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 cultura  
 
Un mondo allucinante 
e disperato, a Mosca 
                     Ammetto di essere stata attratta dallo pseudonimo dell'autore, 
                      quando ho visto esposto questo romanzo (DJ Stalingrad, Esodo, 
                      Roma 2012, pagg. 110, e 12,00 www.elliotedizioni.com) 
                      tra le novità più interessanti della biblioteca comunale 
                      del Parco Sempione di Milano. Stalingrado rievoca la vittoria 
                      contro il nazifascismo che, in tempi in cui portiamo a casa 
                      troppe sconfitte e perdiamo diritti duramente conquistati, 
                      rincuora e incoraggia a combattere un nemico che ha solo 
                      cambiato volto. Ma ricorda anche la bella canzone degli 
                      Stormy Six, e quindi la giovinezza mia e quella di molti 
                      di noi, e un tempo in cui abbiamo sperato di sconfiggerlo 
                      definitivamente, questo mostro dalle mille teste. E che 
                      un giovane anarchico moscovita abbia assunto il nome di 
                      questa città come pseudonimo (Dj immagino si riferisca alla 
                      sua attività di musicista), mi fa pensare a un filo rosso 
                      che, nonostante tutto, non si spezza, e ci conduce nella 
                      misteriosa e poco conosciuta Russia post sovietica. 
                      Il romanzo getta una luce nuova ai più, raccontandoci una 
                      realtà, e qui sta la sua grandezza, che non riguarda solo 
                      la neo federazione, ma anche l'apparentemente più tranquilla 
                      Europa, e per certi aspetti universale. Raccontato in prima 
                      persona, narra le vicende di un giovane musicista, di cui 
                      non compare mai il nome, e che dunque chiamerò P (Protagonista), 
                      dalla sua prima esperienza appena adolescente al suo espatrio, 
                      qualche anno dopo. 
                      L'esordio consiste nell'omicidio gratuito di un ragazzo 
                      perbene, che se ne gira tranquillo per strada, cui P riduce 
                      la testa in poltiglia con un tubo di ferro “per vendicarmi 
                      su questo frocetto di tutti quelli come me, imbecilli, dei 
                      miserabili, dei malati … di tutti gli sfigati che 
                      costituiscono una percentuale assurda della merdosa popolazione 
                      del nostro paese”. 
                      Ma già su questo punto l'autore ci mette in guardia nella 
                      prefazione: “Hanno scritto tutti che si tratta di 
                      un libro sulla ribellione contro la normalità … dov'è 
                      che vedete la normalità in Russia? Per fare un esempio, 
                      una parte dei miei amici è “normale” e una parte 
                      no … la percentuale di chi è finito dentro è maggiore 
                      tra i “normali”. Perché era la loro vita ad 
                      essere anormale: più precisamente, brutta”. La violenza 
                      sembra regnare ovunque: nelle bande giovanili che si scontrano 
                      nel metro, nelle stazioni, ai concerti con ogni genere di 
                      arma, cocci di bottiglia e pistole, pugnali e persino machete, 
                      devastandosi reciprocamente i corpi, a volte fino alla morte; 
                      ma anche negli ospedali, nelle carceri, nei cellulari della 
                      polizia, nelle fabbriche. 
                      Quello dipinto dall'autore è un mondo allucinante e disperato, 
                      che ricorda alcuni romanzi e racconti di Philip Dick (per 
                      chi non ricorda, autore dello splendido Le pecore elettriche 
                      quando dormono sognano?, a cui si è ispirato un po' 
                      troppo liberamente il film Blade Ranner). Su questa 
                      umanità dolente, così come su se stesso, P getta uno sguardo 
                      compassionevole, quasi evangelico; e i suoi amici Sergej, 
                      Fedja, Kolja sarebbero potuti comparire tra i reietti cantati 
                      da Fabrizio De André. 
                      La cosa drammatica che emerge dal romanzo è che non c'è 
                      speranza, che tutte le promesse dei neocapitalisti si sono 
                      rivelate solo illusioni: “Tutto ciò che davvero bisogna 
                      ottenere nella vita è non diventare barboni, invalidi o 
                      pazzi dichiarati, e morire in maniera rapida e senza sofferenza” 
                      è l'amara conclusione di P, che tuttavia troverà una via 
                      d'uscita …. non vi dico quale per non privarvi del 
                      piacere della scoperta e della lettura. La scrittura è essenziale, 
                      ma ogni frase, ogni parola pesano. 
                      Esodo è un romanzo atroce e commovente, bellissimo, 
                      di quelli che dispiace quando si arriva all'ultima pagina, 
                      e soprattutto che lasciano il segno. Dell'autore sappiamo 
                      solo che è un musicista moscovita, autore di azioni-bliz 
                      di matrice anarchica. Dopo la pubblicazione di Esodo 
                      è dovuto fuggire dalla Russia, perché ricercato dalla polizia 
                      (quanta paura può fare un piccolo romanzo!); attualmente 
                      vive in Finlandia, dove ha chiesto asilo politico. 
                       
                      Sandra D'Alessandro 
                      
                       
                       
                        
                    Attualità 
di Carlo Pisacane 
                     Da lunghi anni il lavoro di scrittura di Giuseppe Galzerano 
                      fa il paio con quello di editore militante e coraggioso, 
                      dedito a stampare volumi su moti rivoluzionari, teorie libertarie, 
                      storie locali di movimenti politici, biografie di uomini 
                      che hanno immolato la propria vita per la libertà. E bene 
                      ha fatto il professore salernitano (vive nel Cilento, a 
                      Casalvelino) a ristampare, dopo la prima edizione del 2002, 
                      il tosto ed audace saggio La Rivoluzione (Galzerano 
                      editore, Casalvelino Scalo . Sa – pagg. 420, euro 
                      20,00). Il volume fu pubblicato per la prima volta a Milano, 
                      tre anni dopo i tragici eventi della Spedizione di Sapri, 
                      in cui Pisacane trovò la morte (era il 2 luglio del 1857) 
                      per mano dei contadini di Sanza. Letto oggi ci aiuta a confutare 
                      del tutto certe pittoresche costruzioni storiche sul tragico 
                      moto di Pisacane e a spazzare la polvere del tempo sul pensiero 
                      di uno degli artefici di quel processo unitario e risorgimentale 
                      che doveva essere e che, purtroppo, non fu perché uscì vincente 
                      poi la linea cavouriana e dei Savoia. Terzo libro dei “Saggi 
                      storici-politici-militari sull'Italia”, “La 
                      Rivoluzione” articola tutto il pensieroa narco-socialista 
                      dell'ex-ufficiale delle milizie borboniche, il quale sposò 
                      la causa di un' Italia unita che, però, escludesse il passaggio 
                      da un governo all'altro, dalla monarchia dei Borboni a quella 
                      dei Savoia. Il “fare l'Italia” con la rivoluzione 
                      secondo Pisacane voleva dire portare i ceti più bassi alla 
                      rivolta per liberarli dalla morsa delle ristrettezze e della 
                      schiavitù, dai monopoli dei poteri, dai privilegi e dal 
                      dominio dell'uomo sull'uomo. 
                    
                       
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                        Carlo 
                            Pisacane (Napoli, 22 agosto
                            1818-Sanza, 2 luglio 1857)  | 
                       
                     
                     Un'ardita testa pensante, un teorizzatore di altissimo 
                      profilo fu Pisacane, che, però, non separerà mai la teoria 
                      dalla prassi:credeva che quanto fosse racchiuso in un nucleo 
                      teorico doveva trovar sfogo, inevitabilmente, nell'azione, 
                      in un moto che “desse adito” al conflitto sociale. 
                      Per quanto rispettoso delle posizioni di Mazzini ne prese 
                      le distanze (anche perché avverso alla religione) e, tuttavia, 
                      egli vedeva nella ribellione alla tirannia, nella rivoluzione 
                      – che non poteva non avere in quell'epoca altro spiegamento 
                      se non nel ricorso alle armi – l'unico strumento per 
                      cambiare la Nazione e mettere le basi di una nuova società. 
                      Una società in cui la libertà poteva avere un senso se trovava 
                      gamba d'appoggio nell'affermazione dei principi di uguaglianza, 
                      nel riscatto sociale di chi soffriva una condizione di schiavitù. 
                      Cambiare il Paese è quello che voleva Pisacane, ma era necessario 
                      rimuovere ( e qui viene fuori il perno del suo pensiero 
                      libertario ) la gestione amministrativa del governo in quanto 
                      espressione (istituzionale e codificata) di quel capitale 
                      che sfruttava il lavoro e si arricchiva sulle “gravezze 
                      pagate dai cittadini”. “Per Pisacane – 
                      scrive Giuseppe Galzerano nell'introduzione – la soluzione 
                      politica ai mali dell'autorità è l'abolizione del governo”, 
                      ossia il trionfo dell'anarchia come unico modello di governo 
                      giusto e sicuro. Di certo il pensiero di Pisacane nella 
                      pagine della Rivoluzione appare datato, ma Galzerano nel 
                      riproporre il saggio (nella stessa curatela di Aldo Romano 
                      del 1957) ci permette riscoprire il primo teorico che nel 
                      nostro Paese ha costruito un progetto di socialismo-libertario 
                      su supporti teorici-scientifici. 
                      “Carlo Pisacane rimane – annota ancora Galzerano 
                      – uomo di primo piano nella storia politica e risorgimentale, 
                      è lo specchio dell'Italia del suo tempo, nella sua biografia 
                      si riflettono esigenze varie e multiformi, aspirazioni ed 
                      impostazioni ideali del popolo e della società italiana”. 
                       
                      Mimmo Mastrangelo 
                      
                       
                       
                        
                     Non 
                      salviamo 
il sistema!  
                     Questo periodo di profonda delusione economica produce, 
                      da tre anni a questa parte, un fiorire di opere che propongono 
                      buone ricette per sconfiggere la crisi e riuscire a cavarsela! 
                      Dopo spiegazioni spesso incisive della crisi, evidenziata 
                      dalla follia dei subprimes negli Stati Uniti, in 
                      generale arrivano i provvedimenti, le soluzioni o anche 
                      i programmi chiavi in mano. Con Fine della finanza 
                      (Donzelli Editore, Roma 2009, pp. 330) Massimo Amato e Lucca 
                      Fantacci si pongono da una prospettiva del tutto diversa. 
                      Essi, finalmente, si prendono il tempo di esplorare le cause 
                      profonde della crisi, affrontandola dal punto di vista etico 
                      e filosofico ed evidenziando che a essere in crisi è il 
                      ruolo del denaro. Gli autori seguono un filo cronologico 
                      per stabilire l'origine di questa crisi, partendo dal periodo 
                      attuale per risalire fino al XVI secolo. Infine, nella terza 
                      parte, Amato e Fantacci ristabiliscono il primato della 
                      politica sula finanza: “È pensabile un'altra finanza?”. 
                      Nella prima parte, “Fenomenologia”, gli autori 
                      sono indotti dalla forza della crisi – e non da un 
                      a priori ideologico – a constatare che l'attuale sistema 
                      finanziario “fatto di elementi in perpetuo aggiustamento 
                      fra loro, non ha altra stabilità che quella derivante dalle 
                      frizioni fra i suoi componenti. In questo ‘sistema' 
                      non c'è nessuna chiave di volta, e dunque nessun principio 
                      architettonico rappresentabile come tale, e quindi nessuna 
                      regola costruttiva, e quindi nessuna regola regolativa. 
                      In questo sistema la regolamentazione è la deregolamentazione”. 
                      Quest'ultima frase “non vuol dire che la finanza sia 
                      un ‘Far West' popolato da balordi e briganti, e bisognoso 
                      di sceriffi senza macchia e senza paura, ma che la regola 
                      operativa del sistema finanziario è che ogni regola, 
                      nella misura in cui è posta, tende a generare il 
                      proprio superamento mediante il suo opposto”. 
                      È proprio assumendo l'instabilità fondamentale di un simile 
                      universo che Amato e Fantacci rispondono ai quesiti che, 
                      in ultima analisi, sottendono a ogni riflessione sulla crisi. 
                      Infatti il mercato è una “costruzione dogmatica”, 
                      e non esiste altro modo di pensare il mercato che quello 
                      di scoprire le regole che ne stanno alla base. Per questo, 
                      essi rispondono a due domande: “Che cos'è propriamente 
                      il credito?” e “Che cos'è propriamente la moneta?”. 
                      Inizialmente la moneta era uno strumento al servizio dell'economia, 
                      dello scambio tra esseri umani: “La moneta non è moneta 
                      se non si riesce a far sì che circoli”. Attualmente 
                      essa rappresenta un oggetto fondamentale della finanza, 
                      una merce in sé, che si può accumulare all'infinito. Questa 
                      spirale rimanda in continuazione il regolamento dei conti 
                      – il pagamento e la chiusura dei debiti e dei crediti 
                      – rinviando sempre a un momento successivo un'operazione 
                      di azzeramento e trascinando il sistema in un non-senso, 
                      il che si concretizza in crisi sempre più profonde. “Alla 
                      luce di essa il capitalismo apparirebbe per quello che è: 
                      un sistema di mercato, certo, ma che include, fra i mercati 
                      anche ciò che potrebbe e dovrebbe restarne escluso, ossia 
                      la moneta – e non per opzione morale o ideologica, 
                      ma semplicemente perché la moneta, per poter essere al servizio 
                      del credito, deve essere istituita in modo tale da non costituire 
                      una merce.” 
                      Gli autori sottolineano il paradosso costituito dalla situazione 
                      e l'impossibilità fondamentale di risolvere la crisi: una 
                      impossibilità etica. “E tuttavia, per quanto possa 
                      procrastinarla indefinitamente, esso può propriamente abolire 
                      la chiusura dei conti, semplicemente perché non può abolire 
                      il tempo, la fine, e la morte. Se nessuno mai morisse, meglio: 
                      se gli uomini non fossero dei mortali, ossia esseri finiti, 
                      chiamati ad assumersi le loro responsabilità, questo modo 
                      di organizzare le relazioni di debito e di credito sarebbe 
                      davvero perfetto. Ma gli uomini muoiono, e proprio per questo 
                      hanno una vita economica, in cui sono chiamati a vivere 
                      del loro lavoro, e non di rendita; a pagare i propri debiti 
                      e non a rendere impossibile il pagamento dei debiti altrui; 
                      ad affrontare il rischio, e non a evitarlo; a pensare al 
                      futuro, e non a scontarlo.” 
                      La seconda parte dell'opera è altrettanto appassionante 
                      e pertinente. Andiamo indietro nel tempo, risalendo dalla 
                      situazione attuale alla radice delle decisioni che hanno 
                      comportato altre decisioni... Se, in tal modo, andiamo alla 
                      ricerca delle grandi tappe della costituzione della moneta 
                      quale oggi la conosciamo (la decisione della non convertibilità 
                      del dollaro in oro (1971), le scelte decisive di Bretton 
                      Woods (1944), il gold standard... fino alla creazione della 
                      Banca d'Inghilterra (1694) e anche prima), ecco delinearsi 
                      davanti a noi una lunga catena storica che è prima di tutto 
                      politica. 
                      Nella terza parte, “Politica”, gli autori tornano 
                      sull'attualità della crisi e aprono una prospettiva sul 
                      futuro. Il sistema capitalistico vivrà continuamente delle 
                      crisi, perché rifiuta di affrontare la base di fondo del 
                      problema, cioè il fatto che la moneta è una merce. “[...] 
                      quanto più la moneta-merce opera come fonte di fragilità 
                      del sistema, tanto più questa stessa rappresentazione circola 
                      come un'evidenza senza alternative”. 
                      Ma questo è quanto hanno deciso i detentori del potere. 
                      Per loro è meglio decidere di non decidere niente in materia 
                      e lasciare che il sistema prosegua la sua corsa devastante 
                      verso la prossima crisi – o forse, adesso che siamo 
                      in piena crisi, verso la guerra? D'altro canto, questo caos 
                      finisce per essere teorizzato. Così, in una nota (14, p. 
                      235) gli autori citano la dottrina dell'efficient breach 
                      of contract (violazione efficiente dei contratti). Questa 
                      postula che “ogniqualvolta il vantaggio economico 
                      che ho nel non mantenere la parola data in un contratto 
                      superi la penale che devo pagare per non aver rispettato 
                      le mie promesse, ho il ‘diritto' di non mantenerle”. 
                      Non è forse questo a svelarci ciò che introduce caos nelle 
                      nostre vite, dato che il Capitale detta in continuazione 
                      regole che rispetta soltanto se gli servono, ma di cui si 
                      fa beffe se lo ritiene vantaggioso? Se invece noi ci comportassimo 
                      allo stesso modo, saremmo fuorilegge, super indebitati ecc. 
                      Rimandare continuamente i pagamenti e lasciar lievitare 
                      l'indebitamento degli Stati non significa agire per la pace. 
                      Né fare la guerra. Noi viviamo in continuazione una “tregua”, 
                      tra guerra e pace, e la finanza attuale non sceglie tra 
                      l'una e l'altra – e dunque è pronta alla guerra. 
                      Ma una guerra non sarebbe vantaggiosa per alcuno Stato, 
                      anche se non è stato così per la seconda guerra mondiale, 
                      poiché gli Stati Uniti speravano di trarne profitto. Attualmente 
                      il commercio nel“villaggio globale” sembra più 
                      interessante del conflitto aperto. I più importanti Stati 
                      contemporanei non si fanno la guerra non certo perché sono 
                      morali e progressisti. Ma perché sembra loro preferibile 
                      la “seduzione economica”, la lotta mediante 
                      strumenti economici e finanziari. 
                      Gli anni e i decenni futuri sono e saranno cruciali per 
                      la risoluzione o meno di questo problema fondamentale, che 
                      condiziona la miseria di miliardi di individui, il loro 
                      asservimento, e che rende possibile tutti i sistemi di dominio 
                      di cui siamo vittime. Infine, questo saggio magistrale costituisce 
                      un invito a prendere in mano il nostro destino in tutte 
                      le sue dimensioni, ivi compresa la riflessione sulle cause 
                      profonde, storiche e politiche, che hanno consentito alla 
                      finanza di imporre le proprie regole al mondo. Vale a dire 
                      la propria assenza di regole, da cui discende questo caos 
                      etico quotidiano. Non salviamo il sistema che ci stritola! 
                       
                      Philippe Godard 
                      (traduzione di Luisa Cortese) 
                      
                       
                        
                    Sfuggire 
al regime 
                     Che in Italia di cantare non ci sia più tanta voglia non 
                      ce lo dimostra solo l'imbalsamata Sanremo “nazional-popolare”, 
                      presso la quale ormai si aspetta una canzone dignitosa con 
                      un testo audace (una Zebra a puàh?) quasi accendendo ceri 
                      alla Madonna (non alla Ciccone, a quella mitologica). 
                      La satira cantata poi è anche quella sempre più rara, tranne 
                      qualche eccezione dialettale e tentativi televisivi improntati 
                      su canzoni arcinote, come nel caso delle gag di Crozza o 
                      dei videoclip della Sora Cesira, esilaranti e amari. 
                      Un paese triste, rappresentato da uomini politici al Viagra, 
                      pre o post Tavor, deprimenti e/o depressi, governanti Tecnici 
                      o Techno governanti, RoboGov da pompe funebri il cui volto 
                      è spesso rappresentato in fotomontaggi nell'abito di boia, 
                      intenti ad ingrassare la corda. 
                      E in questo scenario … una poesia pallosa, che più 
                      non si può, dei cantastorie così mogi che al massimo ti 
                      puoi imbattere in un Celestini, che ti imbambola e poi ti 
                      butti a mare, o Paolini, che ti fa incazzare e alla fine, 
                      pensandoci bene, ne hai le scatole piene di tutti questi 
                      resoconti in prosa delle disgrazie storiche, prive di responsabili, 
                      del tuo paese. 
                      Ma insomma! Dov'è finita la poesia satirica e impegnata, 
                      breve e tagliente, romantica e irriverente, dove sono i 
                      cantastorie sanguigni che ti fanno venire voglia di restare 
                      in piazza ad ascoltare, ridere, e soprattutto che invitano 
                      alla ribellione? Dov'è la risata che “li seppellirà”? 
                      no, perché qui la fossa l'hanno già pronta per noi, e senza 
                      pensione, prima! E dove sono le rime? Non quelle da recita 
                      ma quelle che danno il ritmo alla chitarra? 
                      Riccardo Solari ci toglie questa nostalgia perché lui esiste, 
                      e ci riesce, a scrivere e cantare la satira politica. Prova 
                      ne è la sua raccolta Satirik. Rime per un regime 
                      (ed. Archivio Germinal, Carrara, 2011. archivio.germinal@gmail.com 
                      Copertina di Patrizia Diamante. 
                      Illustrazioni di Teresa Opretti e Selene Bertagnini), della 
                      quale Riccardo dà anche un saggio dal vivo se vi viene in 
                      mente di invitarlo per le strade vostra città. A me è successo 
                      di ascoltarlo, e sono andata in visibilio per la sua “Vedo 
                      tonno”, sulla dispensa dei giorni difficili del cassaintegrato 
                      opportunamente riempita di aiuti alimentari sempre uguali. 
                      Rime impegnate nella politica (“Che ne sapete voi 
                      di un'operaia/con l'occhio a fine mese, prima madre e poi 
                      massaia/che ne sapete voi, col mondo al terzo piano,/ostaggio 
                      della borsa di Milano/che ne sapete voi che invocate il 
                      sacrificio/lontano dalle case nel bunker di un ufficio …) 
                      ma anche rime che parlano di sensibilità e sentimenti (Presto 
                      o tardi conosceremo/il padre sconfitto che diventeremo.) 
                      La poesia sugli abruzzesi reduci dalla manifestazione a 
                      Roma in cui sono stati picchiati (Con un piccolo passo), 
                      quella sul mondo dell'informazione (Viaggio con bavaglio 
                      e senza il bagaglio), quella sulla crisi (… ma all'estero, 
                      da voi, cosa si vede?)… la raccolta di rime e canzoni 
                      di Riccardo, col suo talento rustico e sfacciato, con il 
                      suo rapido salire per la satira e scivolare nella poesia, 
                      è un'opera di movimento e fa venir voglia di sentirsi più 
                      vivi, ancora di più, e di uscire a cantare, a urlare, a 
                      raccontare, perché quel regime di cui il titolo non ci stringa 
                      più. 
                       
                      Francesca Palazzi Arduini 
                      
                       
                       
                        
                     Senza 
                      padroni/ 
il disco di Drowning Dog e dj Malatesta  
                     La loro etichetta EK records ha fatto uscire fino ad oggi 
                      21 lavori tutti autofinanziati con pochi dollari, i più 
                      recenti; Senza Padroni in CD e State of abuse (compilation) 
                      in venile e cd. E Drowning Dog Got no Time. 
                      Il cd “Got no time”parla di come non abbiamo 
                      tempo per le cose importanti della vita. Passiamo la maggior 
                      parte del nostro tempo a lavorare sodo, arricchendo i padroni 
                      e molto spesso producendo cose che nessuno vuole, mentre 
                      poche persone tra noi hanno veramente la possibilità di 
                      raggiungere il loro potenziale “saper fare”, 
                      quindi Got no Time è un grido per l'eliminazione di tutti 
                      i lavori inutili di cui non abbiamo bisogno nella nostra 
                      società. 
                      Altro disco importante è Mix tapes and cotton, questo sette 
                      pollici racconta l'esperienza di essere attaccato dal KKK(Ku 
                      Klux Klan) nel sudest della Florida, il tutto visto dagli 
                      occhi di un bambino e del ruolo che il razzismo ha nei quartieri 
                      dei lavoratori. 
                      Ultimo disco una produzione ibrida registrata nel nuovo 
                      studio di Dj Malatesta e Drowning Dog a Milano è Senza Padroni, 
                      un album che non da tregua all'ascoltatore una canzone più 
                      forte e incisiva dell'altra. A differenza di quello precedente 
                      registrato a San Francisco Dj malatesta e Drowning dog hanno 
                      avuto più tempo e si vede, il loro nuovo studio è dentro 
                      la loro nuova casa Milanese nel popolare quartiere di via 
                      Gola. 
                      Questo nuovo album dispone anche di contributi di un paio 
                      di altri produttori che aggiungono variazioni di stile. 
                      Le parole dei testi di Senza padroni parlano di vita quotidiana, 
                      potere, anticapitalismo, lotta di classe, rivoluzione sociale, 
                      anarchismo, amore e morte. 
                      I pezzi suggeriscono alcune possibili soluzioni ai nostri 
                      problemi economici e sociali e lanciano una forte critica 
                      alle nostre condizioni attuali, sottolineando l'importanza 
                      del rifiuto di ogni autorità. 
                    
                     Il disco si può comprare a Milano al circolo dei malfattori 
                      e alla libreria Utopia, è comunque ordinabile online scrivendo 
                      alla mail ekbooking@gmail.com 
                      oppure 
                      http://drowningdogandmalatesta.bandcamp.com/album/senza-padroni 
                    
                       
                        08. Eliminate The Position 
                            They say it's lonely at the top 
                            then get rid of it, rid of it 
                            People sipping garbage 
                            are sick of it, sick of it 
                            Never learned to share 
                            it's a give and take 
                            not a rake and make 
                            They're profiting off 
                            some misery and torture 
                            investing in this shit 
                            and saying that it's order 
                            We're pieces of cattle 
                            written up in their business plan 
                            They're holding the saddle 
                            and we thrown in the pan 
                            It's like “change” ‘yes we can' 
                            I can't buy that bit 
                            cause they still want cheap hands 
                            to clean their shit 
                            so we'll always be 
                            underpaid and overworked 
                            and that's our condition 
                            until we decide to eliminate 
                            that position. 
                            | 
                       
                     
                       
                      Andrea Staid 
                      
                       
                        
                    Hai mai truffato 
una banca? 
                    Terra lungamente contesa dall'Impero coloniale spagnolo 
                      e da quello portoghese, che ne rivendicarono vicendevolmente 
                      la scoperta e la sovranità per più di 300 anni, l'attuale 
                      Repubblica Orientale dell'Uruguay ottenne l'indipendenza 
                      il 25 agosto del 1825. A conquistare quel prezioso baluardo 
                      di libertà fu il celebre gruppo dei “Trenta y Tres 
                      Orientales” guidato dall'Ufficiale Juan Antonio Lavalleja, 
                      così passato alla storia perché formato da soli trentatré 
                      uomini che al grido di Liberar la patria o morir por 
                      ella il 19 agosto 1825 intrapresero quella “Cruzada 
                      Libertadora” tesa a riscattare la Provincia Orientale 
                      del neonato Stato brasiliano. Fu in quell'occasione che 
                      venne realizzata la bandiera riportante l'iscrizione Libertà 
                      o Morte, considerata uno dei simboli nazionali dell'identità 
                      uruguaiana. 
                      La conquista dell'indipendenza, tuttavia, non coincise affatto 
                      con l'inizio di un periodo di stabilità interna; al contrario, 
                      il paese restò in balia della lotta per il potere ingaggiata 
                      dai due principali schieramenti politici, i Blancos 
                      e i Colorados, formazioni partitiche che dovevano 
                      il loro nome alle diverse tinte delle fasce indossate durante 
                      la lunga guerra civile che li vide combattersi per quasi 
                      l'intero secolo. 
                      Con l'affermarsi del Partido Colorado al governo, la prima 
                      metà del Novecento fu segnata da una forte spinta riformatrice 
                      che portò l'Uruguay a livelli di sviluppo sociale ed economico 
                      paragonabili solo a quelli delle più avanzate nazioni europee, 
                      tanto da guadagnarsi la nomea di “Svizzera d'America”. 
                      Importanti conquiste vennero realizzate sia sul piano dei 
                      diritti civili (suffragio universale femminile; abolizione 
                      della pena di morte; legge sul divorzio; scuola elementare 
                      gratuita, laica e obbligatoria), che su quello dei diritti 
                      del lavoro (giornata di 8 ore; divieto di lavorare per i 
                      minori di 13 anni; riposo di 40 giorni per le donne incinte; 
                      assicurazione antinfortunistica obbligatoria; piano pensionistico; 
                      liquidazione), oltre che sul versante economico, dove furono 
                      intrapresi provvedimenti che dal punto di vista finanziario 
                      risultarono molto vantaggiosi, come la nazionalizzazione 
                      delle due maggiori banche del paese e dei trasporti ferroviari. 
                      In seguito alla fine della seconda guerra mondiale, nondimeno, 
                      la drastica riduzione delle esportazioni di carne determinò 
                      una forte crescita della disoccupazione e dell'inflazione, 
                      rivelando una politica economica del tutto arretrata e ancora 
                      troppo dipendente da pochi interessi vitali come quelli 
                      della produzione, della conservazione e della distribuzione 
                      della carne; mercato fondato su allevamenti estensivi e 
                      industrie frigorifere che, nella maggior parte dei casi, 
                      erano nelle mani di un ristretto gruppo di latifondisti 
                      per di più vincolati alle alte classi dirigenti della capitale. 
                      La crisi economica, sociale, e soprattutto politica che 
                      ne derivò produsse una situazione di malcontento generale 
                      che si tradusse in un aumento esponenziale del conflitto 
                      sociale, raggiungendo livelli di tensione che ben presto 
                      sarebbero sfociati nella violenza armata. 
                      Risale al 1956 la fondazione della Federazione Anarchica 
                      Uruguaiana (FAU); ai primi anni ‘60 quella del 
                      Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros (MLN-T); 
                      e rispettivamente al 1968 e al 1969 quella della Resistenza 
                      Operaia e Studentesca (ROE) e dell'Organizzazione 
                      Popolare Rivoluzionaria 33 (OPR33), entrambe bracci 
                      della FAU: politica l'una, armata l'altra. Quest'ultima, 
                      l'OPR33, balzò improvvisamente agli onori delle cronache 
                      il 16 luglio del 1969 quando rivendicò il furto dal Museo 
                      Storico Nazionale di Montevideo della bandiera originale 
                      dei “Trenta y Tres Orientales”. Quell'antico 
                      grido disperato di Libertà o Morte ritrovava così 
                      nuova voce tra le genti dei quartieri più poveri di una 
                      città che sembrava volersi concedere troppo facilmente al 
                      gioco dei grandi profitti per pochi e delle briciole per 
                      tutti gli altri. 
                      La prima parte del libro di Augusto Andrés è divisa in cinque 
                      ampi capitoli che prendono il nome da altrettanti protagonisti 
                      della storia del movimento anarchico uruguaiano. Di ognuno 
                      di essi viene tracciata una biografia essenziale, intima, 
                      per nulla accademica o manualistica, che segue le orme delle 
                      vicende e delle scelte più difficili e umanamente costose 
                      delle loro vite. Ma il filo di ogni storia si intreccia 
                      inevitabilmente con quello di tutte le altre per tessere 
                      una preziosa tela della memoria che – maledizione 
                      di Penelope – la notte del tempo, ma soprattutto la 
                      voragine della dittatura con il suo carico di terrore e 
                      morte, ha cercato in tutti i modi di disfare. Eppure, a 
                      dispetto dell'angosciante necrologio che chiude le pagine 
                      di questo libro, non abbiamo tra le mani le tristi cronache 
                      del dolore di un sopravvissuto ma, al contrario, l'antologia 
                      di una passione mai sconfitta, racconto di un'umanità altra 
                      che è ancora viva nei ricordi e nei sogni dell'autore, protagonista 
                      anch'egli di un tempo in cui utopia e Storia sembravano 
                      tenersi per mano con la stessa autentica solidarietà che 
                      unisce i diversi personaggi di queste vicende. 
                      Persino la struttura narrativa del testo, in qualche modo, 
                      segue il passo concitato dei ricordi affidando la cronologia 
                      degli eventi alle suggestioni che di volta in volta la memoria 
                      offre. Non ci si sorprenda, dunque, se il tempo dell'azione 
                      si prodiga in generose acrobazie spostando improvvisamente 
                      l'attenzione del lettore su avvenimenti a prima vista non 
                      attinenti e lontani negli anni rispetto a quelli appena 
                      trattati: ogni vicenda narrata, infatti, è l'istantanea 
                      di un album infinito che l'eco del tempo sfoglia incessantemente. 
                      Nondimeno, ognuna di queste vicende continua a far parte 
                      di un'unica storia, un unico sogno di libertà come quello 
                      realizzatosi nel 1971 a Punta Carretas quando, grazie ad 
                      un lungo tunnel scavato dai Tupamaros, scapparono dal carcere 
                      centosei prigionieri politici, anarchici compresi: un record 
                      nella storia dell'evasione. Con il passare degli anni, poi, 
                      molti di quei fuggiaschi avrebbero conquistato la fiducia 
                      di gran parte della popolazione ottenendo conferme politiche 
                      che fino a qualche tempo prima sarebbero state inimmaginabili. 
                      È il caso ad esempio di José Mujica, ex guerrigliero dell'MLN-T 
                      ed attuale presidente della Repubblica Uruguaiana. Ma il 
                      segno dei tempi si rivela in tutta la sua originalità anche 
                      nell'ultima peripezia che ha visto per protagonista il carcere 
                      di Punta Carretas, trasformato nel 1994 in un immenso centro 
                      commerciale. 
                      Prima ancora, con l'avvento del colpo di stato di Juan M. 
                      Bordaberry nel giugno del 1973, in tanti, tra anarchici, 
                      comunisti, Tupamaros e dissidenti vari, avevano deciso di 
                      espatriare in Argentina, nella vicina Buenos Aires, dove 
                      avrebbero continuato la loro lotta per la giustizia sociale. 
                      Nemmeno tre anni più tardi, però, anche l'Argentina sarebbe 
                      caduta sotto il pugno di una feroce dittatura, e così, molti 
                      di coloro che riuscirono a scampare alla dura repressione 
                      che fu messa in atto dalla Giunta militare guidata da Jorge 
                      R. Videla, scelsero nuovamente la via dell'esilio, questa 
                      volta però trovando rifugio in Europa, soprattutto – 
                      come l'autore – in Francia. Tanti altri, invece, e 
                      tra questi anche alcuni dei protagonisti di queste pagine, 
                      finirono in uno dei numerosi Centri Clandestini di Detenzione, 
                      come quello ricavato nella sede della concessionaria “Orletti”, 
                      dove più di 300 persone furono sequestrate e brutalmente 
                      torturate nel quadro della famigerata “Operazione 
                      Condor”. Della maggior parte di queste non si ebbe 
                      mai più notizia e i loro nomi andarono ad aggiungersi a 
                      quelli delle migliaia di desaparecidos latinoamericani. 
                      Nella seconda parte del libro, dunque, Augusto Andrés ci 
                      porta a Parigi, tra le diverse comunità in esilio, per raccontarci 
                      un intervallo di tempo che va dal 1976 al 1985, anche se 
                      non mancano brevi riferimenti alla guerra civile spagnola, 
                      alla Comune o alla rivoluzione cubana. Protagonista assoluto, 
                      qui, è Lucio Urtubia, che combatte la sua guerra nelle filiali 
                      delle banche d'Europa – e non solo – con innocue 
                      munizioni di carta: riproduzioni perfette di travellers 
                      cheques americani. Un affare milionario con il quale finanzia 
                      le più diverse organizzazioni del mondo: dall'ETA alle Black 
                      Panthers, da Action Directe ai vari gruppi guerriglieri 
                      sudamericani; Tupamaros e anarchici uruguaiani compresi. 
                      È così che durante i primi anni '80 due tessere apparentemente 
                      distanti di un puzzle sempre più complicato da decifrare 
                      entrarono in contatto stabilendo nuovi sorprendenti intrecci 
                      di cosmi, storie, sogni: utopie mai dimenticate che, come 
                      il mondo nuovo di Durruti, abitano il cuore di ognuno 
                      dei personaggi di queste vicende. 
                       
                      Raúl Zecca Castel 
                    
                       
                        | 
   “Truffare 
                            una banca...che piacere! 
                            e altre storie” 
                            di Augusto ‘Chacho' Andrés 
                            pp.180 – 10,00 euro 
                             
                            È possibile truffare una delle banche più grandi della 
                            storia di 25 milioni di dollari? È fattibile inondare 
                            il pianeta con milioni di dollari falsi? Quando ci 
                            fu la prima espropriazione ad una banca per fini politici 
                            in Uruguay? 
                            Questo libro racconta di fughe da carceri e caserme, 
                            di assalti a banche, sequestri, truffe, falsificazioni 
                            e storie di clandestinità. Sono storie senza frontiera 
                            e si svolgono in tempi differenti tra Montevideo, 
                            Buenos Aires e Parigi. Memorie di personaggi cari 
                            che non sono ‘grandi uomini', bensì persone 
                            semplici, di sentimento e passione, che in ogni fatto 
                            nel quale sono protagonisti, esprimono parte di un 
                            insieme e riflettono la società nella quale vivono. 
                            Di umili origini agiscono in sintonia con la loro 
                            appartenenza sociale. Sanno che quelli ‘di sotto' 
                            non sono ‘eguali di fronte alla Legge'. Per 
                            questo l'azione diretta, per loro, è una risposta 
                            appropriata e naturale. Queste pagine ci avvicinano 
                            ai personaggi, protagonisti della nostra Storia, che 
                            sono stati occultati dai tanti libri della storia 
                            recente. Sono vicende reali, storie politiche dei 
                            dimenticati di sempre, di lavoratori, di anarchici, 
                            in lotta permanente contro lo sfruttamento e l'oppressione. 
                            Molti dei protagonisti di queste storie morirono affrontando 
                            le forze repressive dello Stato, altri furono ‘desaparecidos'. 
                             
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                     Una 
                      moderna, 
solare Utopia  
                     Naufragato sulle coste inaccessibili dell'immaginaria 
                      isola di Pala, un viaggiatore del nostro tempo fa conoscenza 
                      con una cultura che si avvicina alla perfezione. Gli abitanti 
                      dell'isola (Aldous Huxley, L'isola, Oscar Mondadori), 
                      infatti, quasi completamente isolati da ogni contatto con 
                      l'esterno, hanno tentato di realizzare un progetto di società 
                      ideale, basata sul superamento di ogni complesso, sull'ampliamento 
                      della consapevolezza e sulla fusione armonica con la natura. 
                      Ma anche questa moderna, solare Utopia è destinata a venire 
                      travolta dalla barbara violenza della “civiltà” 
                      moderna. 
                       
                      Potrete leggere passaggi come questi:
                       
                      -  Non è possibile conquistare il potere senza compromettersi.
                      
 -  Antibiotici meravigliosi… ma assolutamente 
                      nessun metodo per accrescere la resistenza, in modo che 
                      gli antibiotici non siano necessari. Interventi chirurgici 
                      fantastici… ma quando si tratta di insegnare alla 
                      gente il modo di vivere senza essere squartati, assolutamente 
                      niente. Ed è la stessa cosa sotto ogni altro aspetto. (…) 
                      sembra che voi non facciate assolutamente niente nel campo 
                      preventivo. Eppure avete un proverbio: prevenire è meglio 
                      che guarire.
                      
 -  (…) milioni di uomini alla mercé di poche 
                      decine di uomini politici, di alcune migliaia di capitani 
                      d'industria, di generali e di usurai.
                      
 -   (…) la vostra società vi condanna a trascorrere 
                        la fanciullezza in una famiglia esclusivistica, con un'unica 
                        serie di fratelli e sorelle e una sola coppia di genitori. 
                        Vi vengono imposti dalla predestinazione ereditaria. Non 
                        potete liberarvene, non potete prendervi una vacanza lontano 
                        da loro, non potete recarvi presso nessun altro per un 
                        cambiamento di atmosfera morale o psicologica. È libertà, 
                        se proprio vuole… ma libertà in una cabina telefonica. 
                      
 -  (…) che cos'è la storia… la documentazione 
                        di ciò che gli esseri umani sono stai costretti a fare 
                        dalla loro ignoranza e dall'enorme presunzione che li 
                        induce a canonizzare la propria ignoranza come un dogma 
                        politico o religioso. 
                      
 -  L'elettricità meno l'industria pesante più il 
                      controllo delle nascite è uguale alla democrazia e all'abbondanza. 
                      L'elettricità più l'industria pesante meno il controllo 
                      delle nascite è uguale alla miseria, al totalitarismo e 
                      alla guerra.
                      
 -  Noi non ci facciamo indurire le coronarie ingozzandoci 
                      di una quantità di grassi superconcentrati sei volte superiore 
                      al necessario. Non ipnotizziamo noi stessi convincendoci 
                      che due televisori ci renderanno due volte più felici di 
                      un solo televisore. E infine, non spendiamo un quarto del 
                      reddito lordo nazionale preparandoci alla terza guerra mondiale, 
                      o anche alla sorellina della guerra mondiale, la tremiladuecentotrentatreesima 
                      guerra locale. Gli armamenti, l'indebitamento universale 
                      e lo scarto pianificato dei prodotti superati: sono questi 
                      i tre pilastri della prosperità occidentale. Se la guerra, 
                      lo spreco e gli usurai venissero aboliti, voi crollereste. 
                      E mentre voi occidentali consumate in eccesso, il resto 
                      del mondo affonda sempre più profondamente nel disastro 
                      cronico.
                      
 -  (…) rimasi scandalizzato la prima volta 
                      che lessi uno dei vostri giornali a grande tiratura. La 
                      parzialità dei titoli, la sistematica unilateralità delle 
                      notizie e dei commenti, le parole d'ordine e gli slogan 
                      invece dei ragionamenti. Nessun serio appello alla ragione. 
                      E, invece, il tentativo sistematico di inculcare riflessi 
                      condizionati nella mente dei votanti; mentre – per 
                      quanto concerne il resto – abbondavano i delitti, 
                      i divorzi, gli aneddoti, le banalità, tutto ciò che potesse 
                      essere utile a distrarre i lettori, tutto ciò che potesse 
                      servire a impedir loro di pensare.
                      
 -  (…) la delinquenza viene tuttora affidata 
                      agli ecclesiastici, ai lavoratori sociali e alla polizia. 
                      Prediche interminabili e terapia palliativa; condanne al 
                      carcere a non finire. Con quali risultati? La delinquenza 
                      non fa che aumentare.
                      
 -  Hitler è l'esempio supremo del Peter Pan delinquente. 
                      Stalin è l'esempio supremo dell'uomo tutto muscoli delinquente.
                      
 -  (…) tutti gli dei sono immaginati dall'uomo 
                        e siamo noi a tirare i fili e ad attribuire loro il potere 
                        di tirare i nostri. 
                      
 -  La gente agiata e per bene non ha idea di ciò che 
                        sia il mondo e non soltanto in circostanze eccezionali 
                        come fu durante la guerra, ma sempre. Sempre. 
                      
 -  Il credere nella vita eterna non ha mai aiutato 
                        nessuno a vivere nell'eternità. Né, s'intende, il non 
                        credere. 
                      
 -  E sempre, dappertutto, vi sarebbero stati gli ipnotizzatori 
                        urlanti o silenziosamente autoritari; e sulla scia dei 
                        distributori di suggestioni al potere, sempre e dappertutto, 
                        le tribù dei buffoni e dei trafficanti, i mentitori di 
                        professione, i fornitori di trivialità divertenti. Condizionate 
                        dalla culla, distratte senza posa, ipnotizzate sistematicamente, 
                        le loro vittime in uniforme avrebbero continuato a marciare 
                        ubbidienti e a fare dietro front; avrebbero continuato, 
                        sempre e dappertutto, a uccidere e a morire con la docilità 
                        perfetta di barboncini ammaestrati.
  
                      Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Scritto nel 
                      periodo in cui l'autore stava realizzando esperimenti con 
                      la Mescalina, “L'isola”, nel suo duplice aspetto 
                      di romanzo e di saggio, si presenta come una lucida e stimolante 
                      realtà possibile, in netta contrapposizione al suo precedente 
                      romanzo “Il mondo nuovo”, nel quale il futuro 
                      era invece rappresentato nella sua drammatica conflittualità 
                      tra dilemmi sociali ed esistenziali.
                       
                      Marco Sommariva 
                      marco.sommariva1@tin.it 
                      
                        
                    I gangster movie di Scorsese: 
riscatto sociale con revolver? 
                     Nei film di mafia di Martin Scorsese Quei Bravi Ragazzi 
                      (Goodfellas, 1990), Casino (1995) e The 
                      Departed (2006) sono presenti costanti riferimenti alle 
                      origini umili, working class o sotto-working class, dei 
                      protagonisti. 
                      In Casino Joe Pesci, introducendo il racconto delle 
                      vicende legate al casinò Tangiers di Las Vegas – 
                      gallina dalle uova d'oro per parecchi boss del Midwest dagli 
                      anni Cinquanta agli Ottanta – dice che “quella 
                      fu l'ultima volta che a dei ragazzi di strada come noi venne 
                      dato da gestire qualcosa di grosso”. 
                      In Quei Bravi Ragazzi Ray Liotta è il figlio futuro 
                      gangster di un muratore irlandese e una casalinga siciliana. 
                      Il padre “era sempre incazzato, perché prendeva una 
                      paga da fame, perché vivevamo in sette in un buco, etc.”. 
                      Inseritosi nell'ambiente della bellavita mafiosa, il figlio 
                      dileggerà apertamente il modo di vivere di quelli (come 
                      suo padre) “che prendevano la metro tutti i giorni 
                      per andare a fare lavori di merda, sempre preoccupati per 
                      i conti da pagare, etc.” liquidandoli come “gente 
                      senza palle”. 
                      In The Departed, dove il sottobosco criminale narrato 
                      non è più quello italiano di New York ma quello irlandese 
                      di Boston, Jack Nicholson dichiara in apertura di non voler 
                      essere un prodotto del suo ambiente, ma piuttosto che il 
                      suo ambiente sia prodotto da lui stesso, dichiarazione d'intenti 
                      che potremmo trovare quasi rivoluzionaria, se non fosse 
                      che l'alternativa di vita mostrata da questo e dagli altri 
                      mafia movies scorsesiani prevede sì la ribellione 
                      violenta al proprio destino di classe (il lavoro salariato, 
                      lo sfruttamento), ma nel quadro dell'accettazione degli 
                      obiettivi culturalmente sanciti come desiderabili dal sistema, 
                      ovvero sostanzialmente denaro e potere. 
                      In queste pellicole siamo di fronte a rappresentazioni di 
                      quel percorso sociale definito “devianza” in 
                      quanto i mezzi utilizzati per raggiungere l'obiettivo (rapine, 
                      omicidi, etc.) sono socialmente, e quindi giuridicamente, 
                      condannati, ma le mete culturali perseguite sono perfettamente 
                      in sintonia con l'ideologia dominante. 
                      Il gangster dunque come self-made man che realizza 
                      il suo “sogno americano” e che quindi, pur partendo 
                      da presupposti di ribellione, finisce per confermare con 
                      la sua stessa esistenza la pervasività e in ultima analisi 
                      la vittoria a livello di immaginario dell'establishment. 
                      Nella loro mimesi dei meccanismi e dei presupposti valoriali 
                      del sistema (violenza endemica, gerarchia, competizione) 
                      i mafiosi scorsesiani si trovano comunque sempre costretti 
                      in una nicchia, circondati da barriere di carattere etnico 
                      (l'essere italiani o irlandesi) che finiscono con il riprodurre 
                      perpetrando atteggiamenti razzisti (nei confronti dei neri 
                      e degli ebrei, per esempio), ovvero individuando un altro 
                      su cui esercitare dominio. 
                      E nei confronti di quella società wasp, bianca anglosassone 
                      protestante, in cui questi malavitosi cercano di emergere, 
                      c'è sempre un astio latente derivante dalla coscienza di 
                      essere nati in una posizione di subordine (il ghetto italiano 
                      o irlandese), che qua e là emerge anche quando i nostri 
                      si sono affermati (o credono di essersi affermati). 
                      Lo si vede in Casino nello scontro tra Robert De 
                      Niro – gestore di casinò a Las Vegas per conto della 
                      mafia – e il commissario della contea di Las Vegas 
                      Pat Webb – cowboy con tanto di stivaloni e cappellaccio 
                      – personificazione di quella società wasp assai 
                      restia ad accettare l'ingresso degli italians dell'est 
                      e del loro faccendiere ebreo De Niro nel suo “salotto 
                      buono”. 
                      Lo si percepisce anche nell'autoisolamento in cui si confina 
                      la “società mafiosa” di Quei Bravi Ragazzi 
                      – “eravamo sempre e solo noi, tutte le vacanze 
                      insieme, mai nessun estraneo” – o negli sfottò 
                      del boss psicopatico Frank Costello (Jack Nicholson) nei 
                      confronti di quella che a Boston è un'autorità indiscussa, 
                      la Chiesa cattolica – “la chiesa ti dice cosa 
                      devi fare, in ginocchio, in piedi... beh, se ti piace quel 
                      tipo di cose, non so che fare per te”. 
                      La contraddizione fondamentale di cui i protagonisti di 
                      queste pellicole sono vittime è l'anelito al successo in 
                      un ordine socio-culturale disprezzato nel proprio subconscio 
                      in quanto artefice di quelle condizioni di marginalità in 
                      cui i nostri sono nati. 
                      Quell'ordine non viene problematizzato sul piano, appunto, 
                      di una presa di coscienza di sé e delle cause strutturali 
                      della propria originaria marginalità, e viene quindi perpetuato 
                      a livello di immaginario individuale e di gruppo sotto-culturale, 
                      cioè la mafia, che esattamente come lo Stato mira al controllo 
                      del territorio e delle coscienze. 
                       
                      Michele Lembo 
                      
                       
                       
                        
                     La 
                      fascinazione 
dell'inganno  
                     “La fantasia al potere” è uno slogan che conoscono 
                      tutti. Non tutti, però, sanno che lo conosceva anche Napoleone, 
                      anzi, che molto probabilmente fu proprio lui a coniarlo. 
                      Nella Milano che ha conquistato, il 17 giugno del 1800 il 
                      “primo console” Bonaparte viene riconosciuto 
                      da un gruppo di prigionieri ungheresi e tedeschi che lo 
                      acclamano colmi d'ammirazione. Così annota: «Quanto è grande 
                      il potere della fantasia! Ecco uomini che non mi conoscono, 
                      che non mi avevano mai visto, che avevano soltanto sentito 
                      parlare di me; tuttavia che cosa non provano, che cosa non 
                      sarebbero in grado di fare per me! E lo stesso fenomeno 
                      si rinnova in tutte le età, in tutti i paesi, in tutti i 
                      secoli!... Ecco il fanatismo! Sì, la fantasia governa il 
                      mondo!». 
                      Uomini che non lo hanno mai visto, che solo ne hanno sentito 
                      parlare come condottiero nemico geniale e invincibile, inneggiano 
                      al futuro imperatore che – ma a questo punto sembra 
                      cosa marginale – è poi quello che ha fatto serrare 
                      loro i ceppi ai polsi. Nella favola di Andersen, uomini 
                      e donne festanti rimangono a bocca aperta di fronte al meraviglioso 
                      vestito dell'imperatore, che poi è quello che li comanda 
                      da sempre. E, davvero, è cosa marginale che, in realtà, 
                      quell'imperatore sia portato in parata nudo come un verme. 
                      È la fantasia che lo riveste, la fantasia che governa il 
                      mondo. 
                      Nell'ultimo libro di Roberto Escobar (Eroi della politica. 
                      Storie di re, capi e fondatori, Il Mulino, Bologna, 
                      2012) di fantasia ce n'è tanta. Non nel senso che Escobar 
                      faccia correre la propria, ma nel senso che l'autore traccia 
                      una dettagliata e approfondita storia della fantasia al 
                      potere, di quella fantasia che fa il potere e di 
                      quella fantasia che il potere mantiene e rinsalda. L'eroe, 
                      specie l'eroe fondatore, è “uomo eccezionale”, 
                      ma la sua eccezionalità – il suo carisma, seguendo 
                      Max Weber, non è nulla se non appare tale agli altri, a 
                      coloro che lo seguono come a coloro che lo combattono. Weber 
                      sosteneva che nel carisma vi fosse, in fondo, qualcosa di 
                      magico. Ma forse non è necessaria la magia, perché l'immaginazione, 
                      specie se incanalata e alimentata, è spesso più potente 
                      di qualsiasi sortilegio. 
                      Non tutti gli “eroi della politica” dei quali 
                      ci racconta questo libro sono eroi in carne e ossa. Lo è 
                      certo Napoleone; certo non lo è Prospero, il duca di Milano 
                      fuggiasco della Tempesta di Shakespeare, non lo è 
                      Odisseo ed è assai facile che non lo sia neppure Romolo, 
                      il fondatore per eccellenza perché della Città Eterna. Ma 
                      non importa essere veriper essere reali, come scriveva Robert 
                      Nozick ormai trent'anni fa, e si può fare in modo di essere 
                      più reali senza, per questo, diventare più veri. 
                      Ciò vale a maggior ragione per gli eroi, “le persone 
                      eccezionali” (Elias) rispetto alle quali il “si 
                      dice” e il “si racconta” finiscono per 
                      valere quanto l'aver visto con i propri occhi e l'aver appreso 
                      da fonte certa. Questo è il tratto più eccezionale della 
                      loro eccezionalità: veri o no, essi vivono nell'immaginario 
                      prima ancora che nel mondo dei piedi per terra, e proprio 
                      per questo quel mondo mette a terra anche le ginocchia 
                      dinanzi a loro, domato e addomesticato dalla sua stessa 
                      fantasia. 
                      In questo senso, allora, non è poi così tanto reale neppure 
                      il molto vero Napoleone. Ma poco importa, e tanto peggio 
                      per il mondo reale. 
                      L'eroico Napoleone venerato dagli stessi soldati – 
                      questa volta: i suoi soldati – che, si dice 
                      (ma forse pure questo è apocrifo), si vanta di potersi permettere 
                      di mandare al macello a decine di migliaia al giorno; l'eroico 
                      e altrettanto venerato Romolo, che fonda la città sull'inganno 
                      e costruisce il proprio popolo sulle fondamenta del fratricidio, 
                      del rapimento, dello stupro; ma anche l'eroico Giuseppe 
                      Flavio, che nella Guerra giuda i casi compiace dell'inganno 
                      con il quale fa uccidere l'un l'altro i suoi in un suicidio 
                      collettivo e sottrae poi se stesso alla morte che aveva 
                      loro promesso di darsi, per presentarsi ai romani come mediatore 
                      amico; o come l'eccezionale Roi Soleil, che incatena 
                      la propria più banale quotidianità – svegliarsi, lavarsi, 
                      vestirsi, sorbire il caffellatte – in un rituale d'onore 
                      al quale, onorati, partecipano in gruppi dalle entrate scandite 
                      (chi assiste al risveglio, chi alla vestizione, chi allaccia 
                      la manica destra e chi la sinistra, chi guarda il re mentre 
                      fa colazione, e così via) nobili, notabili, figli e parenti. 
                      Che cosa c'è di eccezionale in quest'ultimo banale quotidiano? 
                      C'è il medesimo eccezionale che fa inorridire Odisseo di 
                      fronte alle mostruosità che vede nella caverna del ciclope 
                      – latte, formaggio, tinozze di siero: gli stessi oggetti 
                      della capanna di ogni pastore greco – e cioè il fatto 
                      che l'altro, l'eccezionalmente diverso da noi faccia 
                      le stesse cose che facciamo noi, i normali. 
                      Come scriveva il saggio imperatore Giuliano, la finzione 
                      è in fondo quasi sempre nota, ma “tutti partecipano 
                      alla fascinazione dell'inganno”. Napoleone è il paladino 
                      dei soldati che (abbia o meno pronunciato quelle parole) 
                      manda al massacro, eppure nessuno di loro ignora la realtà 
                      della carneficina. Giuseppe stesso racconta del proprio 
                      vile inganno omicida, eppure proprio per questo si 
                      presenta come uomo probo. Non c'è limite alla potenza dell'inganno, 
                      e trattandosi di immaginazione, di “fascinazione”, 
                      non c'è neppure il limite del principio di contraddizione, 
                      della ragionevolezza, della plausibilità. 
                      Sull'altopiano, in avanscoperta dietro le linee nemiche, 
                      Emilio Lussu, guadagna un controcampo e scopre sconcertato 
                      quello che aveva sempre saputo ma al quale non aveva mai 
                      davvero pensato, cioè che i soldati austriaci quando non 
                      combattono si lavano, si fanno la barba, fumano e giocano 
                      a carte, proprio come i soldati italiani perché, in definitiva, 
                      non c'è molto di più che la divisa a differenziarli gli 
                      uni dagli altri. Odisseo, i nobili e i notabili di Francia 
                      hanno il privilegio dello stesso controcampo, ma ne ricavano, 
                      al contrario, la percezione di un'accresciuta eccezionalità, 
                      quella del diverso (mostruoso il ciclope, meraviglioso il 
                      Re Sole) che, per estrema eccentricità, non fa quelle cose 
                      diverse che dovrebbe fare ma fa ciò che facciamo 
                      noi, i normali: munge le pecore o si alza dal letto mezzo 
                      addormentato. 
                      Che cosa c'è, allora, di tanto eccezionale in questi uomini 
                      eccezionali? In fondo niente, se non che essi sono creduti 
                      tali. Napoleone ha fondato un impero, per quanto di breve 
                      durata, e questa non è certo cosa che ciascuno di noi ha 
                      mai fatto nel quotidiano. Eppure – e qui siamo in 
                      un'altra finzione, quella cinematografica dei Vestiti 
                      nuovi dell'imperatore – fuggito da Sant'Elena, 
                      nonostante passeggi impettito di fronte all'Eliseo, non 
                      lo riconosce nessuno, perché è tornato a essere soltanto 
                      un ometto corso. 
                      Gli eroi come maestri dell'inganno, dunque. Maestri come 
                      Giuseppe Flavio e come Romolo, ma anche come Nelson Mandela, 
                      che ingannava dal carcere i suoi intessendo trattative di 
                      dialogo segrete con il governo dell'apartheid, certo 
                      che sia compito di un leader fare quello che i suoi 
                      non vorrebbero mai e poi mai che venga fatto se ciò consiste 
                      in azioni delle quali lui, diversamente da loro, riesce 
                      a vedere l'utilità e l'urgenza. O maestri dell'inganno come 
                      Sisifo, che riesce a buggerare per due volte gli dèi – 
                      perfino Thanatos, la morte stessa – ricavandone una 
                      volta la fondazione di una città (l'acropoli di Corinto) 
                      e una volta stravolgendo il corso della natura incatenando 
                      la morte agli stessi ceppi che erano pronti per lui negli 
                      inferi, così che, sia pur per poco tempo, gli dèi divennero 
                      meno diversi dagli uomini, divenuti immortali anch'essi. 
                      Alla fine gli eroi muoiono, come gli altri. Muore Artù, 
                      muore Napoleone, muore Beowulf, l'uccisore di orchi divenuto 
                      re saggio, e muore Sisifo. La vendetta divina è nota: per 
                      l'eternità Sisifo sospingerà un masso su per una ripida 
                      china, con il solo risultato di farlo cadere dallo strapiombo 
                      dietro alla vetta, vederlo rotolare ai piedi del monte e 
                      dover ricominciare da capo. La vendetta è davvero diabolica 
                      e raffinata: tu che in vita hai costruito, da morto sei 
                      condannato a lavorare senza costruire nulla. Tuttavia, nemmeno 
                      questa vendetta, per quanto divina, è perfetta. Anzi, essa 
                      offre a Sisifo una nuova occasione. Mollato il masso, sporco 
                      di sudore e di polvere, Sisifo deve torna a valle sgombro, 
                      una volta dopo l'altra. E per l'eternità, libero dal fardello, 
                      bestemmia e maledice gli stessi dèi che magari ha invocato 
                      durante la fatica inumana della salita. E forse non bastandogli 
                      quelli che ci sono ne inventa di nuovi ogni volta, perché 
                      l'ingannatore degli dèi non può non avere “indole 
                      di bestemmiatore d'ogni cielo e d'ogni assoluto”. 
                      Gli eroi fondatori o difensori dell'ordine che già c'è sono 
                      gli eroi normali, e nella loro normalità, tolta la finzione 
                      e tolto l'artificio, c'è davvero qualcosa di poco eroico. 
                      L'eroe eccezionale, che alla fine è il solo che possa essere 
                      detto eroe, è quello che, una volta dopo l'altra, ricomincia. 
                       
                      Persio Tincani 
                      
                       
                        
                     Voce 
                      libertaria 
compie 5 anni  
                     Riproduciamo lo scritto di un membro del collettivo 
                      redazionale del periodico anarchico ticinese “Voce 
                      libertaria”, apparso sull'ultimo numero. Si tratta 
                      di una vivace pubblicazione che merita di essere conosciuta 
                      e sostenuta. Magari anche abbonandosi (in coda allo scritto 
                      i dati per farlo). 
                      Questo Primo maggio 2012 il nostro periodico anarchico compie 
                      i suoi primi cinque anni. Era proprio nella giornata dei 
                      lavoratori e delle lavoratrici del 2007 che questa testata 
                      ha iniziato a farsi conoscere. In cinque anni, progressivamente, 
                      il giornale ha aumentato i suoi abbonati, ha un sito internet 
                      dove si possono trovare tutte le annate, ha promosso degli 
                      incontri libertari su varie tematiche legate al nostro movimento. 
                      Insieme alla costanza, alla regolarità delle quattro pubblicazioni 
                      annue, tutte le compagne ed i compagni della nostra regione 
                      lo hanno sfogliato, letto, diffuso, apprezzato o criticato. 
                      Anche oltre Gottardo e in Italia, in diversi circoli anarchici 
                      è conosciuto. 
                      Apprezzato e criticato, inutile dirlo, è normale per un 
                      giornale ed è forse ancora più “normale” per 
                      un periodico anarchico, con una redazione composta da sette 
                      persone – purtroppo in maggioranza uomini e solo una 
                      donna – con sensibilità, interessi, età diverse, ma 
                      con la convinzione che ciò può essere una ricchezza e non 
                      un limite. 
                      Chi ci legge sa che Voce libertaria è una pubblicazione 
                      plurale, con articoli di vario genere. Dall'esito di una 
                      manifestazione, alla storia e teoria dell'anarchismo a opinioni 
                      personali che non per forza rispecchiano il pensiero dei 
                      singoli redattori ma che la redazione tutta, dopo una valutazione, 
                      decide di pubblicare perché considerati interessanti, eventualmente 
                      anche per innescare un dibattito. La varietà degli articoli 
                      proposti rispecchia l'eterogeneità, oltre che degli interessi 
                      del gruppo redazionale e della cerchia dei collaboratori, 
                      anche dell'antagonismo in Ticino e delle sue lotte e speranze, 
                      quindi è inevitabile che gli articoli pubblicati in questi 
                      cinque anni siano vari, interessanti, criticabili, originali, 
                      a volte contraddittori tra loro. 
                      Personalmente ho sempre concepito il nostro periodico per 
                      un pubblico non anarchico, vario, più o meno giovane ed 
                      incuriosito positivamente dall'anarchismo, e oltre a ciò 
                      credo che dovrebbe essere anche uno strumento di riflessione 
                      che possa interessare a tutte le compagne ed i compagni 
                      che nella nostra regione sono attive/i in gruppi che prediligono 
                      l'azione diretta, l'auto-organizzazione per dei fini anche 
                      parziali ma comunque animati dal desiderio di giustizia 
                      sociale. 
                      L'anarchismo sicuramente non lo si fa semplicemente con 
                      un giornale e credo che le anarchiche e gli anarchici, nel 
                      caso la situazione lo richiedesse, debbano concentrarsi 
                      su cio che è più importante: agire concretamente nel contesto 
                      dove è auspicabile la loro presenza. Il periodico, in generale 
                      tutta la nostra stampa è per noi un mezzo, non un fine. 
                      Oggi, a mio avviso, è importante far conoscere il pensiero 
                      e l'azione libertaria, riflettere su come si potrebbe farla 
                      finita con la società gerarchica, del dominio, e come poter 
                      costruire una società dove la libertà dell'individuo venga 
                      garantita dall'uguaglianza e dalla libertà di tutte e tutti, 
                      senza sfruttati né sfruttatori, stati, chiese, banche, e 
                      tutto ciò che oggi rende schiava la maggioranza della popolazione 
                      mondiale. Retorica? Beh, continuare a credere nella bontà 
                      dell'azione parlamentare, della delega, in un mondo dominato 
                      dalla finanza, dalla corruzione, dalla devastazione sociale 
                      ed ambientale, questa sì che è una pia illusione. 
                      La storia dell'emancipazione umana ci mostra che è solo 
                      con la lotta, l'azione diretta e la volontà di affrancarsi 
                      dall'ingiustizia che realmente possiamo spezzare le catene 
                      – una volta e per tutte – per una società egualitaria 
                      e libertaria. 
                       
                      D.B. 
                       
                    
                       
                         Voce 
                            libertaria 
                            per saperne di più
                            Presentazione del giornale: 
                            Voce libertaria è pubblicato da anarchiche e anarchici 
                            in Ticino. Esce quattro volte l'anno per diffondere 
                            l'idea anarchica, riflessioni e azioni libertarie. 
                            L'esistenza del periodico è garantita esclusivamente 
                            dall'impegno della redazione e dal contributo di chi 
                            si abbona o collabora. 
                             
                            Per contatti: 
                            Voce libertaria, Casella postale 122, CH – 6987 
                            Caslano (Svizzera) 
                            e-mail: voce-libertaria@no-log.org 
                            Il giornale è stampato alla tipografia: La Cooperativa 
                            Tipolitografica, Via San Piero 13/a, 54033 Carrara 
                            (MS). 
                             
                            Pagina web: 
                            www.anarca-bolo.ch/vocelibertaria 
                            Il sito offre la possibilità di accedere a tutti gli 
                            arretrati di Voce libertaria (scaricabili in formato 
                            pdf), di prendere contatto con la redazione e scoprire 
                            qualche personaggio noto e meno noto del panorama 
                            libertario e anarchico. Dateci un'occhiata ogni tanto 
                            e fate proposte. 
                             
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                            La Baronata di Lugano (www.anarca-bolo.ch/baronata). 
                             
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                            e il motivo del bonifico.  | 
                       
                     
                     
                       
                        
                     Prove 
                      concrete 
di organizzazione orizzontale  
                     Capita di trovarsi tra le mani l'ultimo 7” del Kalashnikov 
                      Collective, eclettico collettivo milanese che da più di 
                      un decennio allieta gli squat italici. 
                      Vampirizzati oggi: quattro canzoni che parlano di 
                      morte quotidiana e di speranza di riscossa. Dell'alienazione 
                      che avanza, iniettata nelle vene umane da un modo di vivere 
                      che mette sopra ogni altra cosa la corsa al profitto, una 
                      spoglia mosca cieca il cui premio è la sopravvivenza. Di 
                      lavoro che, nato come mezzo, diventa fine (senza fine) che 
                      assorbe e annichilisce. Mentre per un altro giorno, per 
                      un altro giorno ancora, si arriva al domani per inerzia, 
                      anche se il futuro non riserva un granchè. Mentre il lavoro, 
                      l'istituto scolastico che diventa suo precursore, con la 
                      stessa dinamica asettica dell'allevamento intensivo, del 
                      carcere, del manicomio, del lager, dello stabulario vivisettorio, 
                      tagliano il legame fra la possibile utilità di un'azione 
                      e la mansione concreta che invece ci si ritrova costretti 
                      a svolgere, fra la possibilità creativa e la lobotomizzazione 
                      forzata, “perchè farsi troppe domande rende meno competitivi 
                      sul mercato”. 
                      E sono solo orde, orde di morti viventi che marciano verso 
                      le bocche del forno crematorio perchè è stato detto loro 
                      che va bene così, che lacrime e sangue saranno il prezzo 
                      da pagare. Non si accorgono di quel che è sepolto negli 
                      occhi del vicino: ormai è solo un avversario nella corsa. 
                      Corrono, corrono per arrivare primi, o forse perchè per 
                      fermarsi è troppo tardi, corrono perchè se tutti intorno 
                      a loro stanno correndo un motivo pure ci sarà – quale 
                      non è chiaro. Corrono, corrono, e al traguardo non trovano 
                      ad aspettarli altro che una tomba vuota con il loro nome 
                      scritto sopra. 
                      Se nel più vecchio Dreams for super-defeated heroes 
                      i protagonisti erano supereroi strappati al loro mondo di 
                      cellulosa e costretti ad affrontare la dura realtà, in Vampirizzati 
                      Oggi al centro dell'obiettivo ci sono coloro che si 
                      oppongono, in un modo o nell'altro, all'oscura magia che 
                      sta trasformando ogni persona si trovi loro attorno in un 
                      morto vivente. Formiche che cercano di resistere alla vampirizzazione 
                      delle loro vite. Si nascondono negli anfratti del tempo 
                      e dello spazio, fuggono verso Croatan o cercano di creare 
                      una effimera zona autonoma, la notte escono allo scoperto 
                      per ballare ritmi di vendetta, scandendo le ragioni della 
                      loro estraneità. Come scoiattoli si arrampicano con un sasso 
                      fra le mani fin sulle pareti delle fabbriche di morte, confidando 
                      che quel semplice ordigno possa incepparne i meccanismi, 
                      che continuano incessantemente nel frantumare le ossa dei 
                      padri e dei figli. Sono solo formiche e scoiattoli, ed è 
                      qui che sta la loro forza. 
                       È 
                      un mondo psicotico, quello in cui viviamo. I pazzi 
                      sono al potere. Da quanto tempo lo sappiamo? Da quanto tempo 
                      affrontiamo questa realtà? E…quanti di noi lo sanno? 
                      Forse se uno sa di essere pazzo, allora non è pazzo. Oppure 
                      può dire di essere guarito, finalmente. Si risveglia. Credo 
                      che solo poche persone si rendano conto di tutto questo. 
                      Persone isolate, qua e là. Ma le masse…che cosa pensano? 
                      Tutte le centinaia di migliaia di abitanti di questa città. 
                      Sono convinte di vivere in un mondo sano di mente? Oppure 
                      intravedono, intuiscono in qualche modo la verità? Ma, pensò, 
                      che cosa significa la parola pazzo? È una definizione legale. 
                      E per me, che significato ha? Io la sento, la vedo, ma che 
                      cos'è? È qualcosa che fanno, pensò, qualcosa che sono. È 
                      la loro inconsapevolezza. La loro mancanza di conoscenza 
                      degli altri. Il fatto di non rendersi conto di ciò che fanno 
                      agli altri, della distruzione che hanno causato e che stanno 
                      ancora causando. No, pensò. Non è quello. Non lo so; lo 
                      sento, lo intuisco, ma…sono volutamente crudeli…è 
                      quello? No. Dio, pensò, non riesco ad arrivarci, a chiarire 
                      il concetto. Forse ignorano parti della realtà? Sì. Ma c'è 
                      di più. Sono i loro progetti. Sì, i loro progetti. La conquista 
                      dei pianeti. Qualcosa di frenetico e di folle, così come 
                      lo è stata la loro conquista dell'Africa, e prima ancora 
                      dell'Europa e dell'Asia. [...] Quello che non comprendono 
                      è l'impotenza dell'uomo. Io sono debole, piccolo, senza 
                      la minima importanza per l'universo. L'universo non si accorge 
                      di me, e io vivo senza essere visto. Ma perché questo deve 
                      essere un male? Non è meglio così? Gli dèi distruggono coloro 
                      di cui si accorgono. Se sei piccolo potrai scampare alla 
                      gelosia di chi è grande. (La svastica sul sole, Philip K. 
                      Dick) 
                      Un disco che abbandona lo slogan per tentare di sussurrare 
                      all'orecchio parole che insinuino il dubbio, al ritmo di 
                      ballate post-industriali. Coerenza fra fini e mezzi, scardinamento 
                      della concezione dell'artista come eletto, o come idolo 
                      da inseguire: l'arte ritorna ad essere pure urgenza esistenziale; 
                      la musica va al di là dei clichè di genere, così da potersi 
                      focalizzare sul contenuto e sul modo migliore per veicolarlo. 
                      Rifiuto delle logiche commerciali in favore di un'autoproduzione 
                      vista in primo luogo come necessità di riappropriarsi della 
                      propria vita, di non delegare la propria capacità creativa 
                      a terzi ma di usarla invece come trampolino di lancio per 
                      la creazione di nuove relazioni umane. 
                      Poi ti capita di assistere ad un loro concerto, coinvolgente 
                      come pochi. E, quando tutto è finito, di avvicinarti al 
                      banchetto della distro: cd, vinili, fanzines e libri, con 
                      a fianco una cassetta per le donazioni. Prezzo libero. Completa 
                      fiducia nei confronti dei ragazzi (di ogni età) che sono 
                      andati a incontrarli. E la cosa bella – la cosa che 
                      ti colpisce – è che, di fronte ad una distro incustodita 
                      con un cartello che invita a lasciare quel che si può/vuole 
                      (sia questo denaro o un altro oggetto di scambio) si vede 
                      comunque la gente capire il legame di reciproca fiducia 
                      e rispetto che questa visione sottende e non approfittare 
                      della situazione. Come dire, prove concrete di organizzazione 
                      orizzontale. Ed è qui, in queste “piccole” cose 
                      – piuttosto che nella (straordinaria) musica in sé 
                      – che va forse cercato un senso in quello che i ragazzi 
                      del Collettivo portano avanti. 
                       
                      Valentino Giorgio Rettore 
                     
                       
                        
                     Una 
                      religione 
senza le religioni   
                     È da poco uscito il volume No man's land. Elogio 
                      e critica del religioso contemporaneo (presso l'editore 
                      Ipoc di Milano) del nostro collaboratore Federico Battistutta, 
                      il quale sulle pagine di “A/Rivista anarchica” 
                      si è spesso occupato di tematiche connesse all'anarchismo 
                      religioso. Nel testo in questione si riprendono e si approfondiscono 
                      tali argomenti, anche attraverso un confronto/scontro con 
                      alcuni autori moderni e contemporanei appartenenti a campi 
                      del sapere e a coordinate culturali assai diverse: da Raimon 
                      Panikkar a Raoul Vaneigem, da Tolstoj a Simone Weil, da 
                      Martin Buber a Ferdinando Tartaglia e a Peter Lamborn Wilson 
                      (alias Hakim Bey), da Luce Irigaray a Jiddu Krishnamurti, 
                      per citarne qui solo alcuni.  
                      Di seguito pubblichiamo la prima parte dell'introduzione. 
                      Per ulteriori informazioni rimandiamo al sito dell'editore 
                      www.ipocpress.it 
                      dove è possibile visionare, oltre alla versione integrale 
                      dell'introduzione, l'inizio del primo capitolo, la bibliografia 
                      utilizzata e altro materiale ancora. 
                       
                      Iniziamo con un racconto. C'è un aneddoto che si narra riguardo 
                      a Wittgenstein. Lo riferisce un amico di lunga data del 
                      filosofo austriaco. Siamo agli inizi degli anni Trenta, 
                      all'incirca. Un giorno Wittgenstein aveva consegnato all'amico 
                      un libro di preghiere e questo fatto fornì ai due l'occasione 
                      per una discussione sulle liturgie antiche, in particolare 
                      sulla messa in latino. All'affermazione da parte del suo 
                      interlocutore dell'importanza che venissero ordinati sacerdoti 
                      a garanzia della prosecuzione delle tradizioni religiose, 
                      Wittgenstein replicò che, sebbene l'idea apparisse meravigliosa, 
                      sino ad allora la cosa pareva che non avesse funzionato 
                      più di tanto, aggiungendo che la religione del futuro sarebbe 
                      stata senza sacerdoti e, per queste ragioni, era quanto 
                      mai opportuno per entrambi imparare a vivere senza la consolazione 
                      di appartenere ad una Chiesa. 
                      Senza la consolazione di appartenere ad una Chiesa, questa 
                      è la conclusione di Wittgenstein. Oltre tre quarti di secolo 
                      sono trascorsi da quell'episodio, sobriamente riferitoci. 
                      Di ciò e di altro parleremo in queste pagine, compiendo 
                      una serie di variazioni sul tema. Secondo il punto di vista 
                      di un'esposizione impersonale ci troviamo oggi di fronte 
                      ad uno degli effetti del fenomeno chiamato ‘secolarizzazione', 
                      il quale ha investito tutto il sistema dei valori contemporanei, 
                      modificandoli e, con essi, ha trasformato identità e appartenenze 
                      delle parti in gioco; mettendo in crisi, oltre alle Chiese, 
                      anche altri soggetti, come lo stato, i grandi partiti e 
                      i movimenti di massa, in quanto ha eroso la pretesa da parte 
                      di questi attori sociali di presentarsi sullo scenario della 
                      storia come luogo di transito obbligato, come centro sacrale 
                      nelle vicende dell'uomo e del mondo. Dal canto loro le istituzioni 
                      religiose, con il patrimonio storico (a volte ingombrante) 
                      che le accompagna, si autocomprendono sempre più come istituzioni 
                      e sempre meno come religiose. E il fine ultimo di un'istituzione, 
                      lo sappiamo, è garantire quell'insieme di condizioni che 
                      consentano, a dispetto di tutto e di tutti, di riprodurre 
                      sé stessa. Sono vittime di sé stesse, si potrebbe anche 
                      aggiungere. Ma, a dirla intera, non è questo il versante 
                      del discorso che ci interessa indagare; lasciamo ad altri 
                      verificare sia tale ipotesi, sia la possibilità di rianimare 
                      il soggetto in questione. 
                      Quello di cui si sta parlando tratta di un processo lungo, 
                      proveniente da lontano e tuttora in corso, che ci tocca 
                      e coinvolge direttamente. La questione, dunque, non può 
                      essere studiata in vitro, trattata con il distacco 
                      dell'osservatore imparziale. Parla di noi, ne siamo attraversati. 
                      Non basta il logos – e neppure l'ethos 
                      – per venire a capo del discorso, se non è accompagnato 
                      dal pathos, da una qualità del sentire in grado di 
                      risuonare con chi è vicino, con chi ascolta. Per questo 
                      è bene collocare noi stessi al centro del discorso religioso. 
                      Rinunciare a ciò è rinunciare a venire a capo del rompicapo 
                      che ci abita. Si parla di noi, qui, dei nostri interrogativi, 
                      delle passioni che ci spingono ad agire e ad attribuire 
                      senso a quello che facciamo. 
                      Per secoli le religioni sono state un immenso serbatoio 
                      di speranza e di significato, riuscendo a vivere anche momenti 
                      festivi. Oggi, il contenitore non contiene più, l'aura che 
                      lo avvolgeva è andata persa, definitivamente. Tutte quelle 
                      energie per lungo tempo hanno trovato lì ospitalità; ora, 
                      dopo periodi di opacità e silenzio che sembravano senza 
                      fine e ove pareva che la domanda di senso languisse inerte, 
                      tali forze paiono riemergere, come fiumi carsici stanno 
                      cercando nuove strade, nuovi canali di espressione. “Per 
                      dove?” è la domanda del viandante di fronte alla quale 
                      è giusto porsi. Molto di quello a cui si assiste, ciò che 
                      cerchiamo di fare, sembra poco più di un bricolage, 
                      sono tentativi vani di cercare una forma – osservano 
                      in molti, gli osservatori, gli studiosi, i cinici di turno, 
                      quelli per cui o l'apocalisse non verrà mai o, se dovesse 
                      sopraggiungere, non lascerà comunque traccia di salvezza 
                      per nessuno. 
                      Non sappiamo quello che accadrà, certo preferiamo metterci 
                      in cammino e provare, con gli attrezzi e le conoscenze che 
                      abbiamo a disposizione, sicuri comunque che quanto verrà 
                      fuori da questi laboratori saranno pezzi unici, autentici, 
                      risultato vero dei desideri, dell'intelligenza e della cooperazione 
                      dell'uomo e della donna, ben differente dai pezzi anonimi, 
                      in serie, partoriti dalle megamacchine istituzionali. 
                      È vero, in alcuni frangenti la speranza e il senso paiono 
                      spenti, sembra di girare a vuoto o di toccare un punto morto. 
                      Dire tutto lo smarrimento e il dolore è dire solo la verità 
                      del momento. Da qui partiamo. Giungere a toccare e a sperimentare 
                      questo bordo estremo può condurre anche a un punto di svolta, 
                      ad un rovesciamento di prospettiva. Come ricordava Hölderlin, 
                      “dove c'è pericolo cresce anche ciò che salva”. 
                      Di fronte a ciò non esistono scorciatoie o alternative, 
                      sia nel caso delle opzioni fondamentaliste (religiose, ma 
                      non solo), tanto più rassicuranti quanto più rigide e ottuse 
                      nella loro ostinazione, sia nelle liquidatorie reazioni 
                      laiche e illuministiche al sentire religioso, che, il più 
                      delle volte, nonostante le immani offerte elargite dal sistema 
                      degli oggetti e del consumo, sanno proporre solo un cono 
                      di luce fissa e ristretta che tanto più impoverisce quanto 
                      meno sa riscaldare. Ci siamo messi in cammino, pur consapevoli 
                      che il possibile guadagno in questa ricerca non è un bene 
                      da trattenere, che si accumula e si custodisce nei forzieri 
                      del proprio foro interiore, ma è praxis, azione, 
                      premio da cedere, dono da scambiare, testimone da passare, 
                      guadagno come perdita. 
                      Religione senza religioni: è allora questa la strada da 
                      percorrere? Se le istituzioni religiose, i luoghi di culto 
                      abituali con i credo ivi proclamati appaiono sempre più 
                      come rivestimenti vuoti, simulacri dei fasti di un passato 
                      remoto, non per questo, gettando l'acqua sporca che conserva 
                      tutto ciò, dev'esser gettato via anche il bambino in essa 
                      contenuto. Ma quale bambino? Se il passato è passato per 
                      sempre, bisogna riandare a ciò che viene prima del passato, 
                      prima di ogni ingombrante eredità. Si tratta di risalire 
                      il fiume fino alla sorgente, per andare alla sorgente della 
                      sorgente. Ignoriamo quanto potrà durare il cammino, né dove 
                      ci porterà. È vero, chi cerca trova – dice il proverbio 
                      – ma quello che troveremo avrà poco a che vedere con 
                      l'idea coltivata al momento della partenza. Ingenuità degli 
                      inizi! L'idea ci dà la spinta, ma si dovrà lasciarla cadere 
                      una volta intrapresa la strada, e l'esperienza insegna che 
                      più si è leggeri, meglio si viaggia. Il cammino si fa percorrendolo, 
                      pezzo per pezzo, costruendolo ex novo, con tutti gli andirivieni, 
                      le impasse, le soste, gli imprevisti e i pericoli del caso, 
                      provando a percorrere non i consueti sentieri battuti, ma, 
                      senza voltarsi indietro, saper osare, con la necessaria 
                      determinazione, un inoltrarsi in ciò che deve ancora venire. 
                      Terra incognita, vergine, terra nullius, no man's 
                      land è quella in cui ci troviamo; non per colonizzarla 
                      e predarla, ma per riceverne quell'energia e quel nutrimento 
                      che mai si esauriscono. 
                      Una religione prima e dopo le religioni. Perché l'homo 
                      religiosus viene prima di qualsiasi religione: noi siamo 
                      orientati verso questo testimone, custodito all'interno 
                      di ogni uomo (homo absconditus), nella storia e oltre 
                      la storia, e ad esso intendiamo rivolgerci. Come non condividere 
                      e non collocarci sul medesimo solco di quanto scriveva Ferdinando 
                      Tartaglia – un autore che ha anticipato molte delle 
                      tematiche di cui parleremo – agli inizi del secondo 
                      dopoguerra: “chi predice religione può oggi anche 
                      sputare sulla propria vita, e sputando sulla propria vita 
                      può aspirare senza orgoglio a diventare più che il Buddha, 
                      più che il Cristo (guai se tutti noi non aspirassimo a essere 
                      più che il Buddha, più che il Cristo)”. 
                       
                      Federico Battistutta 
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