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			   à nous la liberté   
 
L'ultimo antidoto 
                  contro l'evoluzionismo 
                  
                a cura di Felice Accame 
                 
                   
                  1. 
                   Il 
                  26 novembre del 1866, Padre Giovanni Antonelli aprì l'anno 
                  scolastico del Liceo degli Scolopi a Firenze con Poche parole 
                  intorno alla studio nella Storia Naturale. Fra queste poche 
                  parole, alcune furono di forte ripulsa contro “chi, rinnegando 
                  l'intimo sentimento, il consenso universale e la evidenza fisica 
                  e matematica, non si vergogna di accattare da qualche imbecille 
                  straniero e di spacciare che nostra prima madre dovette essere 
                  una scimmia schifosa, nostro progenitore un fetente Urango o 
                  un Babbuino, nostri fratelli i Mandrilli, sorelle nostre le 
                  Bertucce, parenti un branco di bestie”. E, date queste 
                  premesse, non poteva che concludere invocando: “Oh! Ponga 
                  un termine Iddio pietoso alle conseguenze di queste oscene dottrine; 
                  e illumini i Governanti a conoscere l'infamia e a punirla condegnamente!”. 
                  Centoquarantun anni dopo, il 24 luglio del 2007, nell'incontro 
                  con il clero della diocesi di Belluno-Feltre e Treviso ad Auronzo 
                  di Cadore, Benedetto XVI rifiuta la concezione di evoluzione 
                  e creazione come “alternative” che si escludono 
                  – una concezione secondo la quale “chi crede nel 
                  Creatore non potrebbe pensare all'evoluzione e chi invece afferma 
                  l'evoluzione dovrebbe escludere Dio” – e dice che 
                  “questa contrapposizione è un'assurdità, 
                  perché da una parte ci sono tante prove scientifiche 
                  in favore di un'evoluzione che arricchisce la nostra conoscenza 
                  della vita e dell'essere come tale”. L'“imbecille 
                  straniero” – altrimenti noto con il nome di Charles 
                  Darwin –, insomma, aveva ragione. Anche se – eccolo 
                  l'ultimo baluardo difensivo del Papa – “la dottrina 
                  dell'evoluzione non risponde a tutti i quesiti e non risponde 
                  soprattutto al grande quesito filosofico: da dove viene tutto? 
                  E come il tutto prende un cammino che arriva finalmente all'uomo?”. 
                   
                  2. 
                  Gianfranco Ravasi, cardinale e onusto di vari incarichi pontifici, 
                  biblista, scrive Darwin e il Papa, sorvolando allegramente 
                  sulla storia, ma, in compenso, argomentando con dotta finezza 
                  a sostegno della posizione cattolica in ordine all'evoluzionismo 
                  ed al contesto culturale in cui l'evoluzionismo nasce. Il modo 
                  in cui articola la sua argomentazione, a mio avviso, è 
                  di notevole interesse, anche perché, come vedremo, coinvolge 
                  ambiti più ampi di quelli nei quali l'argomentazione 
                  sembrerebbe confinata. 
                   
                  3. 
                  Al primo punto del suo ordine del giorno sta la liquidazione 
                  del creazionismo. “Laicamente”, lo confuta come 
                  pessima narrativa, neppur meritevole di soverchia attenzione. 
                  E lo fa tramite argomentazioni o di ordine scientifico o, comunque, 
                  basate sull'accettazione dei risultati della scienza – 
                  una scienza che, tuttavia, ridisegna limitata a proprio uso 
                  e consumo. Se cita Aristotele, infatti, è per fargli 
                  dire che “in tutte le cose della natura c'è qualcosa 
                  di thaumastón” (parola che lui traduce in 
                  “meraviglioso” e “indecifrabile”). Se 
                  cita Lucrezio, è per fargli dire che “nil posse 
                  creari de nihilo” (che lui traduce “dal nulla non 
                  può tradursi l'essere”). Se cita Galilei è 
                  perché anche lui si affida allo Spirito Santo. La sua 
                  scienza, da una parte, è quella del fisico Max Planck 
                  – quella che non è in contrasto con la religione 
                  perché “hanno bisogno una dell'altra per completarsi 
                  nella mente di un uomo che pensa seriamente” –, 
                  ed è, soprattutto, quella altrettanto amputata della 
                  teoria del doppio magistero del paleontologo Stephen Jay Gould 
                  – quella altrimenti detta del “Non Overlapping-Magisteria” 
                  che prevede la non sovrapponibilità dei percorsi della 
                  conoscenza filosofico-teologica e della conoscenza empirico-scientifica. 
                  Dall'altra, la sua scienza è quella del filosofo Ludwig 
                  Wittgenstein che, nelle proposizioni della metafisica, dell'etica 
                  e dell'estetica, ravvede un'insita “ineffabilità”, 
                  ma non certo un'“assurdità”. Quando fu formulata, 
                  contro la teoria del doppio magistero, avevo mosso un'obiezione. 
                  Il parallelismo non regge, perché c'è almeno un 
                  punto in comune tra scienza e religione e questo punto è 
                  rappresentato dal linguaggio: entrambe usano del linguaggio 
                  per esplicitare le proprie tesi ed entrambe possono, e devono, 
                  far riferimento ad una e una sola teoria del significato. Entrambe 
                  negoziano i significati delle parole che usano, entrambe contraggono 
                  impegni semantici e questi impegni devono mantenere. Contro 
                  Wittgenstein ho più volte fatto notare che, nonostante 
                  tutta la sua riverenza verso l'ineffabilità, lui parla 
                  eccome – e con la pretesa di farsi capire – e che 
                  la sua è la posizione del mistico rassegnato – 
                  di colui che ferma l'analisi – l'analisi del linguaggio 
                  e di ciò che il linguaggio designa – e rinuncia 
                  a qualsiasi teoria del significato, facendone peraltro uso in 
                  lungo e in largo. 
                   
                  4. 
                  Il creazionismo, dice Ravasi, commette lo stesso errore dell'evoluzionismo. 
                  Come questi “si arroga il diritto di essere una “philosophia 
                  prima”, quello “usava la dottrina teologica della 
                  creazione per contrastarlo” – lo stesso “errore 
                  metodologico”. La teoria del “disegno intelligente” 
                  è per lui una “variante più nobile” 
                  di creazionismo, che, non essendo una “teoria in sé 
                  scientifica” (cosa voglia dire “scientifico in sé” 
                  lo lasciamo a Ravasi) ma “filosofico-teologica” 
                  non può contrastare la teoria dell'evoluzione. Solo argomenti 
                  omogenei alla medesima disciplina, infatti, possono o non possono 
                  – secondo un Ravasi cui farebbe comodo un sapere ben diviso 
                  in compartimenti ben stagni – confliggere tra loro. 
                   
                  5. 
                  A proposito di “insita ineffabilità” e di 
                  quanto l'atteggiamento torni spesso a far comodo ai filosofi. 
                  In una lettera a Overbeck, datata 2 luglio 1885, Nietzsche dice 
                  che la sua filosofia “non si lascia più comunicare”, 
                  aggiungendovi più o meno prudentemente “almeno 
                  in forma stampata”. In Al di là del bene e del 
                  male, però, chiarisce che “non si ama più 
                  abbastanza la propria conoscenza appena la si comunica”. 
                  Forse, allora, prima mentiva per amore. Di se stesso. 
                    
                  6. 
                  È implicito, allora, che a Ravasi non tutta la scienza 
                  vada bene. Il Gould della teoria del doppio magistero, ovviamente, 
                  gli va bene – perché gli consente di dire quel 
                  che gli pare al riparo di un'asserita indipendenza che non ha 
                  e che non può avere –, ma non il Gould che segue 
                  Monod nell'asserire che l'uomo è “il prodotto casuale 
                  di un progetto contingente”. Contro di loro, tuttavia, 
                  Ravasi usa un argomento particolarmente puntuto. Dice che “lasciando 
                  tra parentesi le diverse ipotesi che in sede strettamente scientifica 
                  contrastano questa concezione del meccanismo meramente casuale 
                  e aleatorio del percorso evolutivo, evocando invece costrizioni 
                  formali, simbiosi e fenomeni epigenetici, dobbiamo però 
                  subito segnalare che Monod e Gould, introducendo la categoria 
                  'caso', in pratica si allineavano – sia pure sul versante 
                  opposto – ai creazionisti che introducevano invece una 
                  causalità. In entrambi i casi si tratta di categorie 
                  di indole metafisica e non fisica, che travalicano lo statuto 
                  proprio dell'analisi scientifica”. Con il che, da lì 
                  in avanti, Ravasi sembrerebbe poter respirare. Se, però, 
                  le “diverse ipotesi” che scaturiscono dalla “sede 
                  strettamente scientifica” non le lasciassimo “tra 
                  parentesi” e le mettessimo bene in evidenza, forse, respirerebbe 
                  con minor sollievo. 
                  Faccio un solo esempio. Quando Robert M. Sapolsky parla di casi 
                  di “controllo cerebrale” da parte di ospiti in altri 
                  organismi, cita il parassita Toxoplasma gondii – un protozoo 
                  che, a quanto pare, vive e prospera soltanto in una sequenza 
                  di due ospiti, un roditore e un gatto. “Il toxoplasma 
                  viene ingerito da un roditore, nel corpo del quale forma ovunque 
                  delle cisti, in particolare nell'encefalo. Il roditore viene 
                  mangiato da un gatto, l'ospite in cui il parassita si riproduce 
                  e da cui viene disperso attraverso le feci che, in uno dei famosi 
                  circuiti della vita, sono rosicchiate dal roditore”. A 
                  quanto se ne sa oggi, i gatti sono l'unica specie tramite la 
                  quale il toxoplasma può riprodursi e della questione, 
                  infatti, sono informate tutte le donne che devono affrontare 
                  una gravidanza: se il toxoplasma contenuto nelle feci di un 
                  gatto raggiunge il feto può causare gravi danni neurologici. 
                  Bene, fino a questo punto la vicenda non ci dice un granché: 
                  sembra di essere di fronte alla solita lotta per la vita – 
                  il toxoplasma che recita tutte le preghiere che sa affinché 
                  il gatto si dia da fare per acchiappare il topo – se il 
                  gatto è ben pasciuto, se qualcun altro provvede alla 
                  sua alimentazione o se il topo è troppo grosso e cattivo 
                  – tanto da fargli paura – per il toxoplasma son 
                  dolori: aspetta invano nel corpo del topo e ci lascia le penne 
                  con lui. È a questo punto che, invece, le cose si complicano 
                  – per Ravasi, non per il gatto e, in fin dei conti, nemmeno 
                  per il topo (figuriamoci per il toxoplasma). Il toxoplasma sale 
                  in cabina di regìa e fa “diventare impavidi i roditori”. 
                  Di solito, infatti, i topi usufruiscono di una fobia per i felini 
                  – rifuggono dal loro odore, anche quelli che non ne hanno 
                  mai visto uno (non vanno avanti “per prova ed errore” 
                  perché l'errore lo pagherebbero con la vita). Come è 
                  stato dimostrato da Berdoy, Macdonald e Webster, i topi parassitati 
                  dal toxoplasma “perdono selettivamente l'avversione per 
                  il feromone dei gatti” e, invece che rispondere all'antica 
                  e sana esigenza di darsela a gambe appena ne usmano uno sono 
                  portati ad avvicinarglisi – un altro caso di “attrazione 
                  fatale” – e, a questo punto, anche il più 
                  bonaccione dei gatti non può esimersi. E, attenti, non 
                  è che il topo sia impazzito – in tutti gli altri 
                  comportamenti, il topo è normale – ma, grazie al 
                  parassita, ha “selettivamente” sviluppato un'attrazione 
                  fatale per i gatti. Allora, rileva Sapolsky, “un'idea 
                  profondamente radicata è che l'evoluzione sia direzionale 
                  e progressiva”; che gli invertebrati siano organismi più 
                  primitivi dei vertebrati, che i mammiferi siano i più 
                  evoluti tra i vertebrati, etc., fino “a dare la prova 
                  apparentemente scientifica della superiorità evolutiva 
                  della determinata razza, gruppo etnico, o squadra di bowling 
                  cui si appartiene”. Ma quest'idea, caso del toxoplasma 
                  alla mano, è “assolutamente sbagliata”. Il 
                  suo caso dovrebbe perlomeno indurci ad essere “filologicamente 
                  umili”: “sicuramente non siamo la specie più 
                  evoluta in circolazione, né la meno vulnerabile. E nemmeno 
                  la più intelligente”. 
                   
                  7. 
                   Ravasi 
                  può attaccare Monod e Gould senza avere tutti i torti. 
                  Infatti, il caso e il determinato sono il risultato di operazioni 
                  mentali e non dati di fatto. Dipendono da noi e non dallo stato 
                  delle cose: non ha senso dire che qualcosa è casuale 
                  in sé o determinata in sé. Monod e Gould ereditano 
                  una tradizione filosofica – non estranea neppure a Darwin 
                  – che impedisce loro di liquidare radicalmente le tesi 
                  antievoluzioniste o, dette in termini più adatti ai nostri 
                  giorni, le tesi a favore di un evoluzionismo finalizzato. Con 
                  il che – con la coscienza a posto – crede di potersi 
                  permettere il suo evoluzionismo, che, ovviamente, è direzionato. 
                  Cita Alfred N. Whithehead, John G. Cobb e David R. Griffin per 
                  garantirci che stiamo viaggiando sicuri verso il “punto 
                  omega” – “eterno ed infinito” – 
                  e cita Ray Kurzweil per venderci l'idea di una evoluzione che 
                  andrebbe “nella direzione di una maggior complessità, 
                  eleganza, conoscenza, intelligenza, bellezza, creatività 
                  e livelli più alti di attributi come l'amore”. 
                  “In ogni tradizione monoteista”, infatti, “Dio 
                  viene per analogia descritto con tutte queste qualità 
                  tese all'infinito” e, pertanto, l'evoluzione procederebbe 
                  “inesorabilmente verso questa concezione di Dio, anche 
                  se” – ogni tanto va anche schiacciato il freno – 
                  “non raggiunge mai questo ideale”. Che possa essere 
                  annoverato tra le categorie mentali – come “causa” 
                  e “caso” – anche lo “scopo” – 
                  e che, dunque, a questa gamma di filosofi, possa essere rinfacciato 
                  quanto rinfacciato a Monod e a Gould – a Ravasi non passa 
                  neanche per la capa. 
                   
                  8. 
                  L'idea di accettare l'evoluzione ma non la sua casualità 
                  e, dunque, l'idea di una evoluzione “guidata” non 
                  è nuova e già turbò non poco il povero 
                  Darwin. La formulò quello che lui stesso aveva definito 
                  “un eccellente biologo”, Alfred Russel Wallace, 
                  che, avendo elaborato una teoria dell'evoluzione indipendentemente, 
                  sulle prime sembrava meritare uguali riconoscimenti. Tuttavia, 
                  Wallace finì col sostenere che uno spirito invisibile 
                  e ancora ignoto alla scienza guidava l'evoluzione verso l'età 
                  felice dell'uomo. Uno dei suoi argomenti preferiti a sostegno 
                  concerneva il cervello dei selvaggi: era sovradeterminato per 
                  le loro esigenze – e avevano, dunque, molte più 
                  capacità mentali di quanto, da selvaggi come erano, ne 
                  avessero bisogno. La selezione naturale opera per il qui e per 
                  l'oggi, per l'immediato, e da ciò ne conseguirebbe che 
                  il cervello dei selvaggi è predisposto da una forza spirituale 
                  misteriosa per un uso futuro (per esempio, la butto giù 
                  così io, per quando saranno civilizzati e convertiti 
                  al cristianesimo). 
                   
                  9. 
                  Il fatto che in più punti del suo libro, Ravasi tratti 
                  teologia e filosofia come due facce della stessa medaglia o 
                  come due alleate per natura – trovandomi pienamente d'accordo 
                  – dovrebbe indurre almeno qualche filosofo alla riflessione. 
                  Ma di ciò ho più di un buon motivo per dubitarne. 
                
  Felice Accame
                  
                  Note 
                  Il libro di Ravasi è pubblicato da EDB, a Bologna nel 
                  2013. La citazione di Aristotele è tratta da Parti 
                  degli animali (I, 5). La citazione di Lucrezio è 
                  tratta da De rerum natura (I, 155-156). Per Galilei, 
                  cfr. la lettera all'abate Benedetto Castelli, dove dice che 
                  “l'autorità dello Spirito Santo ha avuto di mira 
                  a persuader agli uomini su quelle verità che, essendo 
                  necessarie alla loro salvezza e superando ogni umano discorso, 
                  non potevano per altra scienza né per altro mezzo essere 
                  conosciute se non per bocca dell'istesso Spirito Santo”. 
                  Poca roba, d'accordo, ma, per Ravasi, più che sufficiente. 
                  L'affermazione di Max Planck è tratta da La conoscenza 
                  del mondo fisico, saggio del 1906. Il caso e la necessità 
                  di Jacques Monod è del 1970. Per la teoria del doppio 
                  magistero, cfr. S. J. Gould, I pilastri del tempo, Il 
                  Saggiatore, Milano 2000. Per una mia critica, cfr. F. Accame, 
                  Antologia critica del sistema delle stelle, Odradek, 
                  Milano 2006. Per l'analisi del caso del toxoplasma gondii, cfr. 
                  Robert M. Sapolsky, L'uomo bestiale, Orme, Roma 2013, 
                  pagg. 126-129. Per gli esperimenti relativi al ciclo di vita 
                  del toxoplasma, cfr. M. Berdoy, J. Webster e D. Macdonald, Fatal 
                  Attraction in Rats Infected with Toxoplasma Gondii, Proceedings 
                  of the Royal Society of London, B 267, 2000, pag. 1.591. La 
                  frase di Kurzweil è tratta da La singolarità 
                  è vicina, Apogeo, Milano 2008. L'alleanza tra teologia 
                  e filosofia è sancita alle pagine 24, 26, 27, 32 e 34. 
                  Per la tesi di Wallace, cfr. A. Desmond e J. Moore, Darwin, 
                  Bollati Boringhieri, Torino 1992, pag. 649.
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