rivista anarchica
anno 43 n. 378
marzo 2013


Catalogna

Cavalcare la tigre nazionalista

di Steven Forti / foto AFA - Archivi Fotografici Autogestiti


Il binomio “nazionale e sociale”, tornato in auge nel dibattito spagnolo, genera inquietanti echi storici e non poche preoccupazioni.
La questione catalana dalla Diada dell'11 settembre al nuovo governo di Artur Mas.


“Non ci può essere un progetto nazionale senza un progetto sociale e non ci può essere un progetto sociale senza un progetto nazionale”. Un progetto che come obiettivi futuri per il paese ha “il benessere, la giustizia e le libertà nazionali”. Questo è stato il punto chiave del messaggio di fine anno di Artur Mas, il presidente della Generalitat de Catalunya, rieletto a fine novembre. Una frase che, nella sua apparente chiarezza, nasconde molte ambiguità e, soprattutto, una volontà politica ben diversa. Come si spiega che un politico di destra come Mas inneggi ad un progetto sociale e al welfare state dopo essere stato nell'ultimo biennio uno dei campioni europei dei tagli nel sociale, dell'austerity e delle politiche più spiccatamente neoliberiste (i tagli sono stati del 10,5 per cento alla sanità, dell'11,5 per cento all'istruzione, del 16 per cento all'università e del 61 per cento alla cooperazione e allo sviluppo)?
Lo scorso 11 settembre, giorno della Diada, la festa nazionale catalana, oltre un milione di persone sono scese in strada a Barcellona. In testa al corteo si leggeva: “Catalogna: nuovo Stato d'Europa”. La manifestazione convocata dall'Assemblea Nazionale Catalana – una piattaforma indipendentista di recente fondazione – è stata fatta propria dal governo di Artur Mas che in un battibaleno è passato dalla rivendicazione di un “patto fiscale” con Madrid alla scelta secessionista. Un'assoluta novità per Convergència i Unió (CiU) che dalla sua fondazione è sempre stato un partito autonomista, moderato e pragmatico, e che ha patteggiato con facilità con chiunque governasse a Madrid. Semplificando: l'indipendenza come soluzione ad ogni problema politico, sociale e, di questi tempi, soprattutto economico. Ricordiamo solo, en passant, che i tassi di disoccupazione in Spagna hanno superato il 25 per cento (quella giovanile è ben oltre il 50), che nel 2012 sono stati convocati due scioperi generali (in un paese in cui i sindacati non sono molto avvezzi a quest'arma) e che in primavera il paese è praticamente stato “salvato” dal Bce (anche se il capo del governo del Partido Popular, Mariano Rajoy non si è ancora deciso a ufficializzare la richiesta alle istituzioni europee). Per dirla in parole povere: la Cina è vicina e... la Grecia è proprio dietro l'angolo. La Catalogna, uno dei motori economici della penisola iberica, non presenta un quadro diverso, tanto che in estate ha dovuto chiedere un salvataggio di oltre 5 miliardi di euro allo Stato spagnolo per poter rifinanziare importanti quote del proprio debito pubblico in scadenza in questi mesi. Per non parlare di un altro dei nodi gordiani della crisi spagnola: la bolla immobiliare con annessi e connessi, ossia il fenomeno della speculazione edilizia e finanziaria e il drammatico problema dei mutui e degli sfratti. Due soli dati per capire la gravità del problema: nel 2012 in tutta la Spagna sono stati eseguiti di media oltre 550 sfratti al giorno e nella sola Catalogna vi sono oltre 80 mila appartamenti sfitti in mano a banche “salvate” dallo Stato spagnolo. Aggiungiamoci i casi di corruzione che hanno coinvolto importanti dirigenti di CiU – come lo stesso segretario Oriol Pujol – ed ecco allora che il “Madrid nos roba” diventa un leitmotiv utile per tutto e il contrario di tutto. Si badi bene: una riforma dell'Estado de las Autonomías nato dalla Costituzione spagnola del 1978 è più che logico e per diversi protagonisti auspicabile, ma ciò non si ottiene fomentando i rispettivi nazionalismi – tanto quello catalano come il solito becero nazionalismo spagnolo – e scaricando le colpe sull'Altro.

Artur Mas, presidente della Generalitat de Catalunya

Venire a patti

Artur Mas ha voluto cavalcare la tigre nazionalista, ergendosi a paladino dell'indipendenza catalana e iniziando una campagna di bombardamento dell'opinione pubblica in una maniera mai vista prima, utilizzando la televisione pubblica (Tv3) e i media del potente Grupo Godò che possiede lo storico quotidiano “La Vanguardia” e che ha ottenuto ingenti finanziamenti da parte del governo catalano nell'ultimo biennio. Nel frattempo, a Madrid la destra mediatica spagnolista faceva lo stesso fomentando la catalanofobia. Dopo la riunione del 20 settembre con Rajoy che si è risolta con un nulla di fatto, Mas ha sciolto il Parlamento catalano e ha convocato nuove elezioni. L'obiettivo era ottenere la maggioranza assoluta (che i sondaggi consideravano possibile) e avere le mani libere per altri quattro anni di governo. Il 25 novembre i risultati sono stati ben altri: batosta per CiU che con 12 seggi in meno (da 62 a 50) rimane comunque il partito più votato e vittoria morale per Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), partito indipendentista di centro sinistra, che passa da 10 a 21 seggi e diventa l'ago della bilancia della politica catalana. Dopo la fine dello zapaterismo, i socialisti continuano ad affondare (da 28 a 20 seggi), la destra spagnolista del Partido Popular passa a 19 seggi (uno in più di due anni fa), la sinistra ecologista post comunista di Iniciativa per Catalunya Verds (Icv) passa da 10 a 12 deputati, il centro destra spagnolista di Ciutadans triplica la sua rappresentanza parlamentare (da 3 a 9 seggi) e la Candidatura d'Unitat Popular (Cup), formazione anticapitalista indipendentista, fa il suo ingresso nel Parlamento con 3 deputati, raccogliendo oltre 120 mila voti.
Che valutazione si può fare? Brevemente: che la macelleria sociale non paga e Mas se ne è dovuto rendere conto la sera del 25 novembre e che la questione nazionale rimane comunque il nocciolo del problema. Senza maggioranza assoluta, Mas è dovuto venire a patti con Erc, che ha deciso di appoggiare dall'esterno il governo di minoranza di CiU in nome di una sorta di “fronte patriottico”. Mas ha così potuto formare un nuovo governo, essenzialmente identico al precedente, con la conferma anche di quel Felip Puig che come assessore all'ordine pubblico è stato responsabile di una durissima repressione dei movimenti sociali ed è il grande difensore a priori della polizia catalana e dell'uso delle pallottole di gomma che hanno fatto perdere la vista a varie persone nell'ultimo biennio. In cambio dell'appoggio, Erc ha chiesto garanzie su due punti: meno tagli (ma si sta approvando una finanziaria con 4 miliardi di tagli, soprattutto nella sanità, nella scuola e nella ricerca) e una chiara agenda sulla questione della secessione (nel 2014 si dovrebbe tenere un referendum per l'autodeterminazione), con una parte non esigua di finanziamenti da stanziare per “internazionalizzare” la causa catalana e ottenere un riconoscimento europeo con l'obiettivo di una Catalogna indipendente accettata nella Ue. Fantapolitica? Abbastanza.

Barcellona - Artur Mas nel Parlamento catalano

Ecco spiegato quindi il discorso di fine anno di Mas: sociale e nazionale non possono che andare mano nella mano. Un tentativo di unire il fronte catalanista dalla destra di CiU alla sinistra anticapitalista della Cup, passando per l'alleato di governo Erc. O detto più brutalmente: procedere con le politiche neoliberali coinvolgendo e responsabilizzando con il mito indipendentista anche la sinistra che, detto tra noi, non si fa pregare. Anzi, ci va a nozze. È solo voglia di contare qualcosa? O, più semplicemente, si tratta della subordinazione della questione sociale a quella nazionale? Da storico dell'Europa interbellica e dei fascismi, l'associazione di sociale e nazionale mi rimanda a cose non particolarmente piacevoli. Mi si dirà che anche i Fronti Popolari e le formazioni partigiane non negavano la patria e la nazione. Sono d'accordo. Però le parole di Mas – e molte delle dichiarazioni dei suoi alleati di governo della sinistra catalana – mi hanno ricordato un discorso di Paul Marion, ministro dell'Informazione nel governo collaborazionista di Vichy. Marion proveniva dalle file del Pcf e la sua traiettoria ricorda quella di altri dirigenti politici di sinistra che abbracciarono il fascismo nell'Europa interbellica come i conosciuti casi di Jacques Doriot o di Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Pcd'I nel gennaio del 1921 che finì appeso per i piedi alla pompa di benzina di Piazzale Loreto accanto a Mussolini e a Claretta Petacci la mattina del 29 aprile del 1945. Un discorso pronunciato da Marion a Tolosa nel gennaio del 1942 e che aveva per titolo proprio Révolution nationale, révolution sociale che cominciava con queste parole: “A la vérité, Révolution nationale et Révolution sociale sont deux idées non seulement complémentaires, mais qui représentent aujourd'hui les deux aspects du même problème, celui de notre résurrection comme peuple et comme pays.”
L'union sacrée di socialismo e nazionalismo è già molto nota – o dovrebbe esserlo – per non destare diffidenza e sospetti in chi possiede una visione della società non nazionalista escludente e non gerarchica.

Steven Forti