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 Torino 
                  
                Il fantasma della Fabbrica 
                  
                di Maria Matteo 
                    
                La città industriale per eccellenza come emblema della trasformazione della fabbrica: da quella pesante, ingombrante e invasiva alla fabbrica “smaterializzata”, retta dai nuovi imperativi: mobilità, leggerezza, riciclo. Attenzione però a non cadere nella trappola. 
                 
                  Sembrava un dagherrotipo di altri 
                  tempi. Colori sfumati sul grigio, quasi un'immagine da prima 
                  repubblica da telegiornali in bianco e nero. Le vecchie foto 
                  dell'avvocato e quelle dei suoi eredi si mescolavano in un mélange 
                  sapiente. 
                  Dieci anni dopo la sua morte Gianni Agnelli, che pure ha segnato 
                  la transizione al post capitalismo, è l'emblema di un 
                  modello ormai scomparso. Il modello della fabbrica pesante, 
                  della fabbrica che si fa città e modella intorno a sé 
                  lo sviluppo urbano: basta guardare la pianta di Torino per rendersene 
                  conto. L'area che delinea gli stabilimenti di Mirafiori è 
                  enorme, un gigantesco quadrato che ci racconta una storia con 
                  la sola arroganza del proprio esserci. 
                  La storia di una grossa scatola di cemento e acciaio che ha 
                  segnato il destino di un'intera città. Tante di queste 
                  scatole sono scomparse, cancellate dalla nuova città 
                  del turismo e dei servizi immaginata dai sindaci di centro sinistra, 
                  tanto bravi nel piacere ai padroni di sempre. 
                  Centri commerciali, uno in fila all'altro, hanno sostituito 
                  l'area delle fabbriche a ridosso della Dora. Del vecchio Lingotto 
                  non rimane che la pista sul tetto e la sala riunioni, la cupola 
                  trasparente con la piattaforma per l'atterraggio degli elicotteri. 
                  Il resto è padiglioni espositivi, alberghi, negozi, uffici. 
                  È la “nuova” Torino, tutta immagine, con 
                  le cattedrali olimpiche che si sono mangiate i servizi sociali 
                  ma hanno proiettato la Mole in giro per il mondo. È la 
                  Torino del grattacielo della Banca, il pegno pagato dall'amministrazione 
                  Chiamparino per i soldi ottenuti per le sue cento vetrine. 
                  Mirafiori c'è ancora ma è quasi vuota. Dei 120˙000 
                  operai di un tempo non ne restano che cinquemila, in buona parte 
                  chiusi nell'agonia della cassa. Mirafiori è il mero simbolo 
                  di un potere le cui leve sono altrove. 
                  La fabbrica si è smaterializzata. È andata dove 
                  il lavoro costa meno, si è ridefinita sulle previsioni 
                  del momento. Oggi nessun “imprenditore” di buon 
                  senso possiede i capannoni o le macchine utensili, nessuno assume 
                  direttamente addetti alle pulizie, alla manutenzione o al trasporto. 
                  Tutto si fa con leasing e appalti. Le industrie manifatturiere 
                  hanno perso tutto il loro peso, sia materiale che simbolico. 
                  Non conviene radicarsi, meglio avere le mani libere, meglio 
                  seguire il vento, cogliere l'opportunità, essere in grado 
                  di comporre e scomporre il proprio lego in pochissimo tempo. 
                  I padroni moderni sono leggeri come piume, veloci come gazzelle, 
                  capaci di porre le proprie condizioni a qualsiasi governo, di 
                  ricattare le vite di chi lavora ed è molto meno mobile, 
                  leggero, capace di riciclarsi. 
                  Attenzione però a non cadere nella trappola di tanta 
                  leggerezza, attenzione a credere nella favola che anche i padroni 
                  siano diventati immateriali, alla stupidaggine che l'azionariato 
                  diffuso ci faccia tutti complici della mega macchina. La cima 
                  della piramide è ancora più aguzza: lì 
                  si gode il panorama un'élite ristretta e pressoché 
                  impermeabile all'illusione della mobilità sociale, del 
                  benessere che faccia della piramide una botte. 
                   
                   La soglia  delle cento vetrine 
                
  Per decenni governi e padroni hanno predicato la stessa ricetta 
                  ai lavoratori: flessibilità, adattabilità, aggiornamento, 
                  velocità. 
                  La predica si è incisa nelle leggi ed ha disegnato il 
                  nostro oggi. A sinistra i post comunisti e i neoliberali ci 
                  insegnano che la lotta di classe è roba dell'altro secolo. 
                  Il guaio è che spesso hanno ragione: quando una classe 
                  stravince la lotta è finita. Questione di rapporti di 
                  forza, questione di un immaginario dove oltre alla vittoria 
                  del padrone, c'è la rassegnazione dello schiavo, o, peggio, 
                  il suo amore per la servitù, nell'unico mondo possibile 
                  desiderabile, quello dove il domani è nell'eterno ritorno 
                  dell'eguale, tanti colori nuovi per il supermercato globale. 
                  Per questo al posto delle fabbriche hanno messo i centri commerciali, 
                  specchio deformato di una città che non ha più 
                  i propri luoghi. Un gioco che di questi tempi si fa sempre più 
                  sul filo del rasoio, rischiando di incidere a fondo le proprie 
                  carni. 
                  Troppi passeggiano nella nuova Torino senza mai varcare la soglia 
                  delle sue cento vetrine. Lo spettro di Mirafiori che chiude 
                  è la porta aperta sulla paura che può farsi rabbia, 
                  che rischia di debordare, incrinando la vetrina. La nuova Torino 
                  è fragile. 
                  La dirigenza Fiat ha voluto celebrare Gianni Agnelli, nel decimo 
                  anniversario della sua scomparsa, rievocando i tempi della fabbrica 
                  pesante, quella che schiaccia ma non va via. 
                  È venuto il presidente della Repubblica, il post comunista 
                  Napolitano, il vescovo Nosiglia ha celebrato la messa, il tristo 
                  Fassino ha benedetto la giornata, poi, con il laborioso rituale 
                  di una Torino che ha elevato il proprio provincialismo a vezzo 
                  sottilmente intellettuale, la visita al quotidiano del padrone 
                  e il pranzo al Cambio, simbolo decisamente retrò, tra 
                  agnolotti e decori un po' appassiti. 
                  Oggi i ricchi mangiano altrove. Tra gelatine e frullati, odori 
                  e suggestioni anche il cibo si smaterializza, si fa gioco di 
                  inganni, esperienza estetica. 
                  Non poteva mancare la commozione dell'operaio che ricorda la 
                  stretta di mano nel giorno della pensione, il ringraziamento 
                  per i 40 anni di vita rubata, la memoria di un giorno indimenticabile. 
                  Sembra Guareschi in noir. 
                  La “nuova” Torino resta sullo sfondo, impalpabile. 
                  Ci sono voluti trent'anni per piegare la classe operaia di questa 
                  città, quella che tante volte ha fatto tremare i padroni. 
                  La Fiat ha vinto. La Fiat dei reparti confino, delle schedature 
                  di massa, dei contaminuti, la Fiat di Gianni Agnelli. Ha vinto 
                  una classe operaia che tante volte l'aveva sfidata, il proprio 
                  sogno tra le mani. 
                  La mega fabbrica modellata come panopticon capitalista, dove 
                  il disciplinamento dei corpi era importante quanto la produzione, 
                  era sfuggita come il mostro di Frankenstein al controllo del 
                  suo creatore, divenendo il luogo privilegiato dove si costruiva 
                  una comunità in lotta, capace poi di ritrovarsi nei quartieri 
                  disegnati intorno alle fabbriche. 
                  La Fiat si è lasciata Torino alle spalle ma ha ancora 
                  bisogno del fantasma della Fabbrica pesante, della fabbrica 
                  che incide il territorio, per portare a termine la transizione. 
                  E per celebrare la propria vittoria. 
                  Oggi nelle periferie schiacciate dalle ricette contro la crisi 
                  il ricatto del lavoro è una cappa pesante. Il disciplinamento 
                  dei lavoratori immigrati ha fatto da modello per il disciplinamento 
                  di tutti i lavoratori, scommettendo sulla guerra tra poveri 
                  e sulla paura. 
                  Nei quartieri dove arrivare a fine mese non è mai stato 
                  facile, tanti non ce la fanno a pagare il fitto e il mutuo, 
                  rischiando di finire in strada. A Torino si moltiplicano gli 
                  sfratti, mentre ci sono 150˙000 appartamenti vuoti. Le banche 
                  si prendono le case di chi resta senza lavoro. Poco a poco la 
                  rassegnazione cede il passo alla voglia di reagire: tra resistenza 
                  agli sfratti e occupazioni abitative lo spazio sociale trova 
                  una diversa trama di pratiche e di relazioni. 
                  Nelle periferie dove la vita è più difficile comincia 
                  a sentirsi un'aria nuova. Per ora è solo un borbottio, 
                  una lieve effervescenza, un'invettiva lanciata tra i banchi 
                  del mercato di piazza Cerignola, tra i vecchi dell'immigrazione 
                  di ieri e i ragazzi di quella di oggi. 
                  Qui, in un sabato di gennaio, con una mostra montata su un trabiccolo 
                  di cassette per la frutta che raccontava delle baracche di Rosarno, 
                  del cottimo, dei caporali, della rivolta, qui abbiamo incontrato 
                  gente capace di memoria, la memoria delle lotte dei propri padri 
                  braccianti, del proprio lavoro nella città della Fiat, 
                  gente consapevole che cambiare si può solo con la lotta. 
                  Qui è bastato arrivare e quelli della Lega, con la loro 
                  propaganda, si sono dileguati senza che ci toccasse spendere 
                  una parola. 
                  Alle spalle del mercato, la scuola elementare cade a pezzi. 
                  Lì ho imparato a stare ferma nel banco, ho scoperto che 
                  non tutti parlavano la stessa lingua, chi non parlava quella 
                  giusta restava indietro e finiva nelle classi differenziali. 
                  Intorno le case sono le stesse di cinquant'anni fa. La fatica 
                  di vivere anche. I volti sono quelli giovani degli immigrati 
                  da ogni dove, quelli più anziani che la valigia l'hanno 
                  presa quarant'anni fa. 
                  Un anziano mi racconta della gente che raccoglie le verdure 
                  lasciate a terra dopo il mercato. Ogni giorno sono di più. 
                  Qui Agnelli lo ricordano tutti. Ma nessuno lo rimpiange. 
                  Maria Matteo  |