Ogni tanto (è 
                        questa la seconda volta) approfitto della mia rubrica 
                        “… e compagnia cantante” per segnalare 
                        libri che hanno a che fare con la musica, col canto o 
                        con un atteggiamento narrativo che ricostruisce e lavora 
                        sui meccanismi dell’oralità. In queste occasioni 
                        la rubrica modifica il suo titolo, da “cantante” 
                        a “scrivente”.  
                       Alessio  | 
                   
                 
                  
                Voglio un monumento in Piazza Scala: 
                  la Milano musicale di Gino Negri  
                  di Marco Moiraghi 
                 Finalmente esiste qualcosa su Gino Negri! 
                  Un bel libro, una goccia nel mare, ma solo perché è 
                  impossibile racchiudere un tale fiume in piena in un libro… 
                  servirebbe un’enciclopedia per Gino. 
                  Gino Negri fu in effetti un personaggio illuminista e futuribile 
                  al contempo, un uomo di «intransigenza indirettamente 
                  libertaria». Il grande musicologo Massimo Mila ebbe a 
                  dire «la musica di Negri rifiuta di farsi un linguaggio 
                  proprio. Prende quello che c’è come facevano gli 
                  operisti del Settecento. Prende i vocaboli sonori che ogni giorno 
                  ci gettano addosso gli altoparlanti nelle ore dei pasti (…). 
                  Una koiné, una lingua comune di basso conio che Negri 
                  adopera col coraggio con cui un bravo addetto alla nettezza 
                  urbana manovra i contenitori standardizzati dei rifiuti domestici, 
                  non senza essersi protetto le mani coi guantoni dell’ironia». 
                  Compositore di formazione classica, spirito inquieto, folletto 
                  intraprendente. Interessato da mille cose, colto, curiosissimo, 
                  per cinquant’anni fu il collaboratore musicale d’eccellenza 
                  dei più importanti teatri milanesi (il Piccolo degli 
                  anni più eroici 1951-1966, il Pierlombardo 1969-1982) 
                  e soprattutto fu uno degli inventori di quella straordinaria 
                  stagione di cabaret dei primi anni ’60, dalla quale uscì 
                  il meglio della canzone e del teatro italiano, politico e non. 
                  Negri ebbe rapporti diretti con due templi di questo genere 
                  nascente il Teatro Gerolamo e il Cab ’64. 
                  Negri tentato nei primi anni dalla composizione colta di gusto 
                  dodecafonico, si incuriosì prestissimo della musica applicata 
                  e incontrò il mondo della canzone dedicandoci il meglio 
                  delle proprie energie. Negri è uno di quegli eclettici, 
                  che riempiono d’entusiasmo e di un’inesauribile 
                  verve un’epoca intera. Sono personaggi che la musoneria 
                  monotematica della cultura italiana ama poco e cancella prestissimo, 
                  perché noi l’arte l’amiamo nei musei più 
                  che nella vita. 
                  La scelta fatta dal benemerito editore Squilibri e dall’autore 
                  Marco Moiraghi è inedita ma eccellente. In questo primo 
                  libro interamente dedicato al musicista milanese la sua multiforme 
                  attività è seguita attraverso i collaboratori 
                  e i luoghi che lui animò. Un ritratto corale che mescola 
                  le voci e gli ambienti. Un personaggio dinamico e sfuggente, 
                  imprendibile, che solo attraverso le battute di chi gli ha voluto 
                  bene e ha lavorato con lui ci appare come in un riflesso. 
                  Al libro sono allegati due importanti CD, che dopo tanto tempo 
                  e in certi casi per la prima volta rendono disponibile un po’ 
                  del lascito di quest’artista. I dischi si concentrano 
                  principalmente (ma non solo) sulla sua produzione, diremmo, 
                  leggera… che poi leggera proprio non è, visto che 
                  Negri non cela mai il suo rapporto fondante con la musica colta, 
                  e molto spesso le canzoni sono solo un altro modo per rifletterci 
                  sopra. 
                  A me lui apparve, di sfuggita e per caso, alla fine degli anni 
                  ’80 in un ciclo di trasmissioni televisive che rievocava 
                  la storia e i protagonisti del Derby club e dunque di tutto 
                  il cabaret milanese. Gino, ormai anziano e già un po’ 
                  offeso nel fisico dagli acciacchi che lo avrebbero portato a 
                  morte (nel 1991 a 72 anni), eseguì in piedi al pianoforte 
                  due irresistibili canzoni, due parodie bibliche, una sulla figura 
                  di “Mosé d’Egitto” e l’altra 
                  sulla “Moglie di Lot”, che trasformata in statua 
                  di sale, viene impiegata dal marito a scopi alimentari. Le trovai 
                  geniali, folli irresistibili, condotte con una nonchalance che 
                  era un prodigio di sapienza scenica e musicale. Il piccoletto 
                  bleso e un po’ luciferino pestava sui tasti e si scalmanava. 
                  Sono più di vent’anni dunque che cercavo qualcosa 
                  di più consistente su di lui. Ogni tanto in libreria 
                  avvengono ancora dei miracoli. 
                 
                  
                La città possibile  
                  di Ivan Della Mea 
                L’attenzione dei collaboratori di una vita, l’editore 
                  Jaca Book, e l’amorevole cura della memoria di Clara Longhini 
                  e Pietro Della Mea (rispettivamente moglie e figlio di Ivan) 
                  ci permettono di addentrarci nell’universo di quello straordinario 
                  intellettuale disorganico armato di chitarra, amore e indignazione 
                  che fu l’Ivan, il Mea, il maestro, il compagno, il nostro 
                  carissimo cantautore. 
                  È appena uscito un libro che raccoglia una bella quantità 
                  degli articoli scritti fra il 1988 e il 1993 da Ivan per l’Unità, 
                  qualche volta per l’edizione nazionale, più spesso 
                  per le pagine milanesi. Sono articoli appassionati per un tempo 
                  appassionante: il fondo degli anni del Craxismo nella Milano 
                  da bere, ormai bevuta, scolata e gettata via come una lattina 
                  crepata. Quegli anni che attraverso l’affermazione leghista, 
                  la rivoluzione di mani pulite delegata alla magistratura, e 
                  i prodromi del berlusconismo a venire, preparavano il presente 
                  che stiamo vivendo.  
                  Sono anni affastellati e confusi anche nella memoria di chi 
                  c’era…figuriamoci cosa ne può sapere chi 
                  non c’era o era troppo piccolo per capire. Sono anni fondamentali 
                  perché, un passo oltre la strategia della tensione, ma 
                  anche spenti i fuochi della passione ideologica di massa (non 
                  solo quelli extra-parlamentari, anche il PCI aveva appena cambiato 
                  nome) e rintanati tutti davanti alle TV, si preparava lo sfascio 
                  culturale ed etico che abbiamo vissuto nei 20 anni che son seguiti. 
                  Sono anni poveri di avvenimenti roboanti, sono anni che la Storia 
                  (con la S maiuscola) non sa descrivere, ma che, come le bombe 
                  e il piombo del quindicennio precedente, hanno seminato una 
                  morte silenziosa e privata nella società italiana in 
                  generale e milanese in particolare. Per descrivere quegli anni 
                  ci vuole la coscienza di un Della Mea, un osservatore acuto 
                  e sempre parziale, una testa matta, ma lucida come i professionisti 
                  della cronaca non sono mai.  
                  Ci vuole la penna di Della Mea, un caparbio che fa la strada 
                  opposta a tutti gli altri: gli altri riportavano i grandi avvenimenti 
                  nel proprio piccolo orizzonte, Ivan proiettava le proprie battaglie 
                  personali, di quartiere – esemplare l’energia profusa 
                  nella difesa dell’ARCI Corvetto – sullo schermo 
                  della politica nazionale. 
                  L’eco di queste battaglie, di quest’impegno, del 
                  cuore troppo generoso e troppo affollato di cose e di persone 
                  di Ivan, lo si ritrova in questo libro, in questi frammenti 
                  della stupenda, assurda, indispensabile illusione di poter cambiare 
                  il mondo, anche con un articolo sulla pagina locale di un giornale. 
                 
                 
                  
                Non mi basteranno due occhi per piangere 
                   
                  di Angelica Paolorossi 
                Un romanzo sconcertante, da non dormirci la notte, per quant’è 
                  bello e per quant’è tremendo. Un dolore da bersi 
                  tutto d’un fiato e poi da seppellire in fondo alla libreria, 
                  però un dolore necessario. 
                  M’è capitato quasi per caso per le mani questo 
                  libro: piccola e misteriosa la casa editrice anconetana (Gwynplaine, 
                  nome ispirato al più inquietante personaggio di Victor 
                  Hugo), singolare l’autrice, simpatizzante anarchica, sepolta 
                  nella propria provincia e paranoicamente spaventata dal mondo, 
                  aggredisce la materia nuda del dolore con parole/pugnali. 
                  La storia di “Non mi basteranno due occhi per piangere” 
                  è quella di una ragazzina dominicana che giunge in Italia 
                  attratta dal miraggio delle possibilità, e poi, depredata 
                  dei documenti, è costretta alla schiavitù e scende, 
                  uno per uno, gli scalini della degradazione, della cancellazione, 
                  della miseria. La storia è tremenda e consueta, e starebbe 
                  tutta in un articolo di giornale tristemente uguale a mille 
                  altri. Il linguaggio incandescente dell’autrice però 
                  ci fa entrare nel cuore di questa tenebra. Il fraseggio è 
                  spezzato, ritmico, cattivo: una mitragliata di parole. Il punto 
                  come solo e continuo segnale di pausa e rilancio immediato della 
                  parola che segue, non consente di riprendere fiato, l’assenza 
                  totale di ogni altra interpunzione conduce a un ritmo asfissiante 
                  questo delirio reale. È poesia come dovrebbe essere la 
                  poesia e come raramente se ne trova in giro, artigliata al reale 
                  e allucinata nella forma.  
                  È un poema in prosa, anzi un Poema in Prozac, 
                  di cento pagine. Chiarissima, abbacinante la prosa di Angelica 
                  Paolorossi costruisce la vicenda tornante per tornante, chiarendoci 
                  subito che tutto andrà per il peggio eppure inchiodandoci 
                  a questa confessione senza assoluzione. La protagonista stessa, 
                  Alessia, come in un libro di Stevenson, si sdoppia nell’amica, 
                  compagna di sventura, Eva. Quanto Alessia è rassegnata 
                  e torpida nello sprofondare, Eva è vitale e sogna, disegna 
                  case (vuole fare l’architetto), resiste e si batte per 
                  uscire dal fango, per ricomprare la propria libertà. 
                  Ma è proprio la speranza a essere inaccettabile in questa 
                  vita: Eva l’indomita soccombe al proprio stesso autolesionismo 
                  (l’altra faccia della vitalità) e finisce suicida. 
                  La protagonista compie fino in fondo il proprio cammino attraverso 
                  la violenza e la sopraffazione, eppure mantiene un proprio angelico 
                  distacco, un’intercapedine di solitudine a proteggerla 
                  dal mondo, in mezzo al quale avanza verso un finale che non 
                  può essere lieto, pur lasciato in sospeso, come la vita 
                  del lettore quando si stacca turbato da questo romanzo vero. 
  
                  Alessio Lega 
                  alessio.lega@fastwebnet.it 
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