rivista anarchica
anno 43 n. 379
aprile 2013


“rivoluzioni arabe”

Nel mezzo del cammin...

di Antonio Senta


A due anni dallo scoppio della “primavera araba” i problemi all'origine dei movimenti, dalla disoccupazione giovanile alle diseguaglianze sociali, si sono addirittura aggravati.


Sono passati più di due anni dall'inizio delle cosiddette rivoluzioni arabe. Un insieme eterogeneo di agitazioni e rivolte, iniziate tra la fine del 2010 e i primi mesi del 2011 e in parte ancora in corso, che hanno scosso vaste zone del Medio e vicino Oriente e del Nord Africa, con particolare intensità in Tunisia, Egitto, Yemen, Algeria, Giordania, Bahrein, Libia, Siria e Gibuti.
Si è molto discusso sulla giustezza del termine “rivoluzione” per descrivere i fatti avvenuti: se la si intende come “movimento organizzato e violento col quale si instaura un nuovo ordine sociale o politico” (Devoto-Oli) essa c'è stata solo in alcuni casi. Ma rivoluzione significa anche “ogni processo storico, anche graduale, che finisca per determinare il mutamento di un assetto sociale o politico” (Idem); ancora, e in maniera più fruttuosa, con il termine rivoluzione si può indicare un cambiamento di paradigma, ovvero una sovversione della tradizione esistente. Secondo la teoria elaborata dal filosofo Thomas Khun, nella scienza l'assimilazione di una nuova teoria richiede il rigetto della vecchia; così nella società, entità dinamica e non statica, la rivoluzione è la sostituzione di una certa immagine del mondo, fino a quel momento preponderante, con un'altra. È proprio quello che è successo ovunque con le rivoluzioni arabe, anche se solo in alcuni paesi ci sono state le barricate e la cacciata del “re”.
Se, accettando queste premesse, la parola “rivoluzioni” sembra più che legittima, lo stesso si può dire per il termine “arabe”, ma, anche qui, un chiarimento è necessario. Spesso quando si parla o si scrive di arabi si usa il termine come un sinonimo di musulmani; in realtà la maggior parte dei musulmani non sono arabi, poiché vivono in paesi quali l'Indonesia, il Pakistan, il Bangladesh, la Turchia, l'Iran ecc. e viceversa non tutti gli arabi sono musulmani. Quindi rivoluzioni arabe, ma non rivoluzioni musulmane.

Le cause di questi movimenti sono varie e fanno leva su motivazioni principalmente sociali, politiche e culturali, ma quel che è certo è che esse non sono religiose. Così come religiosi non sono i protagonisti. I movimenti di protesta, composti per lo più da giovani scolarizzati e precari e in alcuni casi da operai di fabbrica, movimenti di massa, tendenzialmente orizzontali e senza leader ben definiti, non hanno portato avanti rivendicazioni religiose. I gruppi legati più o meno direttamente a qualche autorità religiosa sono stati ben nascosti quando è scoppiato il movimento, salvo utilizzarlo strumentalmente per prendere il potere e provare a orientare la società in senso conservatore e oscurantista. È il caso dei Fratelli musulmani in Egitto e di Ennahda, Movimento della rinascita, in Tunisia.
Le cause delle rivoluzioni arabe, si diceva, sono molteplici. La crescita demografica ha certo il suo peso, ma non è la ragione principale. Molti dei paesi arabi hanno un numero medio di figli per donna non troppo diverso dai paesi europei: nelle città marocchine e tunisine c'è una media di 1,84 figli per donna e tassi simili ci sono tra l'altro in Libano, Turchia e Iran.
Alcuni commentatori hanno cercato le cause dei movimenti nel mondo della comunicazione e in particolare in internet, nei social network e nella telefonia mobile. Tutti fattori importanti, ai quali se ne aggiunge un altro, che è stato forse il vero veicolo di contagio “virale” di quelle informazioni sulle proteste di piazza che hanno dato il via all'effetto domino: la televisione e in particolare quel fenomeno politico che è il canale Al Jazeera. Esso ha abbattuto i confini nazionali tra i paesi arabi, veicolando una stessa lingua (il modern standard arabic) dal Mediterraneo all'Oceano Indiano, e una certa concezione di modernità, come mostra il fatto che i giornalisti che appaiono sullo schermo sono in realtà spesso giornaliste donne, solo a volte con il velo.
C'è poi chi ha individuato nei giovani i veri protagonisti delle rivolte. E questo è indubbiamente vero: giovani scolarizzati, spesso con una formazione universitaria, che non riescono a trovare sbocchi lavorativi degni della loro formazione. Questo ci porta a un'altra ragione delle rivolte che ha avuto grande peso: la questione sociale. Negli ultimi anni i prezzi dei beni di prima necessità sono aumentati a dismisura, arrivando a raddoppiare come nel caso del grano, mentre la disuguaglianza sociale non è più parsa sopportabile a larghi strati della popolazione. Non a caso in Tunisia l'agitazione sociale era già forte quando il 17 dicembre 2010 il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si è dato fuoco come gesto disperato di protesta dopo che i poliziotti avevano rovesciato il suo carretto di frutta e verdura. La scintilla della rivolta di avenue Barghiba che ha messo in fuga Ben Ali aveva insomma ossigeno da bruciare: due anni prima i minatori del bacino di Gafsa avevano suonato la carica, dando il via a un crescendo di mobilitazioni che ha visto protagonisti larghi strati di lavoratori, giovani precari, donne. Così in Egitto, dove il movimento operaio ha spinto la rivoluzione con scioperi e agitazioni di fabbrica fin dal 2005. Nel 2008, ad esempio, sono stati gli operai del tessile di Mahalla al-Kobra a incrociare le braccia in settantamila per ottenere aumenti di salario e il ribasso del prezzo dei beni di prima necessità: nei mesi successivi le proteste di lavoratori e disoccupati sono giunte fin davanti ai palazzi del potere e da allora non si sono più fermate, dando vita alle innumerevoli giornate di rivolta in piazza Tahrir e agli scontri davanti ai palazzi governativi.
A fronte di una situazione di grande squilibrio sociale le ruberie di politici e padroni hanno destato particolare scandalo nella popolazione, e hanno aiutato a loro volta a far eruttare un magma già in ebollizione.


Visioni divergenti

Se queste sono le cause, oggi la presa del potere da parte dei partiti musulmani apre una contesa di non poco conto. Lo scontro tra le tendenze religiose e quelle laiche (laico è un termine che gli oscurantisti al potere associano tout-court ad ateo) coinvolge tutti gli aspetti della società. I Fratelli musulmani, spinti in questo dai salafiti, ad esempio, rigettano il concetto stesso di giustizia sociale. La questione della povertà, dicono, non si deve affrontare con la protesta sociale, ma solo con la pratica dell'elemosina, che è uno dei cinque comandamenti del buon musulmano. La lotta di classe è quanto di peggio si possa immaginare, poiché porta la disgregazione in una società, quella musulmana, da loro pensata come una e indivisibile. Non deve stupire quindi che i sindacati siano visti come qualcosa di demoniaco, né che i governi de Il Cairo o di Tunisi siano nuovamente proni ai prestiti, e ai relativi diktat economici, del Fondo monetario internazionale.
Ci sono quindi nelle società arabe visioni divergenti tanto in campo sociale e politico, quanto in quello culturale, basti pensare al ruolo che le donne hanno avuto nelle rivoluzioni, in particolare in Tunisia, e la necessità da parte dei religiosi di farle tornare nei ranghi familiari.
È significativo che la mobilitazione popolare e le proteste continuino in Egitto, dove i cortei dei laici prendono di mira il governo di Morsi e dei Fratelli musulmani.
In Tunisia l'assassinio del 6 febbraio 2013 di Shukri Belaid, leader di El Watad (Movimento dei patrioti democratici), un partito laico e progressista, probabilmente a opera dell'estremismo religioso, ha provocato una reazione di massa: una folla di un milione di persone ha partecipato ai funerali, è stato indetto uno sciopero generale che ha letteralmente bloccato il paese, mentre si sono accesi nuovi focolari di rivolta.
Queste risposte popolari mostrano che dal punto di vista sociale nulla è cambiato per la gran parte della popolazione, che è disposta a mobilitarsi contro i nuovi padroni e contro la progressiva islamizzazione. Le cause alla base dei movimenti iniziati alla fine del 2010, la disoccupazione giovanile e le diseguaglianze sociali, sono ancora lì e anzi si sono aggravate, ecco perché le strade di Tunisi, de Il Cairo o di Porto Said si continuano a riempire.
Le rivoluzioni non sono quasi mai questione di un attimo, anche se apparentemente repentine sono processi complessi; il cambio di paradigma non è lineare e il vecchio, opportunamente trasformato, può ritornare. La strada da percorrere dai settori più avanzati della società è lunga e difficile, però è tracciata ed è ormai ben visibile. Non c'è che da andare avanti: la rivoluzione continua.

Antonio Senta