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				 elezioni 
                  
                Il voto, il vuoto 
                  
                di Maria Matteo e di Antonio Cardella / foto AFA - Archivi 
  Fotografici Autogestiti 
                    
                Scritti a caldo all'indomani delle elezioni politiche di fine febbraio, questi 
  due interventi invitano a riflettere sulle numerose novità emerse. Invero, 
  non particolarmente entusiasmanti. Anzi, a ben vedere....  
                  
                
                 
                  Il Grillo, il satiro e l'uomo in grigio 
                   
                  di Maria Matteo 
                   
                  Tentare una sorta di genealogia dello tsunami 
                  è un esercizio necessario a comprendere cosa stia avvenendo 
                  nel nostro paese, al di là della declinazione assunta 
                  dal partito a cinque stelle nell'arena della politica istituzionale. 
                   
                  Il risultato emerso dalle urne 
                  è stato un vero terremoto elettorale, il primo dal lontano 
                  1994, quando la discesa in campo di Berlusconi, sotto l'insegna 
                  politico-calcistica di Forza Italia, decretò la nascita 
                  della seconda Repubblica. La legge elettorale che i maggiori 
                  partiti non hanno voluto cambiare è stata per loro un 
                  boomerang. 
                  Il gioco del primo arrivato funziona solo con un maggioritario 
                  secco su base nazionale, altrimenti il rischio che al Senato 
                  non vi sia maggioranza, specie in presenza di un terzo polo, 
                  è molto forte. 
                  Quando leggerete queste note forse i giochi saranno fatti. Sapremo 
                  se e come il Movimento 5 stelle ha accettato alleanze politiche, 
                  o sarà nato l'ennesimo governo di “unità 
                  nazionale” in vista di un'ulteriore tornata elettorale. 
                  Tentare una sorta di genealogia dello tsunami è un esercizio 
                  necessario a comprendere cosa stia avvenendo nel nostro paese, 
                  al di là della declinazione assunta dal partito a cinque 
                  stelle nell'arena della politica istituzionale. Proviamo a scomporre 
                  il quadro. Cominciamo dalla sconfitta di Ingroia. Secca, senza 
                  appello, rovinosa. La compagine affidata alla guida di un ex 
                  giudice per meglio solleticare i pruriti giustizialisti della 
                  sinistra, è rimasta invischiata nell'ennesima tentazione 
                  al “realismo” che affligge la diaspora post comunista 
                  e ne ha decretato la fine come formazione parlamentare sin dal 
                  2008. Nata con l'ambizione sin troppo evidente di contendere 
                  a Grillo le simpatie dei movimenti, costruendo un “soggetto 
                  politico nuovo”, Rivoluzione civile non ha saputo sviluppare 
                  un'ispirazione cittadinista in fondo estranea ai propri azionisti 
                  di maggioranza, riducendosi al cartello degli sfigati che si 
                  mettono insieme per fare il quorum. 
                  Ingroia non ha recuperato i crediti persi da Rifonda, PdCI e 
                  Verdi (più l'impresentabile Di Pietro) dopo l'avventura 
                  di governo. 
                  Leggere la sconfitta di Ingroia nella mera chiave del “tradimento” 
                  sarebbe però riduttivo. Ingroia perde perché lo 
                  spazio simbolico e reale che tenta di occupare è ormai 
                  vuoto da tempo. 
                  La materialità delle relazioni sociali è profondamente 
                  mutata. La violenza della divaricazione di classe si è 
                  fatta più netta, senza tuttavia innescare una stagione 
                  di scontro sociale. I partiti conservatori hanno messo in campo 
                  negli ultimi trent'anni un complesso meccanismo di scomposizione 
                  sociale i cui effetti sono stati forti sia nella concretezza 
                  della condizione lavorativa che nella sua rappresentazione simbolica. 
                  Oggi il popolo delle partite Iva, dei precari, di chi lavora 
                  senza tutele né garanzie è sempre più vasto. 
                  La solitudine è il segno distintivo dello sfruttamento 
                  nel secondo decennio del secolo. 
                  L'operaio Fiat, lo scaricatore di porto, il bracciante agricolo 
                  erano inscritti in un percorso collettivo, determinato dal comune 
                  spazio di lavoro – e lotta – e da un identico quadro 
                  normativo. Tutto questo oggi si declina in buona parte al passato. 
                  Tra partite Iva e precari a vita si è modificata la costituzione 
                  materiale delle classi subalterne, demolendone al contempo i 
                  processi identitari. 
                  Un padroncino che fa trasporti per conto della Fiat, non pensa 
                  a se stesso allo stesso modo dell'addetto della logistica alle 
                  dipendenze dall'azienda. La sua condizione di vita è 
                  peggiore ma diversa. 
                  Non ha nessuna delle tutele dei dipendenti, ma nemmeno i vantaggi 
                  del piccolo imprenditore. Né carne né pesce, si 
                  trova in un limbo dove la riproposizione della prospettiva welfarista 
                  classica gli appare di assoluta inattualità. Inattingibile 
                  e nel contempo estranea alla sua vita. Oberato dalle tasse, 
                  spesso senza né lavoro né reddito, vuole meno 
                  tasse e qualche copertura quando resta a terra. Questi soggetti 
                  dispersi sono davvero al di là della destra e della sinistra, 
                  in un altrove che il populismo grillino è riuscito a 
                  catturare, mescolando istanze ultraliberiste con l'ultrastatalismo 
                  del reddito di cittadinanza. 
                  Estranei alle piazze fisiche si sono esercitati alla partecipazione 
                  nella piazza virtuale di internet. Sebbene Grillo abbia celebrato 
                  la propria apoteosi nel luogo simbolo dei grandi raduni della 
                  sinistra romana, le piazze grilline sono nel grande magma del 
                  web, dove ti colleghi dall'ufficio, dal bar dove fai pausa, 
                  dai giardinetti dove bivacchi in attesa di domani, dal letto 
                  prima di crollare addormentato. Se non hai tempo per un post 
                  fai un tweet ed esisti. Ci sei anche tu. Ti riconosci nel faccione 
                  debordante, nell'urlo del comico, nel suo ghigno moralista, 
                  forcaiolo. Sei tu, quello è il tuo volto. 
                  Forse la vittoria di Grillo è tutta qui, nella capacità 
                  di intercettare il malessere di soggetti sociali che debordano 
                  dal quadro novecentesco. L'affermazione/boutade sui sindacati 
                  non gli allontana simpatie, perché questi costosi patronati 
                  sono avvertiti, non a torto, come parte dell'odiatissima casta, 
                  dei privilegiati, dei politici e sindacalisti di professione. 
                  La memoria della lotta di classe non è il tuo presente 
                  e nemmeno il futuro dei tuoi figli, già ipotecato da 
                  una classe politica che modella se stessa ai ritmi della transazioni 
                  finanziarie. Oggi, subito, domani non importa. 
                
                   
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                    Beppe 
                        Grillo  | 
                   
                  
                Lo spettacolo della politica e la politica 
                  spettacolo 
                 Il vincitore morale di questa partita elettorale non è 
                  tuttavia Grillo, ma Berlusconi. Quando si dimise, poco più 
                  di un anno fa, diversi editorialisti scrissero che era finita 
                  un'epoca, che il berlusconismo era morto. Un anno dopo il Cavaliere 
                  dei mille frizzi, lazzi, gag è risorto dalle sue ceneri, 
                  si è tenuto la Lombardia dei mille scandali, ha ingoiato 
                  la Puglia, rimasticato la Sicilia. L'Italia del cavaliere è 
                  più viva che mai. 
                  A tanti anni da tangentopoli, quando gli ingenui pensarono che 
                  le inchieste del pool di “mani pulite” avrebbero 
                  creato la via giudiziaria al rinnovamento morale, sappiamo che 
                  quelle inchieste furono lo strumento per esodare in fretta e 
                  furia un blocco politico che, caduto il muro di Berlino, aveva 
                  perso ogni ragion d'essere. Il novecento era finito, i partiti 
                  novecenteschi, fatti di grandi apparati, di amici/compagni/camerati, 
                  di strutture pesanti e idee che plasmavano di sé il mondo 
                  non servivano più. La nuova Italia era stata svezzata 
                  ed era pronta a fare il salto nell'era del just in time, 
                  delle televendite, della libertà fatta di tette/culi, 
                  della vita quotidiana sparata in tv, dei sogni confezionati 
                  da specialisti dell'immagine e consumati in un minuto. Volgare, 
                  grezzo, ma vitale, Berlusconi inaugurò un nuovo stile 
                  politico. Il corpo, negato, ingessato, smaterializzato, dimenticato 
                  fa irruzione nella scena politica mutandola di segno. 
                  Nella concretezza dello scontro di classe l'era berlusconiana 
                  si lascia alle spalle la questione della mediazione politica 
                  tra le “parti sociali”. 
                  La socialdemocrazia ha un costo che i padroni, se possono, evitano 
                  di pagare passando all'attacco. Berlusconi non ha regnato ininterrottamente, 
                  perché una legislatura e mezza se l'è fatta anche 
                  il centro-sinistra. Peccato che i più non si siano accorti 
                  della differenza, al di là dei circoli ristretti dove 
                  si spartiscono nomine e benefici. 
                  Berlusconi viene obbligato ad abdicare perché il mantenimento 
                  del blocco sociale che lo sostiene non consente la rapida attuazione 
                  di politiche di contenimento del debito pubblico che, oltre 
                  a colpire i salariati, stringano in una morsa anche la parte 
                  bassa del ceto medio. Berlusconi non poteva permettersi di reintrodurre 
                  la tassa sulla casa o di toccare ancora le pensioni. Monti, 
                  l'uomo delle banche, invece sì. Il Partito democratico 
                  si accoda nella speranza di poter andare al governo, facendo 
                  fare ad altri il lavoro sporco. 
                  Così si gioca una vittoria elettorale sicura. 
                  Mario Monti ha provato a scavarsi un proprio ambito di potere 
                  per fungere da ago della bilancia, ma non c'è riuscito. 
                  In compenso ha ampiamente cannibalizzato Udc e Futuro e libertà: 
                  Casini ne è uscito malconcio, Fini ne è uscito 
                  e basta. 
                  Monti, come Bersani, Ingroia e, in parte, anche Maroni, sono 
                  comunque irretiti dalla tela di ragno di una strategia di marketing 
                  politico che ha bisogno del corpo dei leader per poter incarnare 
                  i sogni e le favole che vende. Serve una faccia, un corpo, che 
                  riempia di sé la scena vuota di un agire politico che 
                  si riproduce eguale da una legislatura all'altra. 
                  Bersani perde perché la sua aria da apparatnik su fondo 
                  grigio ha sapore ingessato, anonimo, freddo, duro e insapore 
                  come la polenta della sera prima. 
                  È il trionfo del berlusconismo, dello spettacolo che 
                  si fa politica. 
                  Chi poteva interpretare meglio questa parte di un attore? Grillo 
                  è capace di riempire la scena saturandola di sé, 
                  facendone un tutt'uno con se stesso. Il suo faccione deborda, 
                  il suo grido esplode in faccia a chi guarda. Grillo è 
                  come la minestra della nonna, sapore di autentico nel tempo 
                  dove la distanza tra il vero e il falso è nel marchio 
                  che ne decreta il prezzo. 
                  Guida spirituale, guru, caudillo, Grillo “ha sempre ragione”, 
                  come un padre amorevole che consiglia, incoraggia, sorregge, 
                  protegge i suoi figli. Finché obbediscono. Poi sono sberle, 
                  e, nei casi estremi, la cacciata dalla famiglia. 
                  Grillo è l'apoteosi della politica post ideologica: mette 
                  insieme illusione partecipativa e il dirigismo più esasperato, 
                  corteggia i movimenti localisti e fa dichiarazioni razziste, 
                  vuole moralizzare la politica, tagliando stipendi e privilegi, 
                  ma gioca il proprio ruolo di garante per decidere, senza confronto 
                  alcuno, la linea politica del “suo” movimento. 
                  In campagna elettorale le piazze si sono riempite di spettatori, 
                  che andavano via appena prendevano la parola i candidati, meri 
                  fantocci all'ombra del conducator. 
                  Oggi questi fantocci sono in parlamento, regalando a tanti l'illusione 
                  di esserci anche loro. 
                 Maria Matteo 
                  
                 
                   
                   
                  La grande rincorsa al centro 
                   
                  di Antonio Cardella 
                   
                  Corteggiare la fantomatica area moderata si è 
                  rivelato, ancora una volta, una strategia perdente, che ha consegnato 
                  una buona fetta del Parlamento in mano a due forze politicamente 
                  inerti quanto pericolosamente ingombranti. 
                   
  Le poltrone, ben sagomate 
                  e assai comode, erano disposte ai due lati del grande camino 
                  appena acceso. Al centro del salone sonnecchiava un pastore 
                  tedesco dallo sguardo inconsuetamente languido e, per completare 
                  l'atmosfera tardo ottocentesca, non mancava la governante che 
                  si apprestava a servire il tè. Cassola si godeva palesemente 
                  l'agio della sua bella casa a Marina di Castagneto, sul litorale 
                  toscano, poco distante da un mare placido, parzialmente occultato 
                  da due filari di alberi che a me parvero dei pini. 
                  Avevamo deciso di incontrarci per scambiare alcune considerazioni 
                  sul fallimento della cultura nel contribuire ad elevare il tono 
                  della politica in Italia e sulle conseguenze che tale fallimento 
                  avrebbe comportato per il futuro del paese. 
                  Gli esiti di quell'incontro confluirono poi in un libro, Conversazione 
                  su una cultura compromessa, pubblicato da “Il Vespro” 
                  nel 1977 e ripubblicato venti anni dopo dalle Edizioni e/o di 
                  Milano. 
                  Perché ricordo adesso i contenuti di quell'incontro? 
                  Perché già da allora, quando le voci accorate 
                  del '68 si erano quasi del tutto disperse e si cominciavano 
                  a percepire i conati astiosi, corruttivi e arroganti del craxismo, 
                  quell'equivoco profondo del centrismo come soluzione praticabile 
                  delle molte inefficienze della società italiana, un centrismo 
                  plasticamente rappresentato dalla confluenza della cultura comunista 
                  e di quella cattolica per la gestione della cosa pubblica; quell'equivoco 
                  – dicevo – aveva iniziato a inquinare i termini 
                  di una contrapposizione che si sarebbe purtroppo composta nella 
                  resa, incondizionata quanto inconfessata, alle ragioni del capitalismo 
                  e della globalizzazione delle ricchezze smisurate e dei poteri 
                  prevalenti. 
                  I contenuti essenziali della campagna elettorale che ha preceduto 
                  le elezioni del 24 e 25 febbraio sono palesi conseguenze di 
                  quella corsa al centro che avrebbe dovuto comporre, in funzione 
                  salvifica, la contrapposizione che divideva il progetto comunista 
                  da quello moderato rappresentato dalla cultura catto-liberale. 
                  Così, sino alla scadenza delle tribune politiche, dalle 
                  agende dei concorrenti alla gestione politica del paese, tra 
                  il delirio delle promesse consapevolmente insostenibili e le 
                  suggestioni populistico-palingenetiche, sono apparse assai labili 
                  le differenze tra i vari schieramenti in campo: ciascuno si 
                  è preoccupato di sbiadire la natura della propria origine 
                  quando non addirittura a ripudiarla. L'immagine d'insieme apparsa 
                  ad un elettorato smarrito e confuso è stata quella di 
                  un coacervo indistinto di politici – di vecchio o nuovo 
                  conio – che sventolava vessilli scoloriti e lanciava alla 
                  luna urla sconnesse. 
                   Era 
                  di conseguenza difficile che da questo cianciare indistinto 
                  uscisse dalle urne un quadro politico decifrabile. Di per sé, 
                  l'elettorato italiano è incolto e facilmente suggestionabile, 
                  soprattutto se a blandirlo sono tribuni che vellicano le parti 
                  molli della gente, gli impulsi che partono dalla pancia e si 
                  scaricano sul cervello sollecitando gesti inconsulti. Non si 
                  spiegherebbe altrimenti che un guitto come Berlusconi abbia 
                  potuto calcare il proscenio della vita politica italiana, da 
                  protagonista, per oltre un ventennio e sia ancora lì 
                  a caricare di grottesco le vicende di un popolo che è 
                  immerso sino al collo in una crisi devastante. 
                  Così, dal confluire del grottesco nel pressappochismo 
                  astioso e cinico di un elettorato che mostra, in misura prevalente, 
                  di non possedere gli strumenti per decifrare correttamente i 
                  dati della realtà, nasce e cresce il fenomeno Grillo: 
                  non a caso un movimento egemonizzato da un comico che si presta 
                  alla politica. 
                Affaristi reazionari e ribelli velleitari 
                 Grillo rappresenta compiutamente quella consistente massa 
                  di persone che non è mai stata né di destra né 
                  di sinistra, che ha sempre cavalcato una protesta qualunquista, 
                  priva di una visione alternativa dell'esistente e, quindi, semplicisticamente 
                  distruttiva. Nel nuovo Parlamento saranno ingombrantemente rappresentate 
                  due correnti politiche, una affaristico-reazionaria (i relitti 
                  del berlusconismo), l'altra velleitariamente ribellistica, con 
                  venature di razzismo mascherato e di ammiccante fascismo. 
                  Queste due forze costituiranno insieme più della metà 
                  del nuovo Parlamento: la prima sfiorando il 30 per cento; la 
                  seconda con oltre il 25 per cento. La somma di queste due presenze, 
                  politicamente inerti, cristallizza la crisi, irrigidisce le 
                  istituzioni europee, favorisce la ripresa della speculazione 
                  finanziaria. Ovviamente, la nostra preoccupazione non riguarda 
                  quanto l'instabilità della situazione politica italiana 
                  metta in sofferenza i palazzi di Bruxelles o di Francoforte, 
                  bensì – e non possiamo non esserne angosciati – 
                  le ricadute sul sistema sociale che si possono prevedere per 
                  l'immediato futuro. Con questi chiari di luna l'economia reale, 
                  quella che riguarda la carne viva della popolazione, subirà 
                  un'ulteriore decelerazione, in termini di crescita della disoccupazione, 
                  di riduzione drastica dei già falcidiati redditi delle 
                  famiglie che vivono di lavoro, di un azzeramento effettivo dei 
                  servizi sociali. 
                  In questo quadro, il suicidio di Bersani è solo un nuovo 
                  episodio di quella norma che ha sempre determinato la sconfitta 
                  di tutte le sinistre che si istituzionalizzano. Il rincorrere 
                  l'aria moderata per cercare di ampliare il presunto consenso 
                  del suo elettorato, ritenuto prevalente, ha, alla prova dei 
                  fatti, demotivato quanti, nella sua area, si aspettavano una 
                  sterzata decisa contro un'austerità che soffocava la 
                  popolazione. La miopia politica del romagnolo, invece, lo ha 
                  indotto a corteggiare un centro montiano inesistente, per di 
                  più costituito da personaggi da cui una sinistra degna 
                  di questo nome dovrebbe tenersi sempre lontana. 
                  Complessivamente, comunque, il dato che costantemente si conferma 
                  è quello di un popolo, quello italiano, che premia reiteratamente 
                  la corruttela, il malaffare, l'oscenità ostentata e persino 
                  i comportamenti mafiosi. È per questo che non abbiamo 
                  scampo. Qualunque sia la scelta, il corpo del grande malato 
                  non migliorerà. E noi stiamo a guardare. 
                 Antonio Cardella 
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