rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


cultura

L’immaginazione contro la tecnologia

Intervista con Devis Colombo
di Andrea Staid

Filosofo e attivista, marito di Hannah Arendt, autore di stimolanti favole filosofiche, Günther Anders è una figura da conoscere meglio. Ne è appena uscito un libro. Ne parliamo con il curatore.

Prima di cominciare a parlare nello specifico di questa nuova pubblicazione “Lo sguardo dalla Torre” di Günther Anders, vorrei chiederti una piccola presentazione di questo grande filosofo del ’900 troppo spesso dimenticato.
Anders è stato uno dei più significativi critici della civiltà tecnologica dello scorso secolo. Cresciuto in una colta famiglia della borghesia ebraica, si laureò con Edmund Husserl e divenne successivamente allievo di Martin Heidegger, dal quale si distanziò quando questi si avvicinò al regime nazionalsocialista. Si formò dunque intellettualmente all’interno della prestigiosa scuola fenomenologica e di un mondo accademico che il più delle volte si dimostrava autoreferenziale e chiuso rispetto a tutto ciò che accadeva fuori di esso. Anders invece si trovò ben presto di fronte alla cruda quotidianità, costretto a fare i conti con la violenza della persecuzione e del potere politico.
Con l’avvento di Hitler al potere dovette fuggire negli Stati Uniti, dove per sopravvivere svolse anche umili mansioni - come l’addetto alle pulizie per gli studi cinematografici di Hollywood, e l’operaio in fabbrica - grazie alle quali conobbe in prima persona la precarietà e le nuove forme di alienazione della crescente società dei consumi americana. In seguito, con lo scoppio della bomba atomica di Hiroshima, Anders si rese definitivamente conto che gli effetti degli apparati tecnici non possono più essere controllati e che il “totalitarismo della tecnica” che disciplina le nostre esistenze a tal punto da determinare anche la fine del tempo dell’umanità – il nucleare potrebbe infatti decretare davvero la scomparsa della vita umana – rappresenta una minaccia che la filosofia non può esimersi dal problematizzare. Anders trova l’occasione di filosofeggiare in semplici fatti o oggetti che si trovano nel mondo di tutti i giorni – come le armi, la televisione, la radio, dai quali sviluppa un profondo pensiero che si innalza fino alla metafisica, un pensiero che sente il bisogno di muovere i suoi primi passi dal mondo quotidiano e continuare il confronto con esso, così da poterlo modificare efficacemente.
Per Anders la filosofia non è affatto consolazione, speculazione, giustificazione dell’esistente, bensì “arma intellettuale”. I suoi scritti non possono in alcun modo essere separati dalla sua attività di militante antifascista, ecologista e anticapitalista. I saggi contenuti nella raccolta italiana Discorsi sulle tre guerre mondiali (1990) per esempio, rappresentano il tentativo di riflettere sulle strategie e sulle prospettive antinucleari, cui Anders contribuì anche con la prassi, fondando in Austria il movimento “Lotta contro la morte atomica”.

Questo testo è particolare perché non è un saggio come può essere “L’uomo è antiquato” (meraviglioso come dice lo stesso Goffredo Fofi nella sua bella prefazione) ma una raccolta di favole fino ad oggi inedito in Italia. Leggendolo mi sono fatto molte domande su come possano essere incisive nella mente del lettore, tu come ti sei avvicinato a questo testo, cosa pensi di questo metodo di narrazione di Anders?
Si tratta in effetti di un genere poco esplorato, quello della favola filosofica. L’originalità e la bellezza del testo consiste nel linguaggio poetico e figurato che, attraverso immagini chiare e comuni che si fissano nella mente del lettore, tenta di aprire una via maestra – raggiungibile, a seconda del bagaglio culturale e delle sensazioni e dalle interpretazioni del lettore, anche da molti altri percorsi laterali – che conduce a un concetto filosofico ben definito. Si può fare filosofia allontanandosi dalla tradizionale forma saggistica, addirittura scrivendo favole? Anders non soltanto ne era convinto, ma credeva che ciò fosse una necessità: la filosofia deve trattare temi urgenti e concreti che coinvolgono tutti noi, come l’indebolimento dei nostri sentimenti, la nocività, la solitudine creata dai nuovi apparati tecnici, la falsificazione delle informazioni, le nuove forme di resistenza. Ma per fare questo bisogna che essa parli in modo più comprensibile, che venga liberata da quella terminologia oscura che non le permette di uscire dalla torre d’avorio e dai salotti esclusivi dei filosofi di professione.
Occorre insomma che la filosofia esplori nuove forme di linguaggio e di narrazione. Così, ricorrendo alla forza dell’immaginazione e al linguaggio letterario per Anders è forse possibile ampliare il raggio di fruibilità e di comunicazione della filosofia anche ai non specialisti, per combattere le menzogne del potere, risvegliare le coscienze e costruire percorsi di liberazione. Che questo metodo sia efficace, noi non possiamo dirlo. Lo stesso Anders – pessimista di natura ma estraneo a ogni forma di rassegnazione – ne dubitava, aggiungendo però: “nonostante la sua insufficienza, è solo l’immaginazione che può fungere da organo della verità”.

Hai tradotto e curato il testo, è un testo complesso, quali sono state le difficoltà principali?
Anders era pienamente cosciente che il tentativo di “popolarizzazione” della filosofia non può essere ridotto a un semplicistico appiattimento concettuale e linguistico. La profondità, l’universalità, e l’indagine fino alle cose ultime restano peculiarità essenziali della filosofia e di conseguenza della riflessione filosofica contenuta in queste favole. La difficoltà è stata dunque quella di esprimere efficacemente sia l’elemento narrativo – la minuziosa scelta delle parole e delle sfumature poetiche che rendono affascinante Lo sguardo dalla torre, sia quello speculativo, che nelle favole sono intimamente intrecciati. Come dice Walter Benjamin, cugino di Anders, ogni traduzione nasconde un’intraducibile, ossia qualcosa che non viene espresso dalla semplice traduzione letterale delle parole ma da una costellazione di immagini, di simboli e di significanti che nel loro complesso costruiscono una trama che si può ricomporre soltanto dopo un’attenta riflessione.
Ciò che resta intraducibile in queste favole è appunto la filosofia, che a dire il vero resta intangibile anche per il lettore, il quale, trovandosi catapultato nelle coinvolgenti storie di strambi personaggi, pseudo-dei, filosofi veri e inventati, finisce per ritrovarsi inconsciamente all’interno di un percorso filosofico che difficilmente riconosce come tale. È questo il salvifico inganno andersiano: consegnarci la filosofia come strumento di liberazione in una forma non immediatamente riconoscibile.

Günther Anders (1902-1992) con la prima
moglie Hannah Arendt

Qual è la favola che ti ha colpito di più?
Quella che dà il titolo alla raccolta, scritta nel 1932 e che risente dell’influenza di Franz Kafka. “Quando la signora Glü dalla più alta torre panoramica gettò lo sguardo verso il basso, dalla strada sottostante, simile a un minuscolo giocattolo ma riconoscibile inequivocabilmente per il colore del cappotto, sbucò suo figlio; e un secondo dopo, questo giocattolo venne travolto e distrutto da un autocarro rassomigliante anch’esso a un giocattolo – comunque la faccenda si sbrigò nell’arco di un istante di irreale brevità, e il tutto si svolse solamente fra giocattoli. “Io non vado giù!”, urlò a quel punto la signora Glü, rifiutandosi di scendere le scale, “io non abbandono la torre! Lì sotto potrei disperarmi!” È un esempio di che cosa significhi fare filosofia attraverso la forma favolistica. Le interpretazioni sono molteplici.
Ma è chiaro che qui ad Anders interessa smascherare il fallimentare meccanismo di difesa di chi, di fronte ad un evento drammatico, come può essere la morte di un figlio, sceglie di non vedere bene e di mistificare la realtà – fino a intrecciarla con l’irrealtà – per potersi spogliare della responsabilità e del dolore. Molto spesso anche noi preferiamo isolarci in una torre lontana e consolatoria piuttosto che scendere e intervenire nel mondo per cambiarlo.

Dal tuo punto di vista quale delle tante analisi di Anders rimangono più attuali nei nostri anni, nella nostra società della tecnologizzazione senza limiti?
Il concetto di “sovraliminale” resta estremamente attuale. Per Anders la tecnica ha permesso che gli effetti delle nostre azioni o dei prodotti che produciamo abbiano moltiplicato il raggio della loro influenza, sia spaziale che temporale. Così questi effetti diventano talmente grandi che superano il limite della nostra capacità di comprenderli, interiorizzarli ed eventualmente contrastarli.
Con un missile possiamo annientare molti uomini che si trovano dall’altra parte del pianeta senza che la lontananza permetta di provare compassione, di sentirsi colpevoli e di sentire veramente la differenza tra il premere un bottone per lanciare un arma letale o per cambiare canale della televisione. Se l’immaginazione non è sufficiente per comprendere le conseguenze delle nostre azioni, allora deve essere ampliata e rafforzata, poiché è anche grazie all’immaginazione che possiamo correggere i nostri comportamenti.
È per via di questa sua funzione morale che Anders attribuisce una grande importanza all’immaginazione, elevandola a metodo privilegiato della narrazione filosofica.

Andrea Staid

Devis Colombo (1986) membro del collettivo a.sperimenti, si è laureato in Estetica all’Università degli Studi di Milano con Markus Ophälders e Maurizio Guerri. Si occupa di filosofia della tecnica, di critica dei media e dei rapporti fra anarchismo e post-strutturalismo.