rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


attenzione sociale


a cura di Felice Accame

 

Il linguaggio
come discriminante
tra le specie

 

1. Ne L’uomo che credeva di essere morto (1), il neurobiologo Vilayanur S. Ramachandran afferma con perentorietà che “l’uomo è l’unica creatura che possieda un vero linguaggio”. Dal momento che, però, non è né stupido né autoritario – ovvero metodologicamente scorretto -, Ramachandran si affretta a portare prove a sostegno della propria affermazione cominciando col distinguere il linguaggio da ciò che linguaggio non è. Elenca così “cinque caratteristiche che rendono il linguaggio umano unico e radicalmente diverso da altri tipi di comunicazione”. Analizzerò una ad una queste caratteristiche.
La prima è quella relativa all’ampiezza del nostro vocabolario. Si dice che a otto anni un bambino utilizzi circa seicento parole e questo numero “supera di due ordini di grandezza” quello dei richiami del cercopiteco grigioverde. È lo stesso Ramachandran a far notare che questa “è una questione più quantitativa che qualitativa”. Via una. Ne rimangono quattro.
La seconda è quella relativa al “fatto” (lo metto io tra virgolette, in attesa di poterlo o non poterlo avvalorare come tale) che “solo l’uomo ha parole funzionali che esistono esclusivamente nel contesto del linguaggio”. A dire il vero le parole dovrebbero esser tutte “funzionali”, ma qui si intende semplicemente riferirsi agli elementi di correlazione tra i vari correlati. Per esempio: in “se il cane abbaia, allora c’è una volpe”, “se” e “allora” vengono certamente classificate come “funzionali”, mentre “cane” e “volpe” certamente no. Ugualmente, da una parte dovremmo mettere “il”, “ci” e “una”, mentre dall’altra “abbaia” e “è”. La questione è piuttosto complicata – e, infatti, è annosa, molto discussa e discutibilissima –, ma qui posso anche soprassedere. Mi limito a porre una domanda: come può Ramachandran sostenere che altri animali, nel loro specifico sistema di comunicazione, non abbiano sviluppato forme espressive capaci di soddisfare una differenza analoga? Si pensi a determinate sequenze di posture del cane assunte in vista dei più svariati scopi o anche alle espressioni del “muso” (mi sembra quasi politicamente scorretto non chiamarla “faccia”) con cui accompagna il passaggio da una fase all’altra delle coccole che riceve. Sono ipotesi che non saprei come scartare a priori. Ma, se si vuole andare sul sicuro, si verifichi la documentazione relativa al Lana Project – l’addestramento di uno scimpanzé alla comunicazione con l’uomo tramite computer – e si riscontrerà come, dopo averle insegnato con la gradualità opportuna, Lana utilizzi regolarmente sia parole di un tipo come dell’altro (come in “put ball into box”, o in “move out-of room”, o in “Tim give banana which-is black to Lana”, dove le parole “funzionali” sono almeno due) (2). Via due. Ne rimangono tre.
La terza è quella relativa all’uso umano di parole in mancanza di ciò cui si riferiscono. Posso parlare della partita di calcio di ieri, insomma, come di quella di domenica prossima o di quella che immagino nella mia mente. “Questo tipo di complessità”, dice Ramachandran, “non si trova in quasi nessuna delle forme spontanee di comunicazione animale”. Si sarà notata la doppia cautela: c’è un “quasi” e la specificazione della “spontaneità” (Ramachandran sarebbe il primo ad ammettere che questa “spontaneità” non è chiarissimo in che consista) che la dicono lunga. “Le scimmie a cui si insegna il linguaggio dei segni” – non sta parlando di Lana, sta parlando di parecchie altre addestrate in tutt’altro modo – “sanno naturalmente usare i segni in assenza dell’oggetto a cui ci si riferisce”. Lo dice lui. Lo dice tra parentesi ma lo dice lui. Ho pertanto l’impressione che via tre. Ne rimangono due.
La quarta è quella relativa all’uso di metafore e di analogie. Vorrei innanzitutto chiarire la differenza tra i due termini: il primo designa una sequenza di operazioni mentali cui corrisponde un risultato di ordine linguistico; il secondo designa la specificità di queste operazioni mentali. Se altri me la spiegano in termini diversi si facciano pure avanti. Qui, comunque, il punto resta un altro. È Ramachandran stesso a mettere in dubbio che “solo l’uomo” ricorre a questi due marchingegni, perché “quando, tra le scimmie, un maschio alfa mostra i genitali per intimidire un rivale e indurlo alla sottomissione, il gesto equivale alla metafora ‘Vaff…’ con cui gli uomini si insultano a vicenda”. Lui se lo domanda, ma cosa ne pensa è chiaro: sì, più o meno sì. E gli esempi – con cani, gatti, uccelli – potrebbero moltiplicarsi. Via quattro, allora. Ne rimane una.
La quinta è quella relativa alla sintassi. “La sintassi flessibile e ricorsiva si trova solo nel linguaggio umano”. Sarebbe una tesi sostenuta “in genere” dai linguisti che servirebbe loro a dimostrare, durante qualche fase dell’evoluzione della specie, l’avvento di un “salto qualitativo” tra la comunicazione umana e qualsiasi altra forma di comunicazione animale. Presentando la sintassi “un numero superiore di regolarità” – rispetto a che? Rispetto alla semantica? – “può essere affrontata in modo più rigoroso di altri aspetti maggiormente nebulosi del linguaggio”. Non a caso, Chomsky ci ha perso dietro tanto tempo per poi accorgersi che, ma guarda un po’, nel linguaggio c’è anche un aspetto semantico che, forse, non andrebbe trascurato. Sarà comunque studiabile nel modo più “rigoroso” – o, meglio, sarà formalizzabile – quanto si voglia, ma resta il fatto che qualsiasi osservazione dei comportamenti comunicativi di altri animali pone in evidenza sequenze ordinate di segni. Non solo c’è ancora Lana a dimostrare la correttezza sintattica con cui comunicava con gli sperimentatori, ma basta giocare con un cane che non si può fare a meno di rilevare regolarità – le sue regolarità, ovviamente, non le nostre: occhi, ringhio, assalto e fuga, per esempio, nella finta aggressione che il nostro cane Papere si divertiva ad inscenare appena giunti ai giardinetti pubblici. Via cinque, ahimé, e non ne rimane nessuna.
O, meglio, più avanti Ramachandran torna alla carica – per interposta persona, e prova da aggiungerne una sesta. Cita un saggio di Noam Chomsky e di Marc Hauser – un linguista e un neuroscienziato –, pubblicato su “Science” nel 2001 e tutto dedicato all’esclusività del linguaggio a favore della specie umana. Ivi, i due autori “avevano scoperto che quasi ogni aspetto del linguaggio si poteva osservare, dopo adeguato addestramento, in altre specie”, ma che “l’unico aspetto che rendeva la struttura grammaticale profonda dell’uomo unica era l’inclusione ricorsiva”. Fiumi di inchiostro sono già stati dispersi per mettersi d’accordo su cosa sia una “struttura grammaticale profonda” e su come si distingua da una “superficiale” – il profondo e il superficiale presuppongono un volume e qui non è chiaro di cosa consista questo volume – e non ho intenzione alcuna di aggiungerci anche il mio. Tuttavia, non posso esimermi dal far notare che, con “inclusione ricorsiva”, si intende una particolarità della sintassi. Secondo Ramachandran ne è un esempio una frase come “John che amava Julie usò il cucchiaio”. Un animale non potrebbe mai capire che a usare il cucchiaio sia stato John e non Julie. Mentre – par di capire – che una frase come “Susan è venuta e ha picchiato John e ha preso l’autobus e Charles è caduto”, cioè una frase “enumerativa”, potrebbe essere anche alla portata dell’ipotetica Lana di turno. Dunque – è la mia prima constatazione – la sintassi in quanto tale non discrimina affatto uomo e animale. La discriminante concerne la rete correlazionale – la sua architettura e, nel caso, la sua disambiguazione: questioni di tempi e di quantità, questioni anche semantiche (alla faccia di chi sostiene – temo Ramachandran incluso –la netta distinzione tra sintassi e semantica), non di “salti qualitativi”.

2. Avevo avuto occasione di tornare su questo genere di cose recentemente – in relazione ad un dibattito con Piero Borzini, Francesco Ferretti e Aldo Frigerio (3). Innanzitutto avevo fatto un esempio. Nell’Introduzione al Dizionario enciclopedico delle scienze del linguaggio (4), Oswald Ducrot e Tzvetan Todorov avvertono che hanno stabilito di “considerare la parola linguaggio nella sua accezione più ristretta – e banale – di “lingua naturale” e non in quella di “sistema di segni”. Con ciò, diciamo che si sono messi al sicuro. Dal loro dizionario enciclopedico rimane fuori parecchio, tra cui il “linguaggio animale” e quello “gestuale”, più una quantità indefinita di altri linguaggi. Abbandonando il “puramente verbale”, si sarebbero trovati a trattare di un oggetto di cui sarebbe stato arduo stabilire i limiti. Ritengo che ciò testimoni a sufficienza della difficoltà incontrata dalla scienza linguistica nel definire il proprio oggetto. D’altronde – facevo anche notare –, allorquando qualcuno ci prova, si mette nei guai. O, almeno, per non mettersi troppo nei guai, sembrerebbe costretto a rimanere nel vago. Come esempio di uno che si mette nei guai portavo quello di Umberto Eco che definisce un “codice linguistico” come “rappresentato da un sistema sintattico”, ovvero come “un repertorio di significanti e le loro regole di combinazione”, che trasmetterebbe “sistemi di significato”. Ovviamente, si rende subito conto che questi “sistemi di significato” andrebbero meglio individuati – perché essenziali in ogni linguaggio – e rapportati in modo chiaro sia al “repertorio di significanti” che alle relative “regole di combinazione”, ma, dopo aver rifiutato l’eventuale loro equivalenza con la “cultura”, preferisce deviare sull’“ideologia”, intesa come “patrimonio o sistema di concetti, conoscenze, esperienze, credenze e valori” (5). La stessa metaforicità del “trasmettere”, poi, non aiuta a migliorare le cose – checché se ne dica, in una comunicazione non si “trasmette” alcunché, perché gli esseri umani non costituiscono un circuito elettrico.
Non mi sono dilungato sull’origine di questo ritrosia – una ritrosia definitoria, ma, consapevolmente o meno, un segno di impotenza – perché me ne sono occupato più volte. In poche parole, ritengo che questa situazione derivi direttamente dalla teoria della conoscenza che, con minime varianti, assegna al linguaggio il compito di ratificare il rispecchiamento di una copia metaforicamente “fuori” del conoscente con la copia “dentro” il conoscente. Da questo confronto impossibile e da questo rapporto tra il suo presunto risultato e il linguaggio, deriva – tra tutte le altre disgrazie – anche la sostanziale inanalizzabilità del significato e la rinuncia al significato di una parte essenziale e indispensabile del patrimonio linguistico (vedi le tante parole definite semplicemente come “funzionali”). Liberandosi dell’esigenza filosofica della fondazione del sapere e togliendo ogni alone di misticità al linguaggio, è possibile individuare come costitutive di ogni linguaggio alcune caratteristiche. E qui sta il punto. Ho l’impressione che nessuna di queste possa effettivamente discriminare tra le specie animali. La prima di queste caratteristiche è che venga svolta un’attività mentale, la seconda è che questa venga designata ponendo – ecco la terza caratteristica – un rapporto – il rapporto “semantico” – tale per cui si possa passare mentalmente dalla prima al secondo e viceversa. La quarta caratteristica è quella della combinatoria – che tutti gli elementi così costituiti, designanti rapportati a designati, possano essere ordinati indefinitamente. Sarei anche tentato di aggiungere una quinta caratteristica – quella dell’individuazione di elementi in funzione di correlatori distinguibili da quelli in funzione di correlati –, ma, alla luce di quanto osservato a Ramachandran (a proposito della sua seconda caratteristica) – la difficoltà di appurare la questione in linguaggi diversi dal nostro (fermo restando che anche il nostro può proporre casi dubbi) –, credo di poterla qui ignorare in quanto criterio non utilizzabile allo stato attuale delle conoscenze – essendo tuttavia implicito che indagini di ordine neurobiologico in proposito potrebbero essere effettuate (spesso, di una distinzione di funzioni non si sa nulla perché, non avendole analizzate a sufficienza, non si sa di poterla e doverla cercare – Ramachandran fa un’osservazione del genere a proposito proprio del linguaggio ed alle tante e varie aree cerebrali che lo governano).

3. Sulla definizione del linguaggio – sui criteri minimi per accertarlo e accettarlo come tale – si dibatte tuttora. Anzi, direi che più gli argomenti si fanno sottili, più il dibattito si fa infuocato. Ancora nel dibattito precedentemente rammentato emergevano posizioni apparentemente contrapposte. Mentre, per esempio, Frigerio prova a caratterizzare in modo esclusivo il linguaggio umano, oltre che per essere “sistema di segni” e per la sua “sintassi” – per la sua non chiarissima “composizionalità” – il che “significa che il significato dei segni complessi è ricavabile da quello dei segni più semplici e dalle regole di composizione” (6), Ferretti smonta pezzo per pezzo le argomentazioni di Chomsky – il sostenitore più illustre del mito della differenza qualitativa di linguaggio umano e linguaggio “animale” (7). La posta in gioco è grossa. Si tratta di preservare o non preservare l’unicità e il destino dell’uomo dalla miseria animale – e dunque si tratta di religione e della sua forza persuasoria. E al contempo si tratta di sottrarre o non sottrarre il linguaggio alle leggi dell’evoluzione – e dunque si tratta ancora di religione, delle credibilità delle varie versioni di creazionismo e della capacità persuasoria del “disegno intelligente”.

Felice Accame

Note

  1. Mondadori, Milano 2012, pagg. 179-182 e 208-209.
  2. Cfr. E. Von Glasersfeld, Linguaggio e comunicazione nel costruttivismo radicale, Clup, Milano 1989, pagg. 231-275.
  3. Cfr. M. Marcheselli, in Working Papers della Società di Cultura Metodologico-Operativa, 253, 2012, in methodologia.it. Il dibattito si è svolto alla libreria Odradek di Milano il 10 febbraio 2012.
  4. Isedi, Milano 1972.
  5. Cfr. U. Eco, Codici e ideologie, in AAVV., Linguaggi nella società e nella tecnica, Edizioni di Comunità, Milano 1970, pag. 129.
  6. Cfr. A. Frigerio, Filosofia del linguaggio, Apogeo, Milano 2011, pagg. 3-5.
  7. Cfr. F. Ferretti, Alle origini del linguaggio umano, Laterza, Roma-Bari 2010.