|    La conquista 
                  dell’inutile 
                 Questo 
                  libro raccoglie il lungo diario tenuto da Werner Herzog durante 
                  i due anni e mezzo di lavorazione del suo film-limite Fitzcarraldo 
                  nella giungla amazzonica, tra il giugno 1979 e il novembre 1981: 
                  un’impareggiabile avventura, tra enormi difficoltà 
                  logistiche e mutamenti nel cast che, alla fine, comprenderà 
                  Klaus Kinski e Claudia Cardinale (Mick Jagger sciolse il contratto, 
                  essendo troppo occupato nell’ambiente musicale, ed Herzog 
                  scelse di eliminare il suo personaggio piuttosto che affidarlo 
                  ad un altro attore). Il regista tedesco ha definito queste pagine 
                  “più appassionanti del film stesso”.  
                  Potrete leggere passaggi come questi:
 
                - Sulla lapide (del poeta pazzo Rafael Avila) si legge: 
                  le vanità del mondo/le grandezze del potere/sono chiuse 
                  nel profondo/silenzio del cimitero.
                  
 - (…) proprio perché era stato ripudiato 
                  da tutti io avevo avuto quell’attenzione per lui e gli 
                  avevo dato lavoro.
                  
 - (…) la vita è micidiale, sia mentre la 
                  vivi che quando finisce.
                  
 - La famiglia che ci aveva prestato la pentola di acqua 
                  calda ci si è avvicinata, allora abbiamo preparato tonno 
                  anche per loro e gli abbiamo offerto del tè, qui funziona 
                  così, il cibo viene sempre condiviso. César dice 
                  che è una cosa talmente naturale che nella loro lingua 
                  non esiste la parola “grazie”.
                  
 - La burocrazia (…) è (…) una spiacevole 
                  forma di organizzazione.
                  
 - Mick Jagger (…) è venuto da noi in taxi, 
                  ma siccome l’autista si è rifiutato di procedere 
                  per gli ultimi cento metri tra le buche piene di fango, nemmeno 
                  al doppio della tariffa, l’ho trovato che camminava a 
                  tentoni al buio, in smoking e scarpe da ginnastica.
                  
 - Ho dormito in una capanna (…) su una sorta di 
                  letto, dal quale primo ho dovuto togliere gli escrementi di 
                  topo secchi. I ratti si arrampicavano come lucertole sulle stuoie 
                  che facevano da pareti. La mattina mi sono svegliato presto 
                  e mi sono trovato davanti il muso di un porcellino d’India 
                  che mi fissava sbigottito.
                  
 - Durante la scena una delle scimmie ha morso Mick (Jagger) 
                  sulla spalla e lui è scoppiato in una risata così 
                  sonora che sembrava di sentire ragliare un asino.
                  
 - (…) la domanda a cui tutti volevano una risposta 
                  era se avrei avuto il coraggio e la forza di ricominciare di 
                  nuovo tutto dall’inizio. Risposi di sì, perché 
                  altrimenti sarei stato un uomo che non aveva più sogni, 
                  e senza sogni non volevo vivere.
                  
 - La morte è ereditaria.
                  
 - Senza prove le cose sembrano sempre migliori, altrimenti, 
                  come ripeto ogni volta, subentra una meccanica degli avvenimenti 
                  che rimane priva di una vera vitalità.
                  
 - Di colpo si è scatenato di nuovo l’urlo 
                  infiammato di Kinski, ma questa volta non aveva niente a che 
                  fare con la situazione del campo. Gridava fuori di sé, 
                  sbraitando che gentaglia, che canaglie fossero quelli come Sergio 
                  Leone e Corbucci, quegli stronzi colossali. C’è 
                  voluto parecchio prima che Kinski fosse esausto. Le sue urla 
                  si sono poi accese di nuovo, ma brevemente, per dire che persona 
                  spietatamente non dotata, che maiale spietatamente grasso fosse 
                  Fellini.
                  
 - (…) così nero e reale come i peccati del 
                  papa.
                  
 - (…) l’accettazione di un evento che non 
                  ha avuto luogo modifica definitivamente tutta una vita.
                  
 - La nostra squadra di cucina ha ucciso le quattro anatre 
                  che erano rimaste. (…) Il tacchino bianco, quell’animale 
                  vanitoso, sopravvissuto a tanti polli arrosto e anatre bollite 
                  per il brodo, è arrivato soffiando e pavoneggiandosi, 
                  ha sollevato raspando con le sue brutte zampe una delle anatre 
                  decapitate che sbatteva sanguinante le ali a terra, l’ha 
                  sistemata in una posizione per lui comoda e arrivando di corsa, 
                  violaceo, mentre emetteva dei gorgoglii di stomaco, è 
                  montato sull’anatra morente e si è accoppiato con 
                  lei.
                  
 - Le due scimmie nere, tra le quali c’era Tricky 
                  Dick, che compare nel film come attrice, i Campas se le sono 
                  mangiate prima di partire.
                  
 - Una cauta tristezza è calata su ogni cosa, come 
                  su antichi luoghi dell’infanzia che ora sono mutati.
                  
 - Solo scrivendo riesco a raggiungere me stesso.
  
                Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Nel gennaio 
                  del 2004, lo stesso Herzog scriveva: “Per ragioni che 
                  non conosco, un tempo non riuscivo nemmeno a leggere questi 
                  diari redatti durante la lavorazione del film Fitzcarraldo. 
                  Oggi, ventiquattro anni più tardi, mi è sembrato 
                  improvvisamente facile (…). Queste annotazioni non sono 
                  il resoconto delle riprese, a malapena accennate, né 
                  possono essere considerate diari, se non nel senso più 
                  ampio del termine: sono qualcosa di diverso, un paesaggio interiore 
                  partorito dal delirio della giungla. Ma nemmeno di questo sono 
                  sicuro.”  
                                                
                
                   
                 
                Nicola Chiaromonte 
                  lo sprovincializzatore 
                Il francese Maurice Nadeau (e così pure la scrittrice 
                  statunitense Mary McCarthy) lo ritenne uno degli ultimi “maestri 
                  segreti” di tutta una generazione, mentre per Enzo Siciliano 
                  Nicola Chiaromonte fu “un italiano del Sud Italia e talvolta 
                  persino scontroso come certi lucani possono esserlo, ma appassionato 
                  e devoto al proprio pensiero fino a soffrirne, fino ad un rabbioso 
                  silenzio di fronte alle altrui velleità…” 
                  .  
                  Di Nicola Chiaromonte ricorrono i quarant’anni dalla morte 
                  e speriamo che tale ricorrenza sia davvero occasione tanto per 
                  rileggere articoli e opere (su tutte “Credere e non credere” 
                  e “Il tarlo della coscienza”) andati sommersi dalla 
                  polvere del tempo quanto per riscoprire il pensiero di uno degli 
                  intellettuali che “contribuì a sprovincializzare 
                  la cultura politica del Paese” negli anni immediati al 
                  secondo dopoguerra.  
                  Nato a Rapolla (Potenza) nel 1905, si trasferì con la 
                  famiglia a Roma che era ancora bambino, poco più che 
                  ventenne aderì a Giustizia e Libertà fiancheggiando 
                  il gruppo del suo maestro Andrea Caffi, sostenitore di un socialismo 
                  proudhoniano e libertario in contrasto con quello liberale dei 
                  fratelli Carlo e Nello Rosselli. Perseguitato dal regime fuggì 
                  a Parigi dove si ritrovò tra la schiera degli antifascisti 
                  italiani in esilio, nel 1936 volle andare in Spagna a combattere 
                  contro le armate di Franco affiancando la pattuglia aerea dello 
                  scrittore francese André Malraux. Uscito traumatizzato 
                  dall’esperienza spagnola, Chiaromonte divenne un antimilitarista 
                  convinto. “Dopo l’esperienza che ho fatto in Spagna 
                  - scriverà - non mi è possibile di vedere la guerra 
                  come mezzo utile per risolvere le cose”. Nel 1941 si trasferì 
                  negli Stati Uniti, qui collaborò con le prestigiose riviste 
                  avanguardiste “Partisan Review” e “Politics 
                  e si ritrovò negli ambienti letterari frequentati, tra 
                  gli altri, da Hannah Arendt, Meyer Shapiro e dalla stessa Mary 
                  McCarthy. E grazie pure a questa sua breve parentesi oltreoceano 
                  che Chiaromonte, una volta definitivamente rimpatriato, si andò 
                  affermando anche da noi in quel maestro che “ha insegnato 
                  a scrivere ad almeno due generazioni d’intellettuali” 
                  .  
                  Lavorò al “Mondo” di Pannunzio come critico 
                  teatrale, i suoi articoli era molto letti e commentati, perché 
                  l’evento scenico era in lui solo un pretesto per insolite 
                  osservazioni filosofiche e valutazioni politiche. Ma tutto il 
                  percorso intellettivo di Nicola Chiaromonte è più 
                  marcatamente cementato all’esperienza di “Tempo 
                  presente”. La rivista che fondò nel 1956 con Ignazio 
                  Silone e andò ad affermarsi per la sfida sferrata alla 
                  degenerazione illiberale del socialismo, l’appoggio agli 
                  intellettuali francesi che si schierarono contro la guerra d’ 
                  Algeria, l’opposizione (tenace) alla sinistra stalinista 
                  e leninista.  
                  Probabilmente Chiaromonte dalle pagine di “Tempo presente” 
                  commise l’errore di liquidare sommariamente sia Marx che 
                  Gramsci, ma a lui bisogna riconoscere la fermezza con cui difese 
                  il primato della morale in politica, le insistenti denunce contro 
                  la corruzione, la partitocrazia, la salda volontà nel 
                  voler progettare crescere una rivista culturalmente non sottomessa 
                  tanto al marxismo-leninista che alla chiesa cattolica e all’idealismo 
                  crociano. L’esperienza di “Tempo presente” 
                  purtroppo finì malamente nel 1968 a causa di uno strano 
                  scandalo internazionale e che vedeva sullo sfondo l’oscura 
                  longa manus della Cia. Negli ultimi anni della sua vita Nicola 
                  Chiaromonte lavorò all’Espresso dove si confermò 
                  in un principe della critica teatrale.  
                  Morì a Roma il 18 gennaio del 1972 colpito da un improvviso 
                  infarto nella sede Rai di via Mazzini, poco prima che si apprestasse 
                  a registrare un programma radiofonico La sua opera più 
                  importante rimane “Credere non credere”, una raccolta 
                  di saggi su Tolstoj, Stendhal, Malraux che uscì per Bompiani 
                  nel 1971. E su queste pagine che ritroviamo pillole del suo 
                  pensiero estremamente non datato. Chiaromonte sta pienamente 
                  inficiato dentro le tensione del nostro tempo quando scrive(va): 
                  “La nostra non è un’epoca di fede, neppure 
                  di incredulità. È un’epoca di malafede, 
                  di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, 
                  in mancanza di altre genuine”. 
                  Mimmo Mastrangelo                 
                   
                                 
                Cinema rumeno 
                  “La ricostruzione” di Lucian 
                  Pintilie  
                Ancora per tutti gli anni ’60 il cinema rumeno era ampiamente 
                  demodulato tanto nelle scelte stilistiche quanto nei processi 
                  di una originale ideazione narrativa. La crescita cinematografica, 
                  quantomeno nel senso di una coscienza liberata del proprio dire 
                  e dei rapporti dialettici tra arte e socialità, avvenne 
                  più oltre per effetto del condizionamento abbondantemente 
                  determinato da quel fenomeno di lentissimo disgelo che ha in 
                  qualche modo limitato il controllo totale della gerarchia burocratica 
                  sui modi dell’espressione cinematografica del paese.  
                  Pure in queste condizioni, i cineasti hanno saputo comporsi 
                  in un margine di azione autentica che ha prodotto opere estremamente 
                  interessanti e, in alcuni casi, compiute proprio entro le ragioni 
                  di una specifica appartenenza geoculturale. Lucian Pintilie 
                  è l’autore che più si sottrae agli adescamenti 
                  della complicità ideologica con il regime; quantunque 
                  isolato e posto ai margini da una cultura d’apparato grigiamente 
                  ufficiale, fino poi all’esilio, Pintilie ha assunto un’autorevolezza 
                  intellettuale sapientemente congiunta al ruolo simbolico che 
                  la sua stessa opera ha prodotto. Pintilie esordisce coltivando 
                  interessi prevalentemente teatrali sui palcoscenici di Bucarest, 
                  dove metterà in scena opere del rumeno Ion Luca Caragiale 
                  e di altri drammaturghi europei contemporanei con spirito acre 
                  e modi di effettivo e non compiaciuto sperimentalismo.  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    Un 
                        fotogramma dal film “La Ricostruzione”  | 
                   
                 
                 Il suo primo lungometraggio giunge nel 1965 con Domenica 
                  alle sei, opera che seppe rappresentare un atto isolato 
                  di rottura per via della sua statura linguistica alternata tra 
                  attitudine fenomenologica e rovesciamento onirico, con amplissime 
                  influenze sulla concezione strutturale di cineasti inquietamente 
                  raffinati come Resnais o Antonioni. Soprattutto Pintilie muta 
                  i criteri di descrizione narrativa attraverso un’originale 
                  soggettivizzazione dello sguardo della macchina da presa che 
                  rinuncia al tracciato di mera registrazione naturalistica in 
                  favore di una sua effettiva partecipazione al racconto; il linguaggio, 
                  insomma, diviene stile, luogo di ricapitolazione estetica di 
                  quei principi che Pintilie ha propri come demitizzanti l’anonimo 
                  realismo del cinema di regime. Domenica alle sei prepara 
                  il secondo film di Pintilie, e lo prepara nella misura in cui 
                  gli artifici formali e gli istituti stilistici dell’avanguardia 
                  europea saranno resi impliciti dalla struttura meditatamente 
                  sottrattiva del nuovo racconto per immagini.  
                  La ricostruzione (1968), dalla novella omonima 
                  di Horia Petrescu, è la storia di due giovani studenti, 
                  Ripu e Vujca, che una notte hanno festeggiato la loro promozione 
                  bevendo qualche bicchiere di troppo. Ubriachi hanno aggredito 
                  il gestore del bar, fracassato una vetrina e fatto a pugni tra 
                  di loro. Qualche giorno dopo vengono riportati sul luogo del 
                  reato da un poliziotto, un magistrato, un insegnante e una troupe 
                  cinematografica. Il giudice ha deciso che al posto della prigione, 
                  i ragazzi dovranno fare gli attori per un documentario pagato 
                  dallo Stato contro l’alcolismo. Devono ricostruire fedelmente 
                  gli eventi di quella giornata, dalla rissa con il gestore fino 
                  allo scontro finale. Quello che non era accaduto nella realtà 
                  avviene tragicamente nella finzione. Fin dalla sinossi delle 
                  sue azioni narrative, il film di Pintilie appare come un’opera 
                  allegorica che consente una complessa stratigrafia ermeneutica 
                  sulla struttura manifestamente significante del metafilm strutturato 
                  nel rispetto delle unità aristoteliche.  
                  Come è stato scritto, “la irripetibilità 
                  dell’esperienza, la vanità del pedagogismo repressivo, 
                  la vacuità del mimetismo didascalico fondato sul “tipico”, 
                  la inautenticità della riproduzione meccanica del reale, 
                  la distruttività di ogni “ricostruzione” 
                  che nasca da una visione schematica dei “fatti” 
                  (anzi, appunto, dalla riduzione a meri fatti non più 
                  immersi nella vischiosità dell’esistenza) sono 
                  altrettanti – o meglio appena alcuni – dei motivi 
                  che si rincorrono, si intersecano, si sovrappongono, si illuminano, 
                  reciprocamente e dialetticamente, di chiaroscurate prospettive 
                  (…) scambiando i colposi con i colpevoli, la finzione 
                  con la realtà, il volontarismo pedagogico con l’intenzione 
                  delittuosa, il dolore autentico con l’artificio”. 
                  Con ogni probabilità Pintilie realizza in tempi di dittatura 
                  il film più libero e significativo dell’intera 
                  cinematografia rumena. Il principio iperrealistico della mera 
                  ricostruzione costituisce, di fatto, nel rovesciamento dei suoi 
                  paradigmi, una critica serrata al regime comunista; di più, 
                  esso perviene all’esito paradossale di restituire la pellicola 
                  non al mimetismo ma alla visionarietà.  
                  Come documento, il film ha un valore simbolico proprio nella 
                  misura in cui utilizza la metafora come strumento inalienabile 
                  della contestazione politica; per via indiretta, intrecciando 
                  il senso di realtà con la sur-realtà dell’esperimento, 
                  Pintilie concepisce una parabola sul significato della libertà 
                  come principio di responsabilità, eluso in questo senso 
                  sia dalla grassa borghesia capitalista che dal rozzo comunismo 
                  di regime. Inutile dire che la controversia giunge, di fatto, 
                  alla negazione dell’estetica del socialismo reale (lo 
                  zdanovismo, per intenderci) attraverso la dissacrazione del 
                  soggetto del film didattico. A nostro parere, piuttosto, l’opera 
                  di Pintilie si inserisce nella dialettica del comunismo reale 
                  (dialettica negata, certo, ma in fondo modello di autentica 
                  libertà) per quel socialismo dal volto umano cui ambiscono 
                  in quegli anni i paesi dell’est.  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    Il 
                        regista rumeno Lucien Pintilie  | 
                   
                 
                 L’esigenza e insieme il precipitato della dialettica 
                  politica del film è indubitabile persino in considerazione 
                  delle scelte stilistiche di Pintilie (un pervicace ossimoro 
                  filmico) e soprattutto del suo tracciato metafilmico che si 
                  rovescia e sovrappone alla critica ideologica; così come 
                  ha scritto Gianni Toti, per cui “(…) Alla fine, 
                  che cosa c’è di veramente cinematografico e di 
                  autenticamente socialista in un film come questo di Pintilie, 
                  se non la denuncia cinematografica della illusione di una “ricostruzione” 
                  della verità che sia soltanto cinematografica, culturale 
                  cioè, e non vada al di là di questa stessa denuncia 
                  di crisi conoscitiva che è anche crisi politica, etc.?”. 
                   
                  Così Pintilie nutre la sua parabola grottesca nell’intuizione 
                  prodromica dell’entropia e, come per Cechov o Caragiale, 
                  nella tragedia della mediocrità, nella noia dell’abitudine, 
                  nella corrosione del tempo dell’esistenza è il 
                  tramonto doloroso della storia. 
                  
                  Beniamino Biondi 
                   
               
                 Una 
                  bambina  
                  nei lager 
                Trudi ha trascorso la propria infanzia inizialmente nel ghetto 
                  di Kovno e poi nel campo di concentramento e di sterminio di 
                  Stutthof in Polonia. La storia narrata in Ho sognato 
                  la cioccolata per anni (Piemme editore, Milano 2008, 
                  pagg. 181, e 9.00), di Trudi Birger, è incentrata sul 
                  rapporto intenso fra Trudi e sua madre, grazie a cui riusciranno 
                  entrambe a salvarsi. 
                  Dal ghetto di Kovno, Trudi e sua madre furono trasferite sui 
                  treni per il viaggio di deportazione, in condizioni igieniche 
                  terribili, senza cibo e acqua. Non conoscevano la precisa destinazione 
                  del viaggio, ma tutti sapevano che si trattava di un campo di 
                  concentramento. 
                  “Ho sognato la cioccolata per anni” di Trudi Birger 
                  è un romanzo autobiografico, in cui l’Autrice racconta 
                  la personale e tragica storia di vita. Trudi Birger, sopravvissuta 
                  agli orrori dell’Olocausto, alla fine della guerra si 
                  è trasferita a Gerusalemme, dove ha vissuto con la sua 
                  numerosa famiglia. 
                  L’Autrice, deprivata e derubata della giovinezza, ha scelto 
                  di dedicarsi ai bambini più poveri di ogni etnia, cultura 
                  e religione, fino alla sua morte nel 2002. 
                  Trudi Birger con grandissima modestia, consegna a tutta l’umanità 
                  un libro che tramanda gli orrori dell’Olocausto, della 
                  guerra, raccontando delle personali radici etniche e culturali, 
                  della vicenda di una madre e di una figlia che, all’interno 
                  del dramma, giurano a se stesse di essere persone migliori nella 
                  speranza di un domani di pace, di dialogo e di accoglienza tra 
                  genti, culture e minoranze. 
                  La storia di una bambina che viene strappata dalla quotidianità 
                  di Francoforte, per trovarsi presto rinchiusa, come un animale 
                  in gabbia, nel ghetto di Kovno, in attesa di essere reclusa 
                  nel campo di concentramento e di sterminio di Stutthof. La storia 
                  di una bambina, armata solo della propria innocenza, che si 
                  lega alla madre e a tutto ciò che rappresenta, per la 
                  memoria dell’intero popolo ebraico. 
                  Questo libro è consigliato a chiunque tenta di fare memoria 
                  dei drammi personali e mondiali che si sono consumati prima, 
                  durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, “Per Non Dimenticare” 
                  gli orrori dei conflitti armati nella storia e per costruire 
                  contesti collettivi di dialogo, accoglienza e soprattutto pace. 
                  Da questa lettura, nella Testimonianza diretta di deportazione, 
                  comprendiamo che l’odio, la guerra, il razzismo ingenerano 
                  morte, annientamento e distruzione. La pace, la fratellanza, 
                  l’accoglienza e il rispetto dell’altro sono il pensiero 
                  e il valore che vuole trasmettere Trudi, in quanto vittima, 
                  nel suo racconto. 
                  
                  Laura Tussi 
                
              
              
               
                Dalle TAZ 
                  all’agricoltura? 
                Wilson non è molto conosciuto da noi con il suo vero 
                  nome, con cui firma questa microguida filosofica all’orticultura 
                  d’avanguardia, mentre raggiunse una certa notorietà 
                  con lo pseudonimo di Hakim Bey come teorico di quelle Zone 
                  Temporaneamente Autonome che furono di moda nell’epoca 
                  in cui si vide nei centri sociali occupati & autogestiti 
                  i gangli vitali di un nuovo sommovimento liberatorio diffuso 
                  nelle metropoli e (assai meno) nelle province d’Italia. 
                  Tramontato l’entusiasmo per il centrosocialismo reale, 
                  ricordare le Taz fa quasi tenerezza, seguita da una buona dose 
                  di sarcasmo nel pensare quanto davvero fossero temporanee 
                  quelle zone, magari durate l’attimo necessario a costruirsi 
                  un’immagine vendibile sul mercato della musica o della 
                  politica.  
                  Nel 1999 Wilson Peter Lamborn Wilson, con Avant Gardening (Nautilus, 
                  www.ecn.org/nautilus) 
                  aggiorna il suo panorama di zone autonome con notevole lungimiranza, 
                  visto come si va oggi diffondendo la voglia di ritagliarsi pezzetti 
                  di città in cui far crescere, assieme agli zucchini, 
                  la capacità di interagire con il nostro ambiente per 
                  riprendersi, anche se solo in piccolissima parte, quella capacità 
                  del fare, di aiutare organismi a svilupparsi, di avere la pazienza 
                  di osservarli fiorire e maturare. Chi vive in campagna sorriderà 
                  con ironia di gesti così ovvi, eppure proprio perché 
                  il numero di persone che non hanno idea di quand è che 
                  maturano mandorle o pomodori è in crescita costante, 
                  muovere un timido passo per prendere le distanze dalla raggelante 
                  sterilità di un mondo senza odore, costruito su un immaginario 
                  artificioso, è già un gesto coraggioso e vivo. 
                  «Curare un orto» – sostiene Wilson – 
                  «è diventato un atto di resistenza, ma non è 
                  solo un gesto di rifiuto. È un atto positivo, una pratica». 
                   
                  L’autore però non sta auspicando un ritorno di 
                  massa all’agricoltura, vista come l’inizio d’ogni 
                  sciagura autoritaria. «La cosiddetta Rivoluzione agricola 
                  generò l’ascesa dei primi Stati, assieme alla schiavitù, 
                  le tasse, la guerra, i sacrifici umani e altri benefici del 
                  progresso e della civiltà». Non agricoltori 
                  dunque, ma orticoltori o giardinieri, che 
                  non inseguano il lavoro e l’economia, ma la perfezione 
                  liberata nella creazione di pezzi di paradiso, termine 
                  derivato dalla parola persiana che significava giardino. 
                  Se a questo punto volete sapere se si riesce in questo modo 
                  anche a vivere di ciò che si coltiva temo però 
                  che Wilson non sia la persona adatta a rispondere, in fondo 
                  lui vive nel Lower East Side di Manhattan, mica sull’appennino 
                  pistoiese... 
                  
                  Giuseppe Aiello 
              
              
                 
               
                  
                L’inclassificabile, 
                  irrecuperabile Louise Michel 
                Ultima novità per la Fiaccola, 
                  un piccolo libro solo per dimensioni su Louise Michel, di Anne 
                  Sizaire, uscito per la classica collana La Rivolta. Il testo 
                  ripercorre la storia, le azioni le idee a distanza di più 
                  di un secolo dalla sua morte. 
                   
                  Louise Michel nasce il 29 maggio del 1830 a Vroncourt in Francia 
                  da una relazione tra una domestica, Marianne Michel, e un castellano, 
                  Etienne Demahis. Il padre, la educò alle idee illuministe 
                  di Rousseau e di Voltaire e quando morì fu per lei un 
                  duro colpo; 5 anni dopo morì anche la moglie del padre 
                  e da quel giorno cambiò la sua vita: fu cacciata dal 
                  castello e dovette portare il cognome della madre.  
                  La sua infanzia fu ricca di stimoli: suonava il piano, dipingeva, 
                  amava la natura, gli animali e, in particolare, i gatti. Il 
                  suo rispetto e amore per gli animali è fondamentale nella 
                  storia di questa donna che persino sulle barricate della comune 
                  di Parigi pensava a salvare gli animali in difficoltà 
                  mettendo a rischio la sua stessa vita. 
                  Fin da giovane si cimentò con la scrittura e intrattenne 
                  una fitta corrispondenza con Victor Hugo il quale le dedicò 
                  la poesia Viro Major (da cui prende il titolo questo 
                  saggio) ma soprattutto iniziò a scrivere una “Storia 
                  universale” e dei racconti. 
                  Nel gennaio 1853 incominciò la sua carriera di istitutrice 
                  a Audeloncourt, dove ogni allievo pagava una retta mensile. 
                  Presto lasciò questa scuola e diventò direttrice 
                  di una scuola libera, perché per essere istitutrice comunale, 
                  avrebbe dovuto giurare fedeltà all’impero e si 
                  rifiutò di farlo. Louise adottò il metodo sperimentale 
                  delle classi miste; non voleva accettare la divisione per età 
                  degli alunni e attuava metodi educativi libertari 
                  La prima volta che ebbe problemi con l’ordine costituito 
                  fu quando paragonò Napoleone III, sulle colonne di un 
                  giornale di Chaumont, a Domiziano l’imperatore romano. 
                   
                  Dopo qualche anno si trasferì a Parigi e da subito frequentò 
                  una scuola popolare in via Thevenat dove diede delle lezioni 
                  di letteratura e di geografia. Nella stessa scuola si riuniva 
                  il gruppo “I diritti delle donne”, frequentato dalle 
                  femministe Jules Simon, Andrè Leo e Maria Deraismes. 
                  Il gruppo rivendicava la stessa educazione per uomini e donne 
                  e lo stesso salario.  
                  Fu la tesoriera di un comitato di soccorso ai profughi russi 
                  il cui presidente era V. Hugo. Aderì anche all’Internazionale 
                  dei Blanquisti e sostenne il giornale “Libero pensiero”, 
                  dove discusse sulla religione e sulla rivoluzione ventura:  
                  “Quando verrà l’ora e gli uomini esiteranno, 
                  allora saranno le donne che marceranno in prima fila e io ci 
                  sarò”.  
                
                   
                      | 
                   
                   
                    Louise 
                        Michel  | 
                   
                 
                 In seguito all’assassinio del giovane Victor Noir, ad 
                  opera del principe Pierre Bonaparte, in Louise si acuì 
                  l’odio verso la monarchia e da allora portò abiti 
                  maschili, una cappa, un cappello e un pugnale per difendersi 
                  e, sulla tomba di Noir, Louise giurò di portare il lutto 
                  per tutta la vita. Intanto il 19 giugno 1870 Napoleone III dichiarò 
                  guerra alla Prussia, il 4 settembre crollò l’impero 
                  e fu proclamata la Repubblica. Andrè Leo e Louise andarono 
                  insieme a migliaia di manifestanti al municipio e reclamarono 
                  armi per andare a liberare Strasburgo. Louise intanto si esercitava 
                  al tiro a segno al luna park. Le donne parigine si organizzarono 
                  costituendo comitati e L.M. fu una delle più attive organizzatrici 
                  fino a diventare presidente del “Comitato di vigilanza 
                  della guardia nazionale della XVIII circoscrizione”. Lei 
                  fece parte sia di quello maschile che di quello femminile e 
                  disse: 
                  “tutti appartenevano alla rivoluzione... non si chiedeva 
                  di che sesso fosse uno quando si trattava di compiere il proprio 
                  dovere”.  
                  Il 22 gennaio 1871 vi furono scontri abbastanza duri e per la 
                  prima volta prese il fucile e non lo lasciò più 
                  fino alla caduta delle ultime barricate nel maggio 1871. 
                  “La prima volta che si difende la propria causa con 
                  le armi, si vive la lotta così intensamente che si diventa 
                  come un proiettile”.  
                  Il 1 aprile il governo di Versailles dichiarò guerra 
                  alla Comune di Parigi. L’esercito era composto da 35000 
                  uomini, 3000 cavalli e 5000 gendarmi. Louise in quell’occasione 
                  indossò la divisa della guardia nazionale e fece parte 
                  del 61° battaglione. Quando i versagliesi andarono a casa 
                  a cercarla e presero sua madre per fucilarla, lei si consegnò 
                  per fare liberare la madre e rimase con i condannati alla fucilazione 
                  attendendo il suo turno. Fu condotta al campo di Satory e da 
                  questo trasferita a Versailles alla prigione “dei cantieri”. 
                  Il 28 giugno iniziò il processo e durante gli interrogatori 
                  Louise ammise di essere stata infermiera nel reparto ambulanze, 
                  riconobbe gli scopi della Comune, confermò di volere 
                  l’abolizione della istituzione clericale. Al secondo interrogatorio 
                  non negò niente, disse 
                  “sono accusata di essere complice della Comune! Certo 
                  che lo sono perché la Comune voleva prima di tutto la 
                  rivoluzione sociale che è ciò che desidero ansiosamente; 
                  è un onore per me essere una delle autrici della Comune, 
                  (..) Non voglio difendermi e non voglio essere difesa, appartengo 
                  completamente alla rivoluzione sociale e mi dichiaro responsabile 
                  delle mie azioni”, alla fine del processo aggiunse: 
                  “Bisogna escludermi dalla società, siete stati 
                  incaricati di farlo, bene! L’accusa ha ragione. Sembra 
                  che ogni cuore che batte per la libertà ha solo il diritto 
                  ad un pezzo di piombo, ebbene pretendo la mia parte!” 
                  Alla fine non fu fucilata ma condannata alla deportazione. In 
                  un primo momento fu trasferita alla prigione centrale di Auberive 
                  (dipartimento della Marna) e ci restò 20 mesi. Nell’agosto 
                  del 1873 iniziò il viaggio sulla “Virginia”, 
                  una fregata a due vele che impiegò 4 mesi per arrivare 
                  in Nuova Caledonia (il 10 dicembre 1873). Durante il viaggio 
                  divenne anarchica e disse: “sono quindi anarchica 
                  perché solo l’anarchia può rendere felici 
                  gli uomini e perché è l’idea più 
                  alta che l’intelligenza umana possa concepire, finché 
                  un apogeo non sorgerà all’orizzonte”. 
                Nuova Caledonia, anni di prigionia 
                  Un 
                  aspetto molto interessante su cui voglio soffermarmi della vita 
                  di Louise Michel è che una volta arrivata in Nuova Caledonia 
                  creò quasi subito un rapporto con i nativi Canachi. 
                  La popolazione indigena purtroppo veniva considerata dalla maggior 
                  parte dei rivoluzionari come inferiore, i Canachi erano considerati 
                  dei selvaggi, con i quali non si potevano creare legami.  
                  Contrariamente agli altri deportati, Louise invece non si da 
                  pace finché non instaura legami con loro, tanto che A.Sizaire 
                  ci racconta che una sera, L.M. decide di andare a vederli da 
                  sola, per presentarsi. Questi ultimi che, normalmente, preferiscono 
                  evitare i bianchi, l’accettano velocemente e le danno 
                  presto il nome di “chènère” che significa 
                  sorella. Diventano amici e suoi allievi, lei impara rapidamente 
                  la lingua Canaca (cosa che era assolutamente vietata) e improvvisa 
                  per loro dei corsi, in particolare di storia e di politica sociale, 
                  in piena foresta, all’interno di grotte o capanne abbandonate. 
                  Sempre A. Sizaire ci racconta nel suo libro che L.M. alcune 
                  notti scappa dalla sua dimora per raggiungere i suoi nuovi amici 
                  e al chiarore dei fuochi, ascolta appassionatamente le leggende 
                  dei loro narratori, o discute all’infinito con i loro 
                  guaritori, i “Takata”, che la iniziano all’infusione 
                  dei fiori di Niaouli, l’albero sacro. 
                  L.M. si mostra sempre dolce e calma con i Canachi, notevolmente 
                  aperta e attenta, completamente (o quasi) denudata dai pregiudizi 
                  razziali del suo tempo, manifesta al contrario la speranza sincera 
                  di scoprire una cultura altra, cercando di apprendere da loro 
                  tanto quanto insegna. 
                  Chiaramente questo suo rapporto con i nativi rimane incompreso 
                  dai rivoluzionari deportati e in più attira le furie 
                  del governatore francese, personaggio onnipotente dell’isola 
                  che poteva decidere quasi su tutto senza doverne rendere conto 
                  a nessuno. Il governatore giudica con decisione questa donna 
                  pericolosa per le sue ridicole idee di emancipazione degli indigeni: 
                  “Dove andremo a finire, santo cielo, grida lui , se 
                  i Canachi adesso si mettono a parlare di oppressione” 
                  Questi richiami non spaventeranno L.M. che continuerà 
                  ad avere rapporti con i nativi, e proverà a far capire 
                  loro cosa aveva significato la Comune e la ragione per la quale 
                  lei si ritrovava al bagno penale, cosa che scatenerà 
                  le loro personali confidenze: 
                  “Quando i bianchi sono arrivati, all’inizio 
                  hanno mangiato il piatto di igname che offrivamo loro. Poi hanno 
                  tagliato i nostri alberi, portato via le nostre donne, devastato 
                  le nostre colture, ucciso i nostri animali, preso i posti che 
                  occupavano i nostri villaggi vicino ai corsi d’acqua, 
                  cacciandoci nella foresta. Non ci hanno dato niente, nient’altro 
                  che tristezza, promettendoci la terra e il cielo”. 
                  Le raccontano la storia del progresso, la storia dell’invasione 
                  e la distruzione di tutte le culture diverse dalla nostra che 
                  nei secoli abbiamo come occidentali distrutto in tutto il pianeta. 
                  Con somma vergogna di L.M. la maggior parte dei suoi compagni 
                  di bagno penale, considerando i Canachi inferiori a loro, al 
                  momento della loro rivolta portata avanti da Atai nel 1878, 
                  non si interesseranno alle loro sorti, Louise scrive: 
                  “Loro si battono e sono pronti a morire contro la 
                  tirannia. Voi stessi qui, deportati, banditi, esattamente per 
                  la stessa ragione…e la maggior parte di voi osa negare 
                  i loro diritti!” 
                  L’insurrezione delle zagaglie e delle fionde contro i 
                  fucili europei volge, ovviamente al disastro: diverse tribù 
                  vengono interamente decimate e duemila uomini, all’incirca, 
                  muoiono. 
                  Passati due anni da queste rivolte, l’11 luglio 1880 arrivò 
                  l’amnistia. L.M. ritornò in Francia il 9 novembre, 
                  alla stazione di Saint Lazàre dove fu accolta da migliaia 
                  di persone. Senza stanchezza e senza soste iniziò presto 
                  a fare conferenze. Fondò la “Lega delle donne” 
                  perché voleva che le donne imparassero quali erano i 
                  loro diritti per contrastare le leggi patriarcali forti anche 
                  nei movimenti rivoluzionari. 
                  Il 9 marzo 1883 partecipò ad una manifestazione di disoccupati 
                  durante la quale furono assaltate le panetterie, ma solo contro 
                  di lei fu emesso un ordine di comparizione e fu condannata a 
                  6 anni di carcere. Dopo meno di tre anni di libertà fu 
                  portata prima a Saint-Lazàre e poi nel carcere di Clermont. 
                   
                  Scontata la pena, iniziò un ciclo di conferenze. Il 23 
                  gennaio 1888, durante una conferenza all’Eliseo, subì 
                  un attentato da un uomo pagato da un prete. Una volta deviarono 
                  addirittura il treno su cui viaggiava e imbastirono anche una 
                  serie di false accuse da cui riuscì a salvarsi. Nel 1890 
                  andò a Londra dove conobbe Malatesta, Emma Goldmann, 
                  Kropotkin, Bakunin e Pietro Gori. Fondò nel 1895 il giornale 
                  “Libertario” con Sebastian Faure.  
                  Nel 1902 ritornò in Francia e un anno dopo riprese i 
                  suoi giri di propaganda. Fece conferenze dal titolo: “Ciò 
                  che vogliono gli anarchici” e “Che cos’è 
                  l’anarchia”. 
                  Negli ultimi anni della sua vita raccolse denaro per i moti 
                  rivoluzionari in Italia, per l’indipendenza cubana, per 
                  la rivoluzione spagnola; inoltre lavorò per l’internazionale 
                  antimilitarista. Morì il 29 maggio del 1905 a Marsiglia 
                  per una congestione polmonare, fu seppellita al cimitero di 
                  Levallois salutata da centinaia di migliaia di donne e uomini. 
                  
                  Andrea Staid 
                
                  
                 
                 Topi 
                  d’archivio 
                  che costruiscono 
                Federico Ferretti ha colpito ancora. Dopo il suo primo libro 
                  per Zero in Condotta nel 2007, “Il mondo senza la mappa. 
                  Elisée Reclus e i geografi anarchici”, ora esce 
                  per la stessa casa editrice il suo Anarchici ed editori. 
                  Reti scientifiche, editoria e lotte culturali attorno alla Nuova 
                  Geografia Universale di Elisée Reclus (1876-1894). 
                  240 pagine di testo fitto fitto, anche se di dimensioni un po’ 
                  ridotte, per soli 15,00 euro. 
                  Meno scorrevole alla lettura rispetto a Il mondo senza la mappa, 
                  ma necessariamente così vista la tipologia dell’opera. 
                  Lettura comunque piacevole se si parte dal presupposto di leggerselo 
                  “a pezzi”. Cioè anche andando a cercarsi 
                  le parti che più interessano il lettore e non vincolarsi 
                  alla sequenza narrativa del testo; che va bene comunque per 
                  chi la vuole leggere dall’inizio alla fine, ma non è 
                  la qualità fondamentale dell’opera quella del percorso 
                  espositivo. 
                  Il grande pregio del libro crescerà nel tempo, per i 
                  lettori che lo leggeranno o lo studieranno tra qualche decennio. 
                  Perché si tratta di un lavoro prezioso non solo per “noi”, 
                  ma in generale come testimonianza di certe dinamiche culturali 
                  e intellettuali in un periodo storico che gli anarchici in generale 
                  conoscono e vogliono conoscere dal punto di vista della storia 
                  dei personaggi e del movimento sociale, ma meno dal punto di 
                  vista della “normalità” quotidiana dei soggetti 
                  più conosciuti. 
                  E tanto per cambiare (ironico) Reclus si presenta e spicca come 
                  un caso emblematico di un (ri)conosciuto anarchico che riesce 
                  a fare opera di divulgazione scientifica utile non solo ai militanti, 
                  ma anche agli “altri”, i tiepidi e perfino gli oppositori. 
                  Ferretti ha svolto una ricerca di archivi (plurale) fondamentale, 
                  utile e idealmente motivata. Anche solo dal punto di vista del 
                  tempo dedicato e dell’intenzione/motivazione nessuno fino 
                  ad oggi ha fatto una ricerca del genere e c’è da 
                  dubitare che altri l’avrebbero fatto; il tema anarchici 
                  e simili tira poco sia nel campo accademico che in quello editoriale. 
                  E giustamente Ferretti rileva e si-ci domanda quanti geografi 
                  dichiaratamente anarchici potrebbero oggi vivere (e far vivere 
                  i collaboratori) per 20 anni con i proventi della propria produzione 
                  scientifica. 
                  Il libro ci ricorda che oggi gli anarchici non ci sono nell’immaginario 
                  collettivo (leggasi il sistema mediatico) se non per le bombe 
                  (ancora: uffa!!) dei sedicenti informali, mentre un secolo fa 
                  oltre alla banda Bonnot e a Bresci il dibattito/confronto/scontro 
                  culturale vedeva la presenza degli anarchici anche come scienziati 
                  autorevoli e ascoltati. E il libro ci mostra le modalità 
                  di lavoro, l’impegno, la correttezza professionale e umana, 
                  la tensione verso la precisione delle informazioni, la puntualità 
                  della produzione, la chiarezza delle proprie posizioni nello 
                  scambio di idee e la disponibilità a non irrigidirsi, 
                  ma a trovare il punto di mediazione senza rinunciare ai principi. 
                  In sostanza il mutuo appoggio applicato nella vita e nel lavoro. 
                  Perché dalle lettere, dai documenti d’archivio, 
                  dagli appunti e dalle riflessioni legate al lavoro di stesura 
                  di un’opera durata 18 anni emerge questo, cioè 
                  la capacità di essere militanti nelle cose quotidiane 
                  come pure “nell’ideale”, come pure nello “sforzo 
                  di costruire uno sguardo collettivo autonomo sul mondo” 
                  (p.237) … “che rende la geografia una strategia 
                  politica implicita” (p.238). 
                  Oggi ci vuole proprio una geografia che serve a fare la pace 
                  perché le notizie geopolitiche quotidiane sembrano continuare 
                  a confermare la definizione di Yves Lacoste (1976) che “la 
                  geografia serve soprattutto a fare la guerra”. Un libro 
                  da leggere oggi (soprattutto i giovani che vogliono essere anarchici) 
                  e da lasciare ai nostri figli come eredità nella biblioteca 
                  di casa. Per non dimenticare e aver voglia di tendere al futuro.               
                  
                  Fabrizio Eva               
              
               
                
                   
                      | 
                   
                  
                    Luciano 
                        Bianciardi  | 
                   
                 
                Luciano Bianciardi, 
                  indisponibile al compromesso e al conformismo  
                Il Centro di Documentazione di Pistoia è una delle realtà 
                  più stimolanti e interessanti sopravvissute, felicemente,  
                  agli anni della cosiddetta contestazione. Nato inizialmente 
                  nel 1969 come strumento di raccolta e conservazione del materiale 
                  di propaganda prodotto dai gruppi e dalle realtà della 
                  sinistra extraparlamentare che operavano negli anni Settanta 
                  (un lavoro di raccolta prezioso in anni nei quali il fervore 
                  militante era tale da far dimenticare la necessità di 
                  conservare e coltivare la memoria delle attività e dei 
                  progetti in atto) nel corso del tempo, grazie all’impegno 
                  dei curatori dell’archivio e dei soci della cooperativa 
                  formatasi attorno ad esso, si è dedicato anche e soprattutto 
                  alla diffusione delle conoscenze che nell’archivio, e 
                  tramite l’archivio, si venivano via via accumulando. Nacque 
                  così il Notiziario del Centro di documentazione, 
                  uno strumento prezioso di informazione, attento alle novità 
                  e in grado di aggiornare le bibliografie degli argomenti e delle 
                  istanze inerenti gli interessi e le conoscenze dei movimenti 
                  e delle realtà della sinistra non istituzionale. Questo 
                  Notiziario, che spesso ha assunto la forma di numeri monografici 
                  di grande interesse, ha ormai raggiunto il n. 225, mostrando 
                  così di essere una presenza vitale nel campo dell’informazione 
                  non istituzionale, tanto più essendo fra le poche ancora 
                  oggi operanti fra quelle nate in quegli anni lontani. 
                  Fra le iniziative collaterali legate all’esistenza del 
                  Centro di Documentazione, va segnalata l’ultima nata, 
                  una collana di testi, I Quaderni dell’Italia antimoderata, 
                  con la quale i responsabili del Centro si propongono di riproporre 
                  all’attenzione delle nuove generazioni, ma anche a chi 
                  tanto giovane non è più ma a cui forse sarebbe 
                  bene rinfrescare la memoria, le figure di alcuni personaggi 
                  che hanno segnato i processi culturali più innovativi 
                  ed eterodossi del secondo dopoguerra. Figure che, nella loro 
                  trasversale “marginalità” hanno contribuito 
                  a gettare le basi formative di una nuova griglia interpretativa 
                  della società, quella stessa che sarebbe diventata il 
                  pane quotidiano delle generazioni della contestazione.  
                  Italia antimoderata, dunque, in contrapposizione a 
                  quella “mefitica” e opprimente Italia moderata che, 
                  come spiega l’ideatore della collana Attilio Mangano nella 
                  sua presentazione, già a partire dall’Unità 
                  d’Italia esercitava “il peso rilevante del trasformismo 
                  e del moderatismo sulla società italiana fino a influenzare 
                  pezzi anche rilevanti della sinistra d’allora”. 
                  Un’influenza che ha contribuito ad ingessare il Paese 
                  nella falsa dialettica fra innovazione e conservazione, dove 
                  l’innovazione non era che un processo indolore, ininfluente, 
                  superficiale e sostanzialmente inutile, tale però da 
                  creare l’illusione di una sua preponderanza sulla conservazione. 
                  Questa sì, apparentemente sottotraccia, ma al contrario 
                  effettivamente in grado di “conservarsi” – 
                  si perdoni il gioco di parole – nonostante e contro le 
                  apparenti spinte innovative. E non c’è bisogno 
                  di dire che oggi, “morte” le ideologie, questa falsa 
                  dialettica sia più attuale che mai. Il gigantesco “inciucio” 
                  che ci sta agglutinando come un mostruoso blob è lì 
                  a rammentarcelo. 
                  Ecco dunque che i primi due titoli della collana sono dedicati 
                  a due personaggi che, pur nella differenza dei percorsi esistenziali 
                  e degli ambiti di intervento, sono stati fra i più refrattari 
                  ad essere classificati all’interno di quelle categorie 
                  (“intellettuale organico”, scrittore sociale”, 
                  ecc.) con le quali si codificavano quanti contribuivano a rafforzare, 
                  col proprio lavoro intellettuale, gli schemi e i confini di 
                  una cultura istituzionale, eternamente moderata e pervicacemente 
                  conservatrice. Sono “antimoderati, infatti, coloro che 
                  hanno la coscienza e la capacità di opporsi a chi vorrebbe 
                  depotenziare sempre e comunque tutte le espressioni di antagonismo 
                  e di autonomia dei ceti subalterni, tutte le posizioni di riflessione 
                  culturale e politica che non si ritrovano in questa linea di 
                  pensiero”. 
                  Parliamo di Luciano Bianciardi, l’indimenticato autore 
                  de La vita agra, uno dei romanzi “simbolo” 
                  della difficoltà di vivere negli anni del boom, e di 
                  Giovanni Pirelli, inquieto e attento osservatore dei fenomeni 
                  sociali, fratello di quel ben più famoso Leopoldo, al 
                  quale, in compagnia di Agnelli, Restivo e Colombo si auguravano, 
                  secondo uno dei più frequenti slogan dell’autunno 
                  caldo, le inevitabili “piogge di piombo”. Il terzo 
                  quaderno, già in cantiere, si occuperà di Dom 
                  Franzoni, altra figura emblematica di questo dopoguerra, portatore 
                  con altri di una coraggiosa eresia che contribuirà a 
                  formare uno dei fenomeni più interessanti nati dalla 
                  contestazione, il movimento dei “cattolici del dissenso”, 
                  il vasto contenitore di “nuovi” cristiani impegnati 
                  ad affrancarsi dalla secolare soggezione alle gerarchie e ad 
                  aprirsi all’impegno sociale. 
                  Nel primo fascicolo della collana Giuseppe Muraca traccia un’accurata 
                  biografia di Bianciardi, arricchita da una bibliografia pressoché 
                  completa dei suoi scritti. Il percorso esistenziale di Bianciardi, 
                  parallelo a quello intellettuale, è stato assai complesso, 
                  segnato irrimediabilmente dalla terribile tragedia della miniera 
                  di Ribolla, in provincia di Grosseto, dove persero la vita 43 
                  di quei minatori che erano stati il soggetto di una delle prime 
                  inchieste operaie dell’epoca, effettuata alcuni anni prima 
                  dallo stesso Bianciardi e da un giovane Carlo Cassola. Come 
                  si sa, dopo quella tragedia di cui fu responsabile la Montecatini 
                  (la futura Montedison), Cassola abbandona Grosseto e l’amata 
                  Maremma per trasferirsi a Milano con il vendicativo proposito, 
                  ben descritto nel suo più famoso romanzo, fortemente 
                  autobiografico, di far saltare il grattacielo di quell’industria. 
                  Ma la permanenza a Milano, dove si introduce presto negli ambienti 
                  culturali della sinistra intellettuale, diventerà per 
                  lui una sorta di terra di odio e amore, capace di raffreddarne 
                  i propositi e al tempo stesso di angosciarne la rabbiosa esistenza. 
                  Nonostante il grande successo editoriale della Vita agra, 
                  e la benevola accettazione da parte della cultura meneghina, 
                  nonostante il successo di altre sue opere e l’affermarsi 
                  in campo giornalistico – diventerà anche un apprezzato 
                  ed eterodosso cronista sportivo – nonostante trovasse 
                  un amore capace di sostituire gli affetti famigliari dolorosamente 
                  lasciati a Grosseto, la sua permanenza nella città del 
                  benessere e del miracoloso boom economico dell’Italia 
                  di quegli anni, non riuscirà mai a sopire la sua angoscia 
                  intima e profonda, propria dell’osservatore attento e 
                  disincantato di fenomeni sociali, per tanti aspetti positivi, 
                  ma comunque destinati a stravolgere quei valori sociali ed etici 
                  che lo accompagnavano fino dalle sue prime esperienze giornalistiche 
                  maremmane.  
                  Sarà quella angoscia, dunque, a determinarne le scelte 
                  di vita, aspre nel rifiuto della omogeneità e al tempo 
                  stesso riflesso di una incapacità alla mediazione. Saranno 
                  dure, infatti, le scelte, da quella di rinunciare alla prestigiosa 
                  collaborazione al «Corriere della Sera», fortemente 
                  voluta da Montanelli (sintomatica la scelta di collaborare al 
                  «Giorno», il quotidiano che in quegli anni sovvertì 
                  le regole e gli stili del giornalismo italiano) a quella, altrettanto 
                  “autolesionista”, di creare le condizioni per essere 
                  licenziato dalla Feltrinelli, proprio quando quella giovane 
                  casa editrice si stava dimostrando come una delle realtà 
                  più innovative nella cultura del paese. E con quelle 
                  scelte Bianciardi mostrava la sua innata incapacità di 
                  diventare parte degli ingranaggi del potere, perché la 
                  sua natura “anarchica” era un ostacolo insormontabile 
                  per il compromesso e il conformismo che del potere, intellettuale 
                  o economico che fosse, sono componenti ineliminabili. Saranno 
                  altri i suoi punti di riferimento, quelli per cui continuerà 
                  ad impegnare la propria lucida ed eterodossa intelligenza, gli 
                  ambiti delle conquiste civili, della liberazione dai tabù 
                  e dai pregiudizi, della liberazione dai puntelli sui quali poggia 
                  e si forma il consenso di massa. 
                  La sua parabola umana termina nel 1971 a soli 49 anni, causata, 
                  a giudizio dei medici, dalla cirrosi epatica: “ma la verità, 
                  la vera origine di quello che a molti sembrerà un lungo 
                  suicidio, va cercata molto lontano e non ha radici fisiche. 
                  La cirrosi è solo la punta dell’iceberg…”. 
                  
                  Massimo Ortalli 
              
              
                 
               
                I Machnovisti  
                  tra guerra e rivoluzione 
                La storia del movimento anarchico internazionale registra nel 
                  Novecento due grandi momenti rivoluzionari: la rivoluzione russa 
                  e la rivoluzione spagnola. In entrambi i casi gli anarchici 
                  si sono trovati a lottare su due fronti. In Russia contro lo 
                  zarismo, in Spagna contro franchismo; i rossi, invece, sono 
                  stati sempre gli stessi, con la sola differenza che prima erano 
                  agli ordini di Lenin, poi agli ordini di Stalin. 
                  In Russia la lotta contro i bianchi e contro i rossi è 
                  stata portata avanti soprattutto dal movimento machonovista, 
                  sulla cui storia già esistevano varie testimonianze e 
                  trattazioni, anche di pregio. Ora però è uscita 
                  un’opera storiografica (Alexander V. Shubin, Nestor 
                  Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria 
                  e rivoluzione contadina (1917-1921), Milano, Elèuthera, 
                  2012, euro 15,00), che di Machno e del machnovismo intende dar 
                  conto con un taglio interpretativo incline più alla ricostruzione 
                  “tecnica” dello svolgimento spazio-temporale degli 
                  avvenimenti che al loro significato ideologico. Ne è 
                  risultato un libro molto utile perché offre una esauriente 
                  documentazione di tutto ciò che è successo, sia 
                  dal punto di vista militare, sia dal punto di vista politico.  
                  Il libro di Shubin segue Machno dalla nascita alla morte; comprende, 
                  quindi, anche il periodo dell’esilio in Francia, e offre 
                  perciò un panorama completo della sua vicenda politica 
                  ed umana. 
                  Quello che emerge, innanzitutto, è un quadro di grande 
                  violenza che non risparmia nessuno, in un susseguirsi di fatti 
                  che cambiano rapidamente le situazioni esistenti perché 
                  tutto è sempre fortunoso e precario; un ritmo che rovescia 
                  continuamente ogni conquista in una sconfitta e ogni sconfitta 
                  in una conquista. A ciò si aggiunga il fatto, enorme, 
                  che per oltre un anno - dal 1917 alla fine del 1918 - l’intera 
                  Ucraina è sottoposta alla duplice tensione della guerra 
                  e della rivoluzione; il che spiega l’intreccio inestricabile 
                  di un conflitto allo stesso tempo segnato da una rivoluzione 
                  sociale e da una guerra civile.  
                  Questo carattere fortemente dinamico impresso allo svolgimento 
                  generale degli avvenimenti conforta la convinzione che la rivoluzione 
                  russa abbia avuto, complessivamente, un carattere molto contraddittorio, 
                  nel senso che il risultato finale - la conquista del potere 
                  da parete dei bolscevichi - non risultava allora tanto scontato 
                  ai contemporanei del tempo. Vogliamo dire, in altri termini, 
                  che la rivoluzione russa è stata lungi dall’avere 
                  quel carattere così marcatamente operaio che la successiva 
                  storiografia marxista ha cercato di rappresentare, quello cioè 
                  di una rivoluzione vittoriosa della classe operaia, sotto la 
                  guida di un partito comunista avente un generale consenso nel 
                  Paese. 
                  Tutti sanno che nel 1917 la società russa era composta 
                  da circa 140 milioni di individui, di cui oltre 100 erano contadini, 
                  mentre gli operai non raggiungevano la quota di 3 milioni. Gli 
                  operai, dunque, non superavano il 2, 5% dell’intera popolazione. 
                  Sempre nel 1917 in tutta la Russia i seguaci di Lenin risultavano 
                  23.600 - totale degli iscritti al partito - e a Pietrogrado, 
                  vale a dire nella città dove i bolscevichi riuscirono 
                  a attuare il loro colpo di mano, non erano più del 5% 
                  di tutti i lavoratori industriali, numero, a sua volta, del 
                  tutto insignificante rispetto ad una popolazione complessiva 
                  di 2 milioni di persone. Ha ripetutamente scritto Trotsky che, 
                  nell’intera Russia, a dar seguito alla presa del potere 
                  nell’ottobre del ’17 furono circa 25.000 militanti 
                  bolscevichi. Il putsch d’ottobre, avvenuto dopo tre tentativi 
                  - aprile, giugno, luglio - di far crollare il governo Kerenskij 
                  con agitazioni di piazza, non ebbe pressoché alcun carattere 
                  cruento e fu il frutto di circostanze altamente fortuite. Occupate 
                  le installazioni chiave della capitale, l’ufficio delle 
                  poste e del telegrafo, l’ufficio centrale dei telefoni, 
                  il quartier generale del comando militare del governo, i bolscevichi 
                  assaltarono il Palazzo d’Inverno. Insomma se non vi fosse 
                  stata la guerra, i bolscevichi non sarebbero riusciti a prendere 
                  il potere. Conclusione: la rivoluzione d’ottobre non 
                  fu una rivoluzione di popolo, ma l’esito fortunato del 
                  colpo di mano di un piccolo partito. 
                  Anche se gran parte della dialettica politica che ha dato vita 
                  alla rivoluzione si espresse nei grandi centri urbani, la sua 
                  autentica natura popolare fu quella datale dalla presenza e 
                  dal protagonismo contadino, ideologicamente anarchico nella 
                  sua immediata espressione sociale. Come scrisse il capo supremo 
                  dell’esercito russo, il generale Alekseevc Brusilov: i 
                  soldati, gli operai e i contadini «non avevano la minima 
                  idea del comunismo, del proletariato e della costituzione. Volevano 
                  la pace, la terra, la libertà di vivere senza leggi, 
                  senza ufficiali, senza proprietari terrieri. Il loro “bolscevismo” 
                  in realtà non era che una formidabile aspirazione alla 
                  libertà senza remore, all’anarchia». 
                  Pare difficile negare l’importanza del movimento machonovista, 
                  che proprio di questo carattere è stato senz’altro 
                  la sua espressione più radicalmente rivoluzionaria ed 
                  egualitaria. Si consideri il fatto che Machno e i suoi seguaci 
                  riuscirono a organizzare un movimento politico e sociale in 
                  pochissimo tempo e in una situazione altamente caotica. Il seguito 
                  popolare di questo movimento era sicuramente notevole, come 
                  è dimostrato dai vari tentativi di instaurare un autentico 
                  regime egualitario e libertario, perfino all’interno dell’apparato 
                  militare.               
                  
                  Nico Berti               
              
                 Alexander V. Shubin, Nestor Machno: 
                  bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione 
                  contadina (1917-1921), Milano, Elèuthera, 2012, 
                  euro 15,00. 
                 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    Nestor 
                        Ivanovic Machno 
                        (Guljaj Pole, 26 ottobre 1888-  
                        Parigi, 25 luglio 1934)  | 
                   
                 
                Nestor Machno, 
                  il video 
                Dopo i lunghi decenni di silenzio imposti 
                  dalla storia ufficiale, Hélène Châtelain, 
                  regista cinematografica belga di famiglia russo-ucraina, è 
                  tornata sui luoghi della machnovscina raccogliendo inedite testimonianze 
                  che attestano una sorprendente sopravvivenza della figura di 
                  Nestor Ivanovic Machno nell’immaginario popolare. Viene 
                  così ricostruita, nel video Nestor Machno e la rivoluzione 
                  anarchica in Ucraina, 1917-1921,regia di Hélène 
                  Châtelain dvd 59’30’’ colore) anche 
                  attraverso rare immagini d’archivio, non solo l’insurrezione 
                  armata contadina ma anche la vita straordinaria del suo leader 
                  carismatico. 
                  Sconfitto dall’Armata Rossa nel 1921, è costretto 
                  a lasciare l’Ucraina e nel 1925, dopo varie peregrinazioni, 
                  si rifugia infine a Parigi. Lì lo insegue una domanda 
                  di estradizione da parte del nuovo regime di Mosca per «tradimento 
                  della patria, omicidio e saccheggio». Morirà in 
                  esilio nel 1934, povero com’era nato. Eppure, la sua tomba 
                  al cimitero di Père Lachaise è ancor oggi meta 
                  di un curioso pellegrinaggio laico, testimoniato dai tanti bigliettini 
                  lasciati dai visitatori, in particolare visitatori ucraini che 
                  non hanno mai dimenticato la storia ormai leggendaria del loro 
                  Batko Machno, il «piccolo padre» che novant’anni 
                  fa aveva dato speranza alla loro aspirazione di libertà. 
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                  V. Shubin Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. 
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                    Autunno 
                        1918: un distaccamento machnovista durante la guerriglia 
                        partigiana contro le truppe 
                        di occupazione austrotedesche  | 
                   
                 
                
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