle vacche e dei macchinari 
                  agricoli, un muro di legno doveva coprire la vergogna e lasciare 
                  indisturbata la sfilata delle “frisone”. 
                  Nel 2010 si erano arrangiati tra i vagoni di un treno deragliato 
                  o sotto la tettoia del binario uno, l'anno dopo ancora la stazione, 
                  in 80 all'interno di un magazzino abbandonato. Durante la stagione 
                  2012 il magazzino della stazione è rimasto crudelmente 
                  chiuso nonostante il freddo, con gli africani fuori a dormire 
                  sui cartoni. Poi è stato raso al suolo dalle ruspe e 
                  lo spiazzo chiuso coi lucchetti. Il comune di Saluzzo ha ospitato 
                  pochi fortunati in quella che era la casa del custode del cimitero. 
                  Una sistemazione normale rispetto agli accampamenti, ma con 
                  vista sulle tombe. In giardino, un carro funebre vecchio di 
                  secoli, in legno e con ruote da carrozza. Quando gli ospiti 
                  stavano per partire, l'ente ha presentato il conto delle bollette. 
                  Gli africani le hanno pagate fino all'ultimo centesimo. Alla 
                  fiera, un “generoso” cittadino ha offerto una tenda 
                  e poi se l'è ripresa perché gli serviva per una 
                  festa di matrimonio. Anche la Croce rossa, terminato il gelo, 
                  ha subito smantellato i suoi tendoni. L'assessore regionale 
                  all'agricoltura, leghista nonché proprietario di aziende, 
                  dice: “L'anno prossimo non useremo più manodopera 
                  africana”. 
                  Qui il problema, per i più, è di decoro urbano. 
                  Circa duecento africani sono arrivati solo per lavorare in condizioni 
                  dignitose e vanno via con la consapevolezza che l'Italia è 
                  ormai un paese unito. Da un capo all'altro del paese, infatti, 
                  le raccolte agricole diventano emergenza umanitaria. Siano patate 
                  o pomodori, clementine o pesche, l'emergenza si affronta con 
                  gli strumenti di solito riservati ai territori che hanno subito 
                  una guerra o un terremoto. Tendopoli, Croce rossa, Ong, soccorsi, 
                  ambulanze, kit di prima necessità, raccolte di cibi e 
                  coperte. E vertici in Prefettura, tavoli istituzionali, trasferimenti 
                  forzati e ordinanze di sgombero. 
                  Nord e Sud 
                 Se in Piemonte c'è il lavoro grigio – con giornate 
                  non segnate e l'evasione contributiva – al Sud prevale 
                  il nero. E paghe da fame. “Non possiamo dare di più”, 
                  dicono quasi tutti i produttori di Rosarno. La paga per i raccoglitori 
                  stranieri – la nota di tariffa di 20-25 euro al giorno 
                  – non può aumentare perché il prodotto è 
                  a sua volta pagato pochi centesimi al chilo. Ma le cose stanno 
                  veramente così? Nell'epoca d'oro delle “arance 
                  di carta”, gli anni delle truffe ai contributi europei, 
                  alcune ditte fatturavano moltissimo. “Ma i raccoglitori 
                  non venivano pagati di più”, ci dice un agricoltore 
                  locale. 
                  Il consumatore e il bracciante sono gli ultimi anelli – 
                  quelli più deboli – su cui scaricare le storture 
                  del sistema. L'ex sindaco di Rosarno si chiama Giuseppe Lavorato. 
                  Per tutta la vita ha provato a contrastare il meccanismo che 
                  ha trasformato l'economia fiorente della Piana di Gioia Tauro 
                  in un deserto in mano alla criminalità: “Gli agricoltori 
                  devono aprire gli occhi e riconoscere che il loro reddito è 
                  falcidiato dall'imperio mafioso che parte dalle campagne e arriva 
                  nei mercati. Negli anni settanta, la 'ndrangheta ha allontanato 
                  dai nostri paesi i commercianti che pagavano il prodotto a un 
                  prezzo remunerativo, per rimanere sola acquirente e imporre 
                  il proprio basso prezzo”. Negli ultimi mesi, in Calabria 
                  sono stati sequestrati quei beni mafiosi che corrispondono con 
                  precisione ai passaggi della filiera. I Pesce-Bellocco – 
                  clan dominanti nel rosarnese – hanno dovuto restituire 
                  terreni, aziende agrumicole, imprese di trasporto su gomma e 
                  supermercati. 
                  Ovunque troviamo elementi feudali: le antiche “guardianie” 
                  sui terreni oppure la misurazione “ad occhio” del 
                  frutto pendente sull'albero ad opera di “professionisti” 
                  del settore. O ancora usurai che anticipano il costo delle sementi 
                  e dei macchinari. Il trasporto sui camion di proprietà 
                  dai clan. Oppure i mercati generali, come quelli di Milano e 
                  Fondi, dominati da ‘ndrangheta e camorra. O le forniture 
                  (cassette e materiale di confezionamento) imposte a prezzi maggiorati 
                  o in regime di monopolio. Per non parlare dei punti vendita, 
                  spesso riconducibili alla mafia. I grandi marchi nazionali e 
                  internazionali non hanno problemi a concedere in franchising 
                  il proprio brand a soggetti notoriamente criminali. E 
                  in alcune zone, nella Sicilia profonda, è addirittura 
                  l'acqua per l'irrigazione a essere sottoposta al pizzo. 
                  Borgo Mezzanone, Palazzo San Gervasio, San Severo, Vittoria, 
                  Castel Volturno, Cassibile sono i nomi noti di una geografia 
                  dello sfruttamento, sono i paesi del Sud dove una nuova schiavitù 
                  è stata “scientificamente” prodotta da leggi 
                  inumane, come afferma l'ultimo rapporto di Amnesty International. 
                  Gli stessi paesi – Rosarno compresa – sono storicamente 
                  zone rosse. Occupazione delle terre, cooperative di produttori 
                  e lotte contro il caporalato hanno segnato la storia di queste 
                  terre. Finché il filo si è interrotto e i migranti 
                  sono stati considerati un problema umanitario, un oggetto 
                  di assistenza e non un soggetto di azione politica. 
                  Non siamo a Rosarno 
                 E allora cosa c'entra Saluzzo con tutto questo? “Non 
                  siamo a Rosarno”, dicono spesso. È vero. “Al 
                  sud sparano ma non tengono le porte chiuse. Qui è il 
                  contrario”, così una calabrese emigrata in Piemonte 
                  riassume le differenze tra i due estremi del paese. Nulla di 
                  quello che è frequente al Sud – dalla mafia al 
                  caporalato, dal ruolo parassitario dei grandi commercianti ai 
                  bassi prezzi imposti dai circuiti monopolistici della grande 
                  distribuzione – produce ancora effetti visibili nel cuneese. 
                  Con una eccezione. Si sono riprodotte le stesse condizioni abitative 
                  da emergenza umanitaria. “Rischio ipotermia”, ha 
                  decretato la Croce rossa. I braccianti potevano morire di freddo 
                  perché un distretto ricchissimo non ha voluto dare un 
                  alloggio a poche decine di africani. Non un incidente, ma un 
                  segnale di imbarbarimento che avvicina i due estremi del paese. 
                  Un segnale che va compreso prima che sia troppo tardi. Prima 
                  che le differenze diventino impercettibili. 
                  E invece politici e giornalisti, così come troppe persone 
                  comuni, sono convinti di trovarsi di fronte l'atavica povertà 
                  africana. “Le grandi masse spingono alle porte dei paesi 
                  industrializzati”, dice il presidente della provincia 
                  di Reggio Calabria. “Si tratta di migrazioni epocali”, 
                  dice un assessore di Saluzzo. “Non possono essere gestite 
                  con le risorse di un piccolo comune”. La questione epocale, 
                  nello specifico, era trovare un tetto a un massimo di 180 lavoratori 
                  per qualche settimana. E così gli africani sono “schiavi 
                  invisibili”, “ultimi”, “disperati”. 
                  Il confronto è tra “buoni” in crisi di coscienza 
                  e “cattivi” che rispondono: “Portateli a casa 
                  vostra, non possiamo farci carico dell'invasione africana”. 
                  Dalle campagne del Piemonte a quelle della Calabria, non c'è 
                  nessun esodo di massa. La fame è quella prodotta dallo 
                  sfruttamento, la vera quintessenza del nostro sistema economico. 
                  Un sistema abbrutito dalla crisi che colpisce maggiormente il 
                  migrante, privo di reti familiari e amicali che possano sostenerlo, 
                  emarginato da leggi discriminatorie create negli anni della 
                  deriva securitaria e xenofoba e mai riformate. 
                  Braccia a basso costo 
                 Non sono poveri perché africani. Sono africani perché 
                  poveri. Le condizioni abitative estreme sono il prodotto dei 
                  mali italiani. Dopo aver visto decine di accampamenti e luoghi 
                  degradati sembra quasi normale associare gli africani alle bidonville 
                  delle campagne italiane. E qualcuno finisce col pensare che 
                  gli africani non siano in grado di vivere in normali appartamenti: 
                  “Al loro paese sono abituati così”. Niente 
                  di più falso. La causa viene scambiata con l'effetto. 
                  La maggior parte di queste persone viveva in case normalissime 
                  in cui tornava al termine dell'orario di fabbrica. L'impoverimento 
                  per loro è stato brutale, ma non diverso dal peggiore 
                  dei nostri incubi. Immaginate un welfare sempre più indebolito; 
                  genitori che invecchiano e non sostengono più i figli; 
                  padroni che allargano le braccia e sostengono di essere a loro 
                  volta sfruttati; pregiudizi che vi colpevolizzano. È 
                  quello che sta accadendo al lavoro italiano, un processo di 
                  lenta e progressiva “rosarnizzazione”. I prezzi 
                  si abbasseranno, si dice da anni. Per ora si sono abbassati 
                  solo gli stipendi. E lo sfruttamento del migrante è stato 
                  solo il laboratorio di un processo che trasforma il cittadino 
                  in braccia a basso costo. Un processo che ci ha investito in 
                  pieno. 
                  Le campagne sono lontane dai riflettori dei “grandi” 
                  media e dagli interessi dei politici. Ma sono anche luoghi di 
                  elaborazione di risposte ai problemi della casa e del lavoro. 
                  Temi che fino a qualche tempo fa sembravano lontani per molti 
                  italiani. Oggi nelle grandi città i trentenni dividono 
                  un appartamento anche con cinque coinquilini e in ogni posto 
                  di lavoro le forme di sfruttamento hanno raggiunto livelli mai 
                  visti. Eppure, chissà perché, continuiamo a tenere 
                  la voce “problemi dei migranti” separata dalle altre. 
                  La città borghese 
                 Ogni anno – a partire da maggio – centinaia di 
                  braccianti stranieri arrivano nella zona. Sono africani da tempo 
                  in Italia, ma anche rumeni, polacchi e cinesi che vengono, lavorano 
                  e vanno via. La maggior parte trova alloggio – come del 
                  resto prevede la legge – nelle masserie di chi li assume. 
                  Ma c'è una quota che non viene “accolta”. 
                  Tutti insieme movimentano centinaia di migliaia di quintali 
                  di frutta destinati in gran parte al mercato tedesco. 
                  Tranne qualche rarissima eccezione, hanno tutti in tasca un 
                  permesso di soggiorno e un contratto di lavoro. “Durante 
                  la stagione delle raccolte era normale offrire un tetto agli 
                  italiani. Oggi i lavoratori stranieri devono fare da soli”, 
                  ci dice un testimone. C'è chi prova ad affittare una 
                  casa. Un'ora di raccolta è pagata 5 euro l'ora. Senza 
                  inquadramento regolare non si lavora tutti i giorni del mese. 
                  Chi manda i soldi a casa tende a risparmiare il più possibile, 
                  altrimenti il progetto migratorio non avrebbe più senso. 
                  L'affitto di una cascina arriva a 200 euro, in paese è 
                  molto più caro e la pelle nera si nota. Ti chiedono molti 
                  mesi di caparra se va bene, altrimenti pretendono un affitto 
                  per tutto l'anno, incluse le spese di riscaldamento. Il centro 
                  di Saluzzo con decine di sportelli bancari, vialoni alla francese 
                  e palazzi storici sovrastati dalla silhouette delle Alpi è 
                  semplicemente inaccessibile. “Questa è una città 
                  borghese nel vero senso della parola”, ci dicono. “C'è 
                  molta diffidenza. Gli africani vanno bene per le raccolte ma 
                  devono rimanere invisibili”. 
                  Una religione laica 
                  
                Nelle valli del Cuneese la memoria è una religione laica. 
                  Nei libri e nei racconti orali, nelle manifestazioni e nei discorsi 
                  c'è l'eco della prima e la seconda guerra mondiale, in 
                  questa terra di confine fino a poco tempo fa punteggiata da 
                  caserme e forti. È vivo il ricordo della resistenza raccontata 
                  da Nuto Revelli, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio. In pochi – 
                  invece – hanno voglia di raccontare la povertà 
                  e l'emigrazione. Oltre che con le città francesi, i paesi 
                  della zona sono gemellati con quelli argentini. Da poverissime 
                  vallate i contadini scendevano fino a Genova per inseguire la 
                  fortuna dall'altra parte dell'Oceano. Questa è anche 
                  la terra dei passeur, gli uomini capaci di fare attraversare 
                  clandestinamente il confine agli emigrati italiani. “Il 
                  cammino della speranza” di Pietro Germi racconta dei disperati 
                  piemontesi che tentavano di passare il confine sotto le nevicate. 
                  Non tutti arrivavano vivi a destinazione. Il piatto tipico del 
                  luogo è la polenta nera, cucinata in un pentolone, condita 
                  col porro, una delle versioni più povere: il granturco 
                  giallo era già un lusso. Poi negli anni '60 arriva il 
                  boom e sparisce il ricordo della fame. I vini delle Langhe, 
                  i frutteti della pianura. La terra della polenta nera diventa 
                  la patria elettiva di Slow Food. Sembrano lontanissimi 
                  gli africani, gli immigrati. La questione si risolve troppo 
                  spesso con un paio di battute sprezzanti in dialetto stretto. 
                  La provincia dei contadini che si imbarcavano in terza classe 
                  per l'Argentina celebrava la Lega Nord con il 24 per cento dei 
                  consensi.
                  Antonello Mangano
                  Antonello Mangano è autore di ricerche, inchieste 
                  e saggi sui temi delle migrazioni e della lotta alla mafia. 
                  Fondatore della casa editrice Terrelibere.org. È autore 
                  dei libri Gli africani salveranno Rosarno (Terrelibere.org 
                  2009), Gli africani salveranno l'Italia (Rizzoli 2010) 
                  e Voi li chiamate clandestini (manifestolibri 2010). 
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