rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


indignados

Ma quale culla della democrazia?

di Stefano Boni

David Graeber è considerato una delle voci più autorevoli dei movimenti “Occupy” che da mesi stanno modificando
il quadro politico-sociale negli USA.
Esaminiamo qui il suo ultimo libro edito da Elèuthera “Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta”.

 

L’invenzione della democrazia. Movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta offre una delle critiche più stringenti alla pretesa che sia esistita una civiltà Occidentale, che questa sia stata la culla della democrazia e che le forme governative odierne siano denominabili democratiche. La narrazione denuncia la distanza che c’è tra la concezione contemporanea del termine, usato per istituzioni politiche gerarchiche fondate sulla delega elettorale, e le concezioni e pratiche democratiche espresse dall’umanità.

La parola “democrazia” ha significato cose diverse nel corso della storia. Quando fu coniata, si riferiva a un sistema in cui i cittadini di una comunità prendevano decisioni attraverso un voto di pari peso in un’assemblea comune. Per gran parte della storia è stata identificata con disordine politico, sommosse, linciaggi e violenza faziosa (aveva di fatto le stesse connotazioni che ha oggi il termine “anarchia”).

Democrazia, significa potere del popolo, Graeber ci ricorda inteso come forza, anche violenta. La sua caratteristica rilevante dovrebbe essere – in confronto con altri sistemi politici (dittatura, monarchia, oligarchia, teocrazia) – l’ampia distribuzione del potere suggerita dalla nozione di popolo; può essere intesa come istituzione politica egualitaria confondendosi, in questo senso, che è quello sposato da Graeber, con la nozione di anarchia ovvero una configurazione del potere diffuso, distribuito in maniera tendenzialmente egualitaria tra le persone, ognuna portatrice di parola pubblica, di istanze, di volontà, che vanno considerate e rispettate nelle decisioni collettive. Si tratta quindi di valorizzare la nozione.

Ritengo che ci sia una ragione per cui la parola “democrazia”, non importa quanto venga abusata da demagoghi e tiranni, conservi ancora la sua ostinata attrazione popolare. Per molte persone la democrazia è ancora identificata con l’immagine di persone comuni che cercano di risolvere i propri affari in maniera collettiva.

Ricondurre la nozione di democrazia alla sua forma assembleare, orizzontale, inclusiva permette di smascherare, come fa Graber, sia i meccanismi gerarchici delle autoproclamate democrazie contemporanee, sia i processi di mistificazione selettiva attivati da queste per darsi una profondità storica e una determinata connotazione identitaria: il revival democratico europeo a partire dal Settecento sceglie l’Atene classica come mito fondativo delle istituzioni politiche occidentali. Graeber si scaglia contro la tradizione intellettuale che si ostina a cercare

le origini della democrazia proprio là dove è meno probabile trovarle: nelle proclamazioni degli stati che hanno in gran parte soppresso le forme locali di autogoverno e di scelta collettiva e nelle tradizioni filosofiche e letterarie che li giustificano in questa soppressione (questo può aiutarci a spiegare perché in Italia, in Grecia e in India le assemblee sovrane appaiono agli inizi della storia scritta e scompaiono quasi subito).
David Graeber (New York, 1962),
antropologo e anarchico, insegna alla
Goldsmiths University di Londra,
ma è anche uno dei più attivi esponenti del
movimento Occupy Wall Street.
Da questo posto di osservazione
privilegiato guarda da antropologo
la sperimentazione sociale che i nuovi
movimenti sociali fanno nel vivo dell’azione.
Non a caso ha da poco
pubblicato la monumentale ricerca
Direct Action: an Ethnography, nella quale
mette insieme passione e competenza
per descrivere l’azione diretta all’opera,
con i suoi limiti e la sua carica rivoluzionaria

Democrazie ai margini

Nonostante il progressivo l’affermarsi di istituzioni politiche centralizzate Graeber documenta, con un ampio corredo di esempi storici ed etnografici, l’esistenza, dentro ma soprattutto ai margini degli Stati, di circuiti culturali, intesi dall’autore come egualitari, con istituzioni politiche orizzontali e polifoniche, spesso innestate nella vita sociale. In questo senso la democrazia non è una nozione filosofica ma una prassi politica che emerge di continuo, con più o meno forza, nella storia umana.

Che si tratti dei membri delle comunità zapatiste del Chiapas, dei piqueteros disoccupati in Argentina, degli squatter olandesi o degli attivisti che si oppongono agli sfratti delle township sudafricane, quasi tutti sono d’accordo sull’importanza di strutture orizzontali piuttosto che verticali; sull’urgenza di iniziative che procedano dal basso, salendo a partire da piccoli gruppi autonomi e auto-organizzati, piuttosto che ricevere comunicazioni dall’alto attraverso una catena di comando; sul rifiuto di strutture di leadership designate e permanenti e sulla necessità di un meccanismo che permetta di far sentire le voci di coloro che si trovano di solito marginalizzati o esclusi dai processi di partecipazione tradizionali (applicando meccanismi come le tecniche di “facilitazione” e “creazione del consenso” diffuse negli ambienti libertari di lingua inglese, o seguendo le strategie delle assemblee di donne e giovani nello stile zapatista, tra tanti esempi possibili).

La loro collocazione, e questa è una delle tesi di fondo del testo di Graeber, è spesso negli spazi interstiziali, caratterizzati da una significativa ibridazione culturale e che si ritagliano – o viene lasciata loro – una certa autonomia, parzialmente liberi dal controllo di Stati centralizzati. La democrazia diretta sopravvive, come ci dice Graeber “in quei domini dell’attività umana verso cui gli Stati o imperi hanno poco interesse”.

Letture semplicistiche ed eurocentriche

L’autentica democrazia segue logiche diverse da quelle del voto.

La procedura di creazione del consenso è tipica di quelle società in cui non c’è modo di obbligare una minoranza a trovarsi d’accordo con le decisioni della maggioranza, o perché non esiste uno stato con il monopolio della forza coercitiva, o perché lo stato non tende a intervenire nella presa delle decisioni locali, perché non è interessato a farlo. Se non c’è modo di obbligare chi trova ripugnante la decisione di una maggioranza a seguirla, allora l’ultima chance da adottare è il voto, ovvero una sfida pubblica in cui qualcuno perderà pubblicamente. Probabilmente votare garantirà quell’insieme di umiliazione, risentimento e odio che alla fine conduce alla distruzione le comunità.Come può dirvi qualsiasi attivista che abbia partecipato a un training di facilitazione per un gruppo di azione diretta contemporanea, un processo consensuale non ha niente a che vedere con un dibattito parlamentare e la ricerca del consenso non assomiglia in nulla al voto. Abbiamo piuttosto a che fare con un processo di compromesso e sintesi volto a produrre decisioni che nessuno troverà così violentemente spiacevoli da non dover dissentire.

Le pratiche democratiche – definite come procedure di presa di decisioni egualitarie oppure come forme governative attraverso le pubbliche discussioni – tendono a emergere da situazioni in cui comunità di un tipo o dell’altro gestiscono i propri affari al di fuori dell’ambito dello Stato. L’assenza del potere statale implica l’assenza di un sistematico meccanismo di coercizione che possa far rispettare le decisioni prese, con la conseguenza che avremo o una forma di consenso popolare oppure, come nel caso di formazioni militari, quali gli opliti greci o i pirati, un sistema di votazione maggioritario (dal momento che in casi del genere se si arriva all’uso della forza i risultati sono scontati). L’innovazione democratica e l’emersione dei cosiddetti “valori democratici” tendono a fiorire dalle “zone di improvvisazione culturale”, di solito al di fuori dal controllo dello stato, in cui diversi tipi di persone con differenti tradizioni e esperienze sono costrette a inventarsi un qualche modo per rapportarsi gli uni con gli altri. Esempi di queste esperienze sono le comunità di frontiera in Madagascar o nell’Islanda Medievale, le navi pirata, le comunità mercantili dell’Oceano Indiano, le confederazioni di Nativi Americani ai margini dell’espansione europea. Tutti questi esempi hanno poco a che fare con le grandi tradizioni letterarie e filosofiche considerate come i pilastri della grandi civiltà: con poche eccezioni, queste tradizioni sono decisamente ostili alle procedure democratiche e alle persone che le adottano. Le élite di governo, dal canto loro, tendono a ignorare queste forme o a calpestarle.

L’ordine statale diventa prevalente, si afferma man mano che soffoca le diversità culturali; e si dispiega sempre più su scala globale grazie agli strumenti di sopraffazione militare, economica e ideologica di cui è dotato, grazie al disumanizzato perfezionamento tecnico nei vari campi. Ma, come spiega Graeber, di democratico le “forme repubblicane di governo”, ovvero le istituzioni politiche degli ultimi secoli, non hanno nulla, “si sono impossessate del nome”.
Graeber scardina letture semplicistiche ed eurocentriche arricchendo la sua critica decostruttiva con una documentazione a tutto campo sulle apparizioni storiche della democrazia diretta. L’autore, uno tra gli antropologi più stimolanti di questo periodo, affronta queste tematiche, proponendo analisi che appaiono scandalose nella loro formulazione iniziale per poi risultare convincenti o perlomeno interessanti da vagliare, a fine libro. Nella tradizione più recente dei pensatori libertari nelle scienze umane, mira a spiazzare il lettore e ad offrirgli una varietà di stimoli e proposte, rivelatrici di un posizionamento politico che non genera assiomi né chiede al lettore un’adesione acritica. Gli aneddoti e le storie di forme umane distanti mettono in crisi le credenze egemoniche ed allargano il campo del pensabile. È una lettura feconda, complessa, ricca e arricchente.

Stefano Boni

Leggere Graeber

Dopo un lavoro squisitamente teorico sul concetto di valore (1), nel 2004 Graeber pubblica Frammenti di antropologia anarchica, Elèuthera, Milano, 2006. Nel 2005, Graeber viene allontanato dalla università di Yale. La decisione dei membri anziani della sua facoltà crea scandalo perché il profilo di insegnante e di ricercatore di Graeber non sono in discussione: il mancato rinnovo del contratto appare motivato dalla volontà di censurare l’attività politica e dalla difesa di una studentessa, anche lei attiva politicamente impegnata e quindi soggetta alle attenzioni disciplinari dagli organi accademici. Negli ultimi anni, Graber diventa un protagonista delle riviste politiche e accademiche, proponendo una irriverente critica alla isterica e fuorviante rappresentazione dei manifestanti anti-globalizzazione statunitensi come violenti e pericolosi; (2) una descrizione del funzionamento dell’apparato repressivo delle università americane; (3) una riflessione su globalizzazione e nuovi attivismi politici al cuore dei quali starebbe – secondo Graeber – l’anarchia. (4) Nel 2009, pubblica Direct Action. An ethnography, AK Press, Oakland, una etnografia minuziosa del movimento anti-globalizzazione statunitense all’alba del secondo millennio.
Graeber sembra dotato di una certa capacità di preveggenza. In L’invenzione della democrazia. Movimenti, crisi dello stato, democrazia diretta, scritto qualche anno fa, vengono preannunciate, le forme dei movimenti che hanno incendiato i cuori e cominciato a dare, nel corso dell’ultimo anno, una incipiente forma organizzativa alla volontà popolare in diverse contesti europei, mediterranei e nordamericani. Graeber, non a caso, ha recentemente partecipato alla fase iniziale del movimento Occupy Wall Street e scritto articoli in difesa delle mobilitazioni. (5) Al contempo, Graeber fa ricerca sul debito nel momento in cui scoppia la bolla finanziaria, basata sulla incapacità dei debitori di ripagare le rate ai tassi richiesti, e pubblica The Debt. The first 5,000 years, Melville, New York, 2011 (in arrivo l’edizione italiana per il Saggiatore) nel momento in cui il debito pubblico in Europa diventa il grimaldello ideologico per imporre nuove, e più dure, misure neoliberiste nella forma di nuove tasse sulle fasce più povere, della progressiva perdita di potere di acquisto dei salari, dell’ennesimo attacco ai servizi sociali, alle risorse pubbliche, ai minimi diritti rimasti nei contratti lavorativi.

S.B.

Note

  1. Graeber D. Toward an anthropological theory of value: the false coin of our own dreams, Palgrave, New York, 2001.
  2. Graeber D. “Lying in wait”, The Nation, 19 Aprile 2004.
  3. Frank J. “Without Cause: Yale Fires An Acclaimed Anarchist Scholar. An Interview with David Graeber”, www.counterpunch.org, 13-15 Maggio 2005.
  4. Graeber D. “The new anarchists”, New Left Review, n. 13, Gennaio-Febbraio 2002.
  5. Graeber D. “With No Future Visible, Young Activists Have Few Options but to ‘Occupy Wall Street’”, www.alternet.org, 26 Settembre 2011.