rivista anarchica
anno 42 n. 372
giugno 2012


lettere

 

È possibile vivere di autoeditoria?

La libraffa

È risaputo che nella maggior parte dei casi i piccoli editori non riescono a vivere con l’editoria, sono una sorta di hobbisti (anche se molto bravi e coraggiosi) che possono permettersi di pubblicare i libri che gli piacciono perché si guadagnano da vivere con altri lavori. Molti di loro, poi, pur di pubblicare testi innovativi finiscono per rimetterci. Lo stesso, in maniera ancor più evidente, avviene per l’autoeditoria. Chi si fa i propri libri, molto raramente ottiene un numero di lettori tale da permettergli di continuare. Questo fatto, che viene raramente tenuto in considerazione, a nostro parere assume una rilevante importanza perché trasforma l’autoeditoria in un’attività accessibile solo a chi può permettersela, solo a chi può togliersi “lo sfizio” di pubblicare su carta.
Il senso delle autoproduzioni è quello di restare fuori dal mercato. Se autoproduco un tavolo, delle patate, una borsa di tela lo faccio per me stesso, per evitare l’acquisto di quelle stesse merci. Nel caso dell’autoeditoria, però, non è così semplice. Un libro ha lo scopo di essere letto da altre persone, lo si scrive e pubblica affinchè possa circolare. E siccome, a tutt’oggi, non sempre è possibile regalare il proprio lavoro, occorre che questo libro autoprodotto venga venduto o scambiato.
Vivere di autoproduzioni, a nostro parere, significa comunque sostenere un diverso modo di produrre, scambiare e vendere. Senza sfruttare nessuno e senza farsi sfruttare da nessuno. Soprattutto, significa mantenere una spiccata autonomia derivante dalla totale autogestione delle proprie attività. Significa lavorare solo a ciò in cui si crede sostenendo progetti sempre in sintonia con il proprio modo di vivere. Significa cercare di mantenere vivo il senso libertario che lo stesso concetto di autoproduzione voleva immettere sin dai suoi albori.
Vivere di autoproduzioni potrebbe essere considerato l’inizio di un ribaltamento del concetto stesso di lavoro. In effetti, con le autoproduzioni, il soggetto, la motivazione principale che spinge a produrre, non è il denaro che riceveremo in cambio, ma la necessità, il desiderio e la spinta ad esprimersi e a creare. Insomma: ad essere se stessi. Vivere di autoproduzioni, quindi, significa abbandonare il vecchio concetto di lavoro nel tentativo di riappropriarsi di tutto il proprio tempo. E questo abbandono, naturalmente, non può limitarsi ad una piccola parte della propria giornata rubata al “lavoro serio”. Noi lo inquadriamo e lo viviamo, più che altro, come il risultato di una ricerca libertaria di emancipazione personale e collettiva.
Riuscire a vivere di autoproduzioni, però, non è affatto un’impresa facile, e l’autoeditoria non è certo un’eccezione.
L’immaginario globale, che identifica il libro come oggetto seriale da tipografia, ostacola notevolmente questo tentativo, soprattutto se si cerca di percorrere nuove strade. Vivere di autoproduzioni editoriali è un esperimento in continuo mutamento che coinvolge inevitabilmente tutta la nostra vita. Non a caso, la domanda che più frequentemente ci rivolgono le persone che incontrano la nostra eco-editoria è sempre la stessa: ma fate un altro lavoro, vero? anche la risposta è sempre la stessa: viviamo di questo, viviamo di poco. E non è mai stato un lavoro, è la nostra vita, ci è indispensabile per sentirci liberi, per divertirci, per esprimerci, per divulgare ciò in cui crediamo.

Troglodita Tribe
Serrapetrona (Mc)
troglotribe@libero.it

Il pungilibro

I sogni smarriti

È difficile impedire ai giovani di immaginare un futuro: tra mille difficoltà, tra mille impedimenti, la speranza di ottenere un giorno, ciò che si desidera, sembra quasi essere una costante in tutte le epoche. Eppure oggi qualcosa è cambiato; se si prende una telecamera improvvisata e si fa qualche domanda agli studenti che escono dalle noiose ore di lezione nelle facoltà, ci rendiamo conto che non solo sono stati privati di un futuro, ma anche dei sogni. Pochi, anzi pochissimi sanno cosa davvero vogliono, tutti sanno che sarà impossibile; forse è proprio questo ciò che unisce l’Italia dei ragazzi in questo momento: la sfiducia. Ma la fiducia si riacquista, basta ottenere un buon risultato in qualsiasi campo, basta un amore, una poesia, e si ritorna a sperare; ma i sogni, i sogni una volta spariti, sono difficili da far ritornare, spariscono con tutta la loro “dolce inconsistenza” e lasciano un segno nelle generazioni.
Gli studenti di oggi sono pieni di idee, di prospettive per un futuro che una politica finita, sta cercando di toglierli, ma hanno subito un colpo mortale, che è difficilissimo da curare, la perdita di un sogno ma ancor più gravemente l’incapacità di sognare. E allora poco conta se le baronie e i soprusi dei soliti noti sono all’ordine del giorno, poco importa se le borse di studio vengono assegnate con criteri che farebbero spaventare qualsiasi altro giovane “europeo”, poco importa se le famiglie italiane si indebitano fino al collo per poter mandare il proprio figlio in un università di quart’ordine, non c è ribellione, ma soprattutto non c’è nessuna dignità se quando si chiudono gli occhi, non cominciamo a sognare.

Andrea Murovez
(Spoleto - Pg)

 

Ecatombe/La mia traduzione

Al mercato dei castelli
contendendo piccole cose
si prendevano per i capelli
parecchie donne vigorose
in auto a piedi e a cavallo
i gendarmi nel guazzabuglio
arrivarono a mettersi in ballo
per interrompere il tafferuglio.

Poiché da che mondo è mondo
è un’usanza ben condivisa
riconciliarsi nel profondo
di fronte a uomini in divisa
quelle riunite a muso duro
si scagliarono sugli agenti
e inscenarono ve l’ assicuro
uno spettacolo tra i più divertenti.

E guardando quei gendarmi
sopraffatti dalla partita
non potevo che rallegrarmi
così vedendoli in findivita
dalla mansarda dove vivo
incitavo quelle donne là
contro ogni sbirro recidivo
gridando hip hip hip hurrà.

Una di queste attacca forte
il maresciallo di polizia
e gli fa urlare sbirri a morte
abbasso la legge viva l’anarchia
Un’altra prende la testa con forza
di uno degli zoticoni
e se la stringe come una morsa
in mezzo ai suoi glutei ciccioni.

Tra tutte la donna più in carne
si slaccia veloce il corsetto
e come si avvicina un gendarme
lo manganella a colpi di petto
e cadono cadono cadono
ogni singolo sbirro soccombe
riecheggeranno nella storia
i rumori di questa ecatombe.

Giudicandoli ormai sconfitti
oltrepassarono ogni decoro
e li lasciano stesi e zitti
ritornando ai fatti loro
li avrebbero anche evirati
prima di andarsene di spalle
ma quelli furono fortunati
non avendo mai avuto palle
ma quelli furono fortunati
non avendo mai avuto palle.

Angelica Paolorossi

 

Camillo Berneri.1 / Ancora sulla rivoluzione

Ho letto la polemica tra Antonio Senta e Stefano D’Errico e, anche se con ritardo, vorrei aggiungere qualche riflessione.
Che Antonio Senta faccia la recensione di un libro che contiene interventi assai diversi fra loro e dica per quale motivo ne apprezza alcuni e meno altri, mi sembra suo pieno diritto. Nel momento in cui ognuno di noi espone le sue idee su un soggetto controverso come Berneri prende il rischio di dispiacere a una parte dei suoi lettori. Berneri, in vita, ha corso più volte questo richio, ma non si è mai lasciato andare a schiacciare i suoi contraddittori con il volume dei suoi scritti.
La letteratura su Berneri porta il segno delle difficoltà e delle polemiche che hanno pesato sul movimento anarchico dopo la sua morte. La sopravvivenza del movimento in un contesto non rivoluzionario ha prodotto un ripiegamento su se stesso, inducendo molti compagni ad accentuare i tratti ideologici ritenuti più marcanti, per poter conservare intatto il nocciolo duro della sua identità. Questo spiega come mai abbia avuto tanto successo la tendenza a “imbalsamare” Berneri, a farne una specie di santino, mettendo in ombra o sterilizzando per anni le discussioni animate a cui aveva preso parte da vivo, le sue analisi, le sue posizioni poco ortodosse, le sue provocazioni alla riflessione.
Il suo pensiero si costruisce nella discussione: cambiando soggetto ed interlocutore è ovvio che dica anche cose diverse. A partire dalla sua morte, nel movimento anarchico si è più volte manifestata una scelta di facilità, prendendo ora questa, ora quell’opinione, come chiave di lettura generale, attribuendo in sostanza fissità ideologica ad alcune opinioni politicamente motivate.
Masini, per esempio, quando raccoglie alcuni scritti berneriani e pubblica i Compiti nuovi del movimento anarchico, lo fa con intenti polemici nei confronti dell’astensionismo tradizionale del movimento, con lo scopo di dare legittimità alle scelte elettoraliste dei GAAP. Ma cos’ha questa scelta politica a che vedere con la situazione pre-insurrezionale spagnola del 1936, in cui Berneri pone il problema della partecipazione elettorale e soprattutto delle sue prevedibili conseguenze?
Ho detto più di una volta che il problema principale di Berneri è quello di fare la rivoluzione. Anche in un contesto sfavorevole sul piano dei rapporti di forza fra le classi sociali come durante il fascismo, Berneri non smette di pensare alla rivoluzione italiana. Tutto il suo pensiero ruota intorno a questo problema: il programma del movimento, la questione delle alleanze, la struttura federale della nuova società ed il peso delle autonomie locali, il “sovietismo”, il sindacalismo d’azione diretta, la liquidazione del fascismo e del colonialismo, l’intervento nella rivoluzione spagnola, il confronto con i comunisti...
Berneri non ha un problema di conservare la sua identità in un momento di crisi. Questa gli è chiara. Specialmente quando discute con altre forze politiche come “Giustizia e Libertà”, che cercano di pescare militanti in area libertaria, o con compagni che ragionano più in termini di identità che di analisi politica. Non ha paura di passare per centrista, dal momento che l’ago della bussola resta la rivoluzione da fare. È sperimentalista, è convinto che la libertà si ottiene attraverso la pratica della libertà, non ha paura di sbagliare e di riconoscere che ha sbagliato.
I problemi che il movimento affronta (ed il modo in cui lo fà) dopo la Seconda Guerra mondiale sono di tutt’altra natura. La forza propulsiva della rivoluzione è stata ingabbiata dall’Unione Sovietica; in Occidente partiti e sindacati di orientamento comunista funzionano più come un “ministero dell’opposizione” nel quadro stabilito a Yalta, che come strutture che cercano di fare una rivoluzione. Le società occidentali sono ingessate dalla spartizione fra i blocchi e gli anarchici si trovano presi tra due fuochi. È quindi comprensibile la sorte che tocca a Berneri, la cui vitalità era legata ad un movimento che continuava a voler concretamente fare la rivoluzione.
Il movimento anarchico del dopoguerra cerca di ricostruire le sue radici sociali, cerca di cogliere tutte le occasioni possibili per manifestare la propria presenza, critica ed attacca i rapporti sociali politici culturali dominanti, ma prima di tutto cerca di preservare la propria identità: fare la rivoluzione non è più un problema concreto da risolvere, ma una “fiaccola sotto il moggio” da tenere accesa nella notte delle riforme capitaliste e del dominio burocratico. Gli sprazzi di luce non mancheranno, come intorno al ’68. Il movimento ricomincerà a riflettere sulla propria azione. Dopo la fine dell’URSS i problemi cominciano a porsi in altri termini, ma occorrerà una intera generazione per realizzare la portata di questa mutazione. Gli studi su Berneri cominciano a diventare più numerosi con l’avvicinarsi dell’anniversario della sua morte, ma la loro qualità sarà assai diversificata e molti di essi saranno segnati dalla tendenza a leggere Berneri in chiave ideologica più che storica.
Accumulare le citazioni di Berneri per fargli dire quello che si desidera non è difficile, e Stefano ce ne offre una dimostrazione illuminante. Ma è questo che può servire oggi al movimento anarchico? Il problema, ai miei occhi, è piuttosto quello di ricostituire le discussioni in cui Berneri ha preso questa o quella posizione, in un contesto storico determinato, per capire dove voleva andare a parare. A questo avrebbe potuto (dovuto?) servire il revival di interesse, libri e convegni che in questi ultimi anni sono stati dedicati a Berneri.
Purtroppo il risultato è da questo punto di vista assai modesto, e non si può dare interamente torto ad Antonio quando esprime la sua delusione di fronte ai testi del convegno di Arezzo del 2007. Dovremmo piuttosto essergliene grati, perché ci richiama al senso dell’utilità del lavoro dello storico.
Ora, se Stefano ci ha dato un paio di volumi che ci illuminano sulla sua lettura del pensiero berneriano, si può anche pensare che non ci abbia aiutato molto ad approfondire la conoscenza di questo pensiero. I suoi libri infatti ci informano molto di più sul suo autore che sull’oggetto studiato. Stefano legge e cita Berneri, ma espone e struttura il pensiero di D’Errico. Una scelta certo legittima sul piano politico, ma che lascia perplesso chi si aspetta un lavoro di analisi storica, in un convegno di studi storici, come capita appunto ad Antonio.
Di fronte a questa polemica mi sarei aspettato che un autore acuto come D’Errico capisse facilmente il punto di vista espresso da Senta, anche se non lo condivide.

Gianni Carrozza
Parigi (Francia)

Camillo Berneri

Camillo Berneri.2 / Carte alla mano

Per Gianni Carrozza non sarebbe ‘politicamente corretto’ aver risposto per le rime a Senta, che m’addebita su Berneri ‘una procedura grossolana da un punto di vista storiografico e politicamente molto discutibile’. Gianni quindi non fa caso all’uso di epiteti offensivi senza riferimenti storiografici e per di più conclude che la mancata accettazione degli stessi sarebbe eccesso di vis polemica. Caro Gianni, come sai, il tono della polemica lo fissa chi la inizia. Io sollevo innanzitutto un problema di metodo. Altro che ‘schiacciare i (...) contraddittori con il volume [degli] scritti’! Scusa se pretendo per le tematiche berneriane qualcosa di più di giudizi estemporanei, segnatamente quando mi s’accusa (e senza fornirne prova alcuna) di sottoporre il pensiero di Berneri a ‘torsioni continue’! Quindi insisto: ‘grossolano’ è termine da usarsi? E se sì, lo si può fare senza supportare quel giudizio in modo adeguato?
Però veniamo a noi. Idem dicasi, ma tolto l’insulto di Senta (che, nonostante due interventi continua a rimanere ingiustificato), per i tuoi di giudizi. Legittimo scrivere che d’Errico strumentalizza il pensiero di Berneri, senza il dovere deontologico (onestà intellettuale e non mera accademia) di spiegare dove e come? Oltretutto aggiungi che a Senta (novello Schopenhauer?) ‘dovremmo essere grati perché ci richiama al senso dell’utilità del lavoro dello storico’, perché d’Errico ‘non ci ha aiutato molto ad approfondire la conoscenza [di Berneri]’, visto che ‘legge e cita (...), ma espone e struttura [altro]’, (il proprio pensiero). Concludi parlando di una scelta ‘legittima sul piano politico, ma che lascia perplesso chi si aspetta un lavoro di analisi storica, in un convegno di studi storici’! Un ‘dottorale’ (ed antipatico) ipse dixit, che non prova nulla. Inoltre, al contrario di quanto scrivi, Senta non mostra d’esprimere ‘la sua delusione di fronte ai testi del convegno di Arezzo’. Anche se per te quei testi - come scopriamo oggi - fornirebbero un contributo ‘assai modesto’ all’approfondimento del pensiero berneriano, eri fra gli intervenuti, caro Gianni, autore, secondo Senta, di un saggio ‘preciso’. Non fare il modesto: a Senta sono piaciuti tutti i relatori di parte anarchica, eccezion fatta per Giampietro Berti ed il sottoscritto. A parte il fatto che avresti potuto esprimerti in quella sede (e quindi negli atti), sgravando il povero Senta dell’ingrato compito di confutarmi con 5 anni di ritardo, assume ancora più forza la domanda: dov’è il merito?
Anch’io ho avuto, in Anarchismo e politica, qualcosa da dire sull’immagine di ‘consigliarista’ che sovente nei tuoi scritti sovrapponi al Berneri sovietista. Ma ho ragionato carte alla mano e non con giudizi apodittici non suffragati. Né mai avrei preso le parti di chi avesse usato nei tuoi confronti epiteti anziché argomentazioni.
Confrontiamoci quindi sullo specifico senza giudizi unicamente presuntivi. Il problema con Senta stava nell’accostare anarchismo e politica? È questione già trattata su queste pagine. Sarà quindi sufficiente reiterare una sola citazione: “...i nostri migliori, da Malatesta a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo, offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti, polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e politico” (1). Vogliamo ancora far passare Berneri per un antesignano dell’antipolitica? Al voler dare protagonismo politico al movimento sono collegate pressoché tutte le tematiche berneriane: problemismo; ‘attualismo’; denuncia del romanticismo autoconsolatorio; spinta verso battaglie d’opinione e per i diritti civili; demolizione dell’operaiolatria e del codismo filo-bolscevico, nonché dello spontaneismo e della fiducia nella cosiddetta ‘giustizia delle masse’; denuncia dell’ambivalenza dei totalitarismi; lotta contro l’ubriacatura del ‘tanto peggio - tanto meglio’; richiamo all’organizzazione specifica verso una discussione, non deterministica però fattiva, su ‘programma’ e progetto; politica delle alleanze; fiducia in un anarchismo inserito socialmente ed in un anarcosindacalismo di progetto; attenzione verso l’associazionismo indipendente; antitesi stato-società; differenza fra anarchismo (nella storia) ed anarchia (“religione”) (2); lotta alla diseducazione politica, all’ateismo di maniera, all’intolleranza ed al conformismo di sinistra; denuncia del contrattualismo; lavoro per un’epistemologia anarchica empiriocriticista. Elementi che, ci si metta l’anima in pace, non contrastano con la (per alcuni troppo) mitica ‘rivoluzione’ (termine enfatizzato da Gianni 7 volte in 2 cartelle).
Con te, Carrozza, la controversia può riguardare forse la critica al ‘cretinismo astensionista’ (definizione berneriana)? Bene, il lodigiano non se n’occupò solo di fronte alla congiuntura spagnola, bensì già in occasione delle elezioni italiane: “Chi sa che cosa siano state le elezioni politiche del 1921 mi scomunicherà, forse, ma certamente non mi fucilerà se dirò che mi sono astenuto dal fare propaganda astensionista e che mi sono messo contro i vestali dell’anarchismo per difendere quei pochi compagni dell’Unione Anarchica Fiorentina (due o tre) dall’ostracismo al quale erano stati condannati per essere andati alle urne” (3). Ed io ho scritto: «Berneri “osa” mettere in discussione anche la pratica astensionista. Pure Bakunin ammoniva di non confondere tattica e strategia, perciò: “Il non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista” (4). Il lodigiano ne ricorda gli elogi ai primi eletti dell’Internazionale: “In una sua lettera al Gambuzzi (Locarno, 16 novembre 1870), Michele Bakunin scriveva di essere lieto che egli fosse tornato a Napoli per cercare di essere eletto deputato e soggiungeva: ‘Forse ti meraviglierai di vedere che io, astensionista deciso ed appassionato, spinga ora i miei amici a farsi eleggere deputati. Gli è che le circostanze e i tempi sono mutati. Anzitutto i miei amici, cominciando da te, si sono talmente agguerriti nelle nostre idee, nei nostri principi, che non c’è più pericolo che possono dimenticarli, mortificarli, sacrificarli, e ricadere nelle loro antiche abitudini politiche. E poi, i tempi sono diventati talmente seri, il pericolo che minaccia la libertà di tutti i paesi talmente formidabile, che bisogna che ovunque gli uomini di buona volontà siano sulla breccia, e che i nostri amici soprattutto siano in una tale posizione che la loro influenza diventi quanto più efficace è possibile. Cristoforo (Fanelli) mi ha promesso di scrivermi e di tenermi al corrente delle vostre lotte elettorali che m’interessano al massimo grado». Fanelli fu eletto deputato di Torchiara nel dicembre 1870 e Friscia fu rieletto in Sicilia. Bakunin vedeva nell’elezione a deputati dei più attivi organizzatori della I.a Internazionale un potenziamento di questa, per le agevolazioni materiali (viaggi gratuiti), per la possibilità di relazioni più estese, per una maggiore influenza sulle masse nonché una maggiore libertà di propaganda. Di fronte all’istituzione parlamentare egli rimaneva antiparlamentarista ed astensionista ed il suo atteggiamento del 1870 non è affatto da avvicinare a quello di Andrea Costa e nemmeno a quello di F. S. Merlino. Per Bakunin il problema era di strategia e non di tattica” (5). È Berneri a scrivere: “Il cretinismo astensionista è quella superstizione politica che considera l’atto di votare come una menomazione della dignità umana o che valuta una situazione politica-sociale dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina l’uno e l’altro infantilismo” (6).
Berneri si scaglia contro la reiterazione senza soluzione di continuità che l’anarchismo fa dell’astensionismo: “Come constato l’assoluta deficienza della critica antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima, così non sono astensionista nel senso che non credo, e non ho mai creduto, all’utilità della propaganda astensionista in periodo di elezioni” (7)».
Ho aggiunto: «Il pensiero del lodigiano diviene chiarissimo, in proposito, laddove scrive: “Vi sono, secondo me, quattro sistemi politici possibili: l’amministrazione diretta, la rappresentanza generica o autoritaria, la democrazia propriamente detta e l’anarchia. L’amministrazione diretta è un sistema politico nel quale il popolo in massa delibera volta a volta sulle varie questioni d’interesse generale, e provvede all’esecuzione delle proprie deliberazioni. La rappresentanza generica o autoritaria è un sistema nel quale il popolo delega la propria sovranità ad un certo numero di persone da lui scelte e lascia a quelle il potere deliberativo ed esecutivo. L’astensionismo politico è una reazione contro la rappresentanza generica, reazione salutare, ma non ha più ragione di permanere di fronte alla democrazia propriamente detta, sistema nel quale il popolo delega le varie faccende di interesse generale a dei tecnici, riservandosi di approvarne gli atti, controllando il loro operato, riservandosi di destituirli e destituendoli quando ciò occorra. Gli anarchici hanno ragione di continuare in seno alla democrazia la loro opposizione correttiva e la loro propaganda educativa al fine di permettere il passaggio dalla democrazia all’anarchia, sistema nel quale l’amministrazione diretta e la democrazia si integrano, sopprimendo qualunque residuo della rappresentanza autoritaria” (8). Infine, nel caso di plebisciti e referendum non vede per gli anarchici alcun motivo d’avversione: “Se domani si presentasse il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata, autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie, ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che crederebbero doveroso astenersi” (9)».
Cosa ho mai scritto? Semplicemente ripeto che: «Per Berneri, il rifiuto assoluto del voto non è necessariamente impresso nel codice genetico dell’anarchismo, non è determinante per l’identità libertaria. Anzi, se da elemento tattico assurge a carattere di principio, diviene un ostacolo alla crescita del movimento, ennesima piombatura sclerotica che ne ingabbia lo sviluppo politico».
Le citazioni di Berneri sono forse inventate (e, a proposito di coerenza storiografica, non vengono riportate con l’ausilio delle ‘virgolette’ ed indicandone le fonti)?
Si pensa invece (legittimamente) che la posizione di Berneri risulti ancora poco chiara? Bene, esiste il dibattito, per questo. Ma qui sembra si chieda un arbitrato, il lodo di un gruppo di studiosi emeriti, un esame congiunto d’interpretazione autentica...? Proceda pure chi ritenesse che l’anarchismo abbia bisogno di guardiani dell’ortodossia, ma nessuno si sogni di dare o togliere (a priori) patenti di ‘storico’ e/o ‘studioso doc’ (sic!). Evitiamo di dar cittadinanza in questo movimento alla prassi della delegittimazione ad argomentazione zero verso il pensiero divergente. Un dibattito di questa natura, se ci deve essere e lo si vuole serio e corretto, deve svolgersi carte alla mano, altrimenti si scade nella strumentalità. Questo sì, Berneri non l’ha mai fatto: non ha mai promosso le proprie posizioni attraverso il discredito gratuito degli interlocutori! E, a proposito di ‘anarchismo e politica’, cosa c’è di più politicista (nel senso più deteriore del termine)?

Stefano d’Errico
Roma

Note

  1. C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, manoscritto del 1926 rimasto inedito sino al 1964.
  2. C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001. Oggi in S. d’Errico, Anarchismo e politica, Mimesis, Milano 2007.
  3. C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata dei Refrattari”, New York 25.4.1936. Poi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, M&B Publishing, Milano 2001 e S. d’Errico, Anarchismo e politica, op. cit.
  4. Ibid.
  5. Ibid.
  6. Ibid.
  7. C. Berneri, La questione elettorale. Il cretinismo astensionista, in Compiti nuovi dell’anarchismo, su “L’impulso”, Livorno 1955, già apparso come Astensionismo e anarchismo, ne “L’Adunata dei Refrattari”, New York 25.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit. e S. d’Errico, Anarchismo e politica, op. cit.
  8. C. Berneri, Per finire, in Compiti nuovi dell’anarchismo, da “L’impulso”, Livorno 1955, già apparso insieme ad interventi di altri sotto il titolo comune Revisionismo elettorale nell’anarchismo, su “L’Adunata dei Refrattari”, New York 27.6.1936, poi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, op. cit. e S. d’Errico, Anarchismo e politica, op. cit.
  9. C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, cit.

 

Ancora su Malatesta, tasse, ecc.

Cari compagni,
vorrei rispondere alla lettera di Davide Turcato pubblicata in “A” 371 (maggio 2012, pag. 137), con la quale egli ritiene a sua volta di replicare a una mia precedente missiva. In realtà non capisco dove stia la ragione del dissenso, sempre che dissenso vi sia.
Io mi ero limitato a esporre le mie titubanze di anarchico nell’introdurre una sorta di tassa patrimoniale, che affondi le sue radici nel presupposto “georgista” (da Henry George) che la Terra sia di tutti (res communis) e non di nessuno (res nullius), di tal che i non proprietari e gli espropriati abbiano diritto a una rendita dovuta al fatto di essere comproprietari (“comunisti”) di tutta la Terra.
E a tal proposito citavo Malatesta, secondo il quale qualunque proposta interlocutoria andava passata attraverso il filtro di un lume regolatore, che ci sappia orientare tra scelte giuste e scelte sbagliate, sia pure in un’ottica gradualista.
Non vedo dove stia il dissenso, dicevo, per due motivi: a) in primo luogo anche Malatesta condivideva questa impostazione sulla proprietà comune della Terra. Non chiedetemi di citare il luogo esatto dove l’avrebbe scritto, perché vado a memoria, e vi assicuro che le mie letture di Malatesta sono abbondanti, anche se preferisco l’ultimo, quello più riflessivo e ”possibilista” e forse meno rivoluzionario del primo; b) in secondo luogo, quanto dice Davide Turcato va nella mia stessa direzione, ossia di non pretendere l’abolizione dello Stato come un dato preliminare, ma come un esito quasi obbligato di alcune scelte preliminari. Una di queste, appunto, considerare la Terra come bene di tutti e non di nessuno, ossia di pochi. Se poi la leva fiscale sia idonea allo scopo è questione delicata, sulla quale è opportuno che si sviluppi un dibattito, sempre che questa sia l’unica o l’ultima delle imposte che ci affliggono, e non l’ennesimo balzello imposto in una situazione, come propone Domenico Letizia, di pre-rivolta fiscale. Saluti libertari,

Fabio Massimo Nicosia
Milano

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Medardo Accomando (Manocalzati – Av) 20,00; Giorgio Meneguz (Brovello Carpovigno – VB) 10,00; Danilo Vallauri (Dronero – CN) 10,00; Alberto Ciampi (San Casciano Val di Pesa – Fi) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Gianandrea Blesio (Botticino Sera – Bs) 20,00; Ivano (Milano) 40,00; Colby (Modena) 300,00. Totale euro 920,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Luca Todini (Brufano, Torgiano – Pg) 150,00; Roberto Pietrella (Roma) 200,00; Alessandro Marutti (Cologno Monzese – Mi); Sergio Guercio (Torino) 200,00. Totale euro 650,00.