rivista anarchica
anno 43 n. 378
marzo 2013


Torino

Il fantasma della Fabbrica

di Maria Matteo


La città industriale per eccellenza come emblema della trasformazione della fabbrica: da quella pesante, ingombrante e invasiva alla fabbrica “smaterializzata”, retta dai nuovi imperativi: mobilità, leggerezza, riciclo. Attenzione però a non cadere nella trappola.


Sembrava un dagherrotipo di altri tempi. Colori sfumati sul grigio, quasi un'immagine da prima repubblica da telegiornali in bianco e nero. Le vecchie foto dell'avvocato e quelle dei suoi eredi si mescolavano in un mélange sapiente.
Dieci anni dopo la sua morte Gianni Agnelli, che pure ha segnato la transizione al post capitalismo, è l'emblema di un modello ormai scomparso. Il modello della fabbrica pesante, della fabbrica che si fa città e modella intorno a sé lo sviluppo urbano: basta guardare la pianta di Torino per rendersene conto. L'area che delinea gli stabilimenti di Mirafiori è enorme, un gigantesco quadrato che ci racconta una storia con la sola arroganza del proprio esserci.
La storia di una grossa scatola di cemento e acciaio che ha segnato il destino di un'intera città. Tante di queste scatole sono scomparse, cancellate dalla nuova città del turismo e dei servizi immaginata dai sindaci di centro sinistra, tanto bravi nel piacere ai padroni di sempre.
Centri commerciali, uno in fila all'altro, hanno sostituito l'area delle fabbriche a ridosso della Dora. Del vecchio Lingotto non rimane che la pista sul tetto e la sala riunioni, la cupola trasparente con la piattaforma per l'atterraggio degli elicotteri. Il resto è padiglioni espositivi, alberghi, negozi, uffici.
È la “nuova” Torino, tutta immagine, con le cattedrali olimpiche che si sono mangiate i servizi sociali ma hanno proiettato la Mole in giro per il mondo. È la Torino del grattacielo della Banca, il pegno pagato dall'amministrazione Chiamparino per i soldi ottenuti per le sue cento vetrine.
Mirafiori c'è ancora ma è quasi vuota. Dei 120˙000 operai di un tempo non ne restano che cinquemila, in buona parte chiusi nell'agonia della cassa. Mirafiori è il mero simbolo di un potere le cui leve sono altrove.
La fabbrica si è smaterializzata. È andata dove il lavoro costa meno, si è ridefinita sulle previsioni del momento. Oggi nessun “imprenditore” di buon senso possiede i capannoni o le macchine utensili, nessuno assume direttamente addetti alle pulizie, alla manutenzione o al trasporto. Tutto si fa con leasing e appalti. Le industrie manifatturiere hanno perso tutto il loro peso, sia materiale che simbolico. Non conviene radicarsi, meglio avere le mani libere, meglio seguire il vento, cogliere l'opportunità, essere in grado di comporre e scomporre il proprio lego in pochissimo tempo.
I padroni moderni sono leggeri come piume, veloci come gazzelle, capaci di porre le proprie condizioni a qualsiasi governo, di ricattare le vite di chi lavora ed è molto meno mobile, leggero, capace di riciclarsi.
Attenzione però a non cadere nella trappola di tanta leggerezza, attenzione a credere nella favola che anche i padroni siano diventati immateriali, alla stupidaggine che l'azionariato diffuso ci faccia tutti complici della mega macchina. La cima della piramide è ancora più aguzza: lì si gode il panorama un'élite ristretta e pressoché impermeabile all'illusione della mobilità sociale, del benessere che faccia della piramide una botte.

La soglia delle cento vetrine

Per decenni governi e padroni hanno predicato la stessa ricetta ai lavoratori: flessibilità, adattabilità, aggiornamento, velocità.
La predica si è incisa nelle leggi ed ha disegnato il nostro oggi. A sinistra i post comunisti e i neoliberali ci insegnano che la lotta di classe è roba dell'altro secolo. Il guaio è che spesso hanno ragione: quando una classe stravince la lotta è finita. Questione di rapporti di forza, questione di un immaginario dove oltre alla vittoria del padrone, c'è la rassegnazione dello schiavo, o, peggio, il suo amore per la servitù, nell'unico mondo possibile desiderabile, quello dove il domani è nell'eterno ritorno dell'eguale, tanti colori nuovi per il supermercato globale.
Per questo al posto delle fabbriche hanno messo i centri commerciali, specchio deformato di una città che non ha più i propri luoghi. Un gioco che di questi tempi si fa sempre più sul filo del rasoio, rischiando di incidere a fondo le proprie carni.
Troppi passeggiano nella nuova Torino senza mai varcare la soglia delle sue cento vetrine. Lo spettro di Mirafiori che chiude è la porta aperta sulla paura che può farsi rabbia, che rischia di debordare, incrinando la vetrina. La nuova Torino è fragile.
La dirigenza Fiat ha voluto celebrare Gianni Agnelli, nel decimo anniversario della sua scomparsa, rievocando i tempi della fabbrica pesante, quella che schiaccia ma non va via.
È venuto il presidente della Repubblica, il post comunista Napolitano, il vescovo Nosiglia ha celebrato la messa, il tristo Fassino ha benedetto la giornata, poi, con il laborioso rituale di una Torino che ha elevato il proprio provincialismo a vezzo sottilmente intellettuale, la visita al quotidiano del padrone e il pranzo al Cambio, simbolo decisamente retrò, tra agnolotti e decori un po' appassiti.
Oggi i ricchi mangiano altrove. Tra gelatine e frullati, odori e suggestioni anche il cibo si smaterializza, si fa gioco di inganni, esperienza estetica.
Non poteva mancare la commozione dell'operaio che ricorda la stretta di mano nel giorno della pensione, il ringraziamento per i 40 anni di vita rubata, la memoria di un giorno indimenticabile.
Sembra Guareschi in noir.
La “nuova” Torino resta sullo sfondo, impalpabile.
Ci sono voluti trent'anni per piegare la classe operaia di questa città, quella che tante volte ha fatto tremare i padroni.
La Fiat ha vinto. La Fiat dei reparti confino, delle schedature di massa, dei contaminuti, la Fiat di Gianni Agnelli. Ha vinto una classe operaia che tante volte l'aveva sfidata, il proprio sogno tra le mani.
La mega fabbrica modellata come panopticon capitalista, dove il disciplinamento dei corpi era importante quanto la produzione, era sfuggita come il mostro di Frankenstein al controllo del suo creatore, divenendo il luogo privilegiato dove si costruiva una comunità in lotta, capace poi di ritrovarsi nei quartieri disegnati intorno alle fabbriche.
La Fiat si è lasciata Torino alle spalle ma ha ancora bisogno del fantasma della Fabbrica pesante, della fabbrica che incide il territorio, per portare a termine la transizione. E per celebrare la propria vittoria.
Oggi nelle periferie schiacciate dalle ricette contro la crisi il ricatto del lavoro è una cappa pesante. Il disciplinamento dei lavoratori immigrati ha fatto da modello per il disciplinamento di tutti i lavoratori, scommettendo sulla guerra tra poveri e sulla paura.
Nei quartieri dove arrivare a fine mese non è mai stato facile, tanti non ce la fanno a pagare il fitto e il mutuo, rischiando di finire in strada. A Torino si moltiplicano gli sfratti, mentre ci sono 150˙000 appartamenti vuoti. Le banche si prendono le case di chi resta senza lavoro. Poco a poco la rassegnazione cede il passo alla voglia di reagire: tra resistenza agli sfratti e occupazioni abitative lo spazio sociale trova una diversa trama di pratiche e di relazioni.
Nelle periferie dove la vita è più difficile comincia a sentirsi un'aria nuova. Per ora è solo un borbottio, una lieve effervescenza, un'invettiva lanciata tra i banchi del mercato di piazza Cerignola, tra i vecchi dell'immigrazione di ieri e i ragazzi di quella di oggi.
Qui, in un sabato di gennaio, con una mostra montata su un trabiccolo di cassette per la frutta che raccontava delle baracche di Rosarno, del cottimo, dei caporali, della rivolta, qui abbiamo incontrato gente capace di memoria, la memoria delle lotte dei propri padri braccianti, del proprio lavoro nella città della Fiat, gente consapevole che cambiare si può solo con la lotta.
Qui è bastato arrivare e quelli della Lega, con la loro propaganda, si sono dileguati senza che ci toccasse spendere una parola.
Alle spalle del mercato, la scuola elementare cade a pezzi. Lì ho imparato a stare ferma nel banco, ho scoperto che non tutti parlavano la stessa lingua, chi non parlava quella giusta restava indietro e finiva nelle classi differenziali.
Intorno le case sono le stesse di cinquant'anni fa. La fatica di vivere anche. I volti sono quelli giovani degli immigrati da ogni dove, quelli più anziani che la valigia l'hanno presa quarant'anni fa.
Un anziano mi racconta della gente che raccoglie le verdure lasciate a terra dopo il mercato. Ogni giorno sono di più.
Qui Agnelli lo ricordano tutti. Ma nessuno lo rimpiange.

Maria Matteo