È 
                  possibile vivere di autoeditoria? 
                
                   
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                    La 
                        libraffa  | 
                   
                 
                È risaputo che nella maggior parte dei casi i piccoli 
                  editori non riescono a vivere con l’editoria, sono una 
                  sorta di hobbisti (anche se molto bravi e coraggiosi) che possono 
                  permettersi di pubblicare i libri che gli piacciono perché 
                  si guadagnano da vivere con altri lavori. Molti di loro, poi, 
                  pur di pubblicare testi innovativi finiscono per rimetterci. 
                  Lo stesso, in maniera ancor più evidente, avviene per 
                  l’autoeditoria. Chi si fa i propri libri, molto raramente 
                  ottiene un numero di lettori tale da permettergli di continuare. 
                  Questo fatto, che viene raramente tenuto in considerazione, 
                  a nostro parere assume una rilevante importanza perché 
                  trasforma l’autoeditoria in un’attività accessibile 
                  solo a chi può permettersela, solo a chi può togliersi 
                  “lo sfizio” di pubblicare su carta.  
                  Il senso delle autoproduzioni è quello di restare fuori 
                  dal mercato. Se autoproduco un tavolo, delle patate, una borsa 
                  di tela lo faccio per me stesso, per evitare l’acquisto 
                  di quelle stesse merci. Nel caso dell’autoeditoria, però, 
                  non è così semplice. Un libro ha lo scopo di essere 
                  letto da altre persone, lo si scrive e pubblica affinchè 
                  possa circolare. E siccome, a tutt’oggi, non sempre è 
                  possibile regalare il proprio lavoro, occorre che questo libro 
                  autoprodotto venga venduto o scambiato. 
                  Vivere di autoproduzioni, a nostro parere, significa comunque 
                  sostenere un diverso modo di produrre, scambiare e vendere. 
                  Senza sfruttare nessuno e senza farsi sfruttare da nessuno. 
                  Soprattutto, significa mantenere una spiccata autonomia derivante 
                  dalla totale autogestione delle proprie attività. Significa 
                  lavorare solo a ciò in cui si crede sostenendo progetti 
                  sempre in sintonia con il proprio modo di vivere. Significa 
                  cercare di mantenere vivo il senso libertario che lo stesso 
                  concetto di autoproduzione voleva immettere sin dai suoi albori. 
                  Vivere di autoproduzioni potrebbe essere considerato l’inizio 
                  di un ribaltamento del concetto stesso di lavoro. In effetti, 
                  con le autoproduzioni, il soggetto, la motivazione principale 
                  che spinge a produrre, non è il denaro che riceveremo 
                  in cambio, ma la necessità, il desiderio e la spinta 
                  ad esprimersi e a creare. Insomma: ad essere se stessi. Vivere 
                  di autoproduzioni, quindi, significa abbandonare il vecchio 
                  concetto di lavoro nel tentativo di riappropriarsi di tutto 
                  il proprio tempo. E questo abbandono, naturalmente, non può 
                  limitarsi ad una piccola parte della propria giornata rubata 
                  al “lavoro serio”. Noi lo inquadriamo e lo viviamo, 
                  più che altro, come il risultato di una ricerca libertaria 
                  di emancipazione personale e collettiva. 
                  Riuscire a vivere di autoproduzioni, però, non è 
                  affatto un’impresa facile, e l’autoeditoria non 
                  è certo un’eccezione. 
                  L’immaginario globale, che identifica il libro come oggetto 
                  seriale da tipografia, ostacola notevolmente questo tentativo, 
                  soprattutto se si cerca di percorrere nuove strade. Vivere di 
                  autoproduzioni editoriali è un esperimento in continuo 
                  mutamento che coinvolge inevitabilmente tutta la nostra vita. 
                  Non a caso, la domanda che più frequentemente ci rivolgono 
                  le persone che incontrano la nostra eco-editoria è sempre 
                  la stessa: ma fate un altro lavoro, vero? anche la 
                  risposta è sempre la stessa: viviamo di questo, viviamo 
                  di poco. E non è mai stato un lavoro, è la nostra 
                  vita, ci è indispensabile per sentirci liberi, per divertirci, 
                  per esprimerci, per divulgare ciò in cui crediamo. 
                 Troglodita Tribe 
                  Serrapetrona (Mc) 
                  troglotribe@libero.it 
                
                   
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                    Il 
                        pungilibro   | 
                   
                 
                 I 
                  sogni smarriti 
                   
                  È difficile impedire ai giovani di immaginare un futuro: 
                  tra mille difficoltà, tra mille impedimenti, la speranza 
                  di ottenere un giorno, ciò che si desidera, sembra quasi 
                  essere una costante in tutte le epoche. Eppure oggi qualcosa 
                  è cambiato; se si prende una telecamera improvvisata 
                  e si fa qualche domanda agli studenti che escono dalle noiose 
                  ore di lezione nelle facoltà, ci rendiamo conto che non 
                  solo sono stati privati di un futuro, ma anche dei sogni. Pochi, 
                  anzi pochissimi sanno cosa davvero vogliono, tutti sanno che 
                  sarà impossibile; forse è proprio questo ciò 
                  che unisce l’Italia dei ragazzi in questo momento: la 
                  sfiducia. Ma la fiducia si riacquista, basta ottenere un buon 
                  risultato in qualsiasi campo, basta un amore, una poesia, e 
                  si ritorna a sperare; ma i sogni, i sogni una volta spariti, 
                  sono difficili da far ritornare, spariscono con tutta la loro 
                  “dolce inconsistenza” e lasciano un segno nelle 
                  generazioni.  
                  Gli studenti di oggi sono pieni di idee, di prospettive per 
                  un futuro che una politica finita, sta cercando di toglierli, 
                  ma hanno subito un colpo mortale, che è difficilissimo 
                  da curare, la perdita di un sogno ma ancor più gravemente 
                  l’incapacità di sognare. E allora poco conta se 
                  le baronie e i soprusi dei soliti noti sono all’ordine 
                  del giorno, poco importa se le borse di studio vengono assegnate 
                  con criteri che farebbero spaventare qualsiasi altro giovane 
                  “europeo”, poco importa se le famiglie italiane 
                  si indebitano fino al collo per poter mandare il proprio figlio 
                  in un università di quart’ordine, non c è 
                  ribellione, ma soprattutto non c’è nessuna dignità 
                  se quando si chiudono gli occhi, non cominciamo a sognare.  
                 Andrea Murovez 
                  (Spoleto - Pg) 
                  
                 Ecatombe/La 
                  mia traduzione  
                   
                  Al mercato dei castelli 
                  contendendo piccole cose 
                  si prendevano per i capelli 
                  parecchie donne vigorose 
                  in auto a piedi e a cavallo 
                  i gendarmi nel guazzabuglio 
                  arrivarono a mettersi in ballo 
                  per interrompere il tafferuglio. 
                   
                  Poiché da che mondo è mondo 
                  è un’usanza ben condivisa 
                  riconciliarsi nel profondo 
                  di fronte a uomini in divisa 
                  quelle riunite a muso duro 
                  si scagliarono sugli agenti 
                  e inscenarono ve l’ assicuro 
                  uno spettacolo tra i più divertenti. 
                   
                  E guardando quei gendarmi 
                  sopraffatti dalla partita 
                  non potevo che rallegrarmi 
                  così vedendoli in findivita 
                  dalla mansarda dove vivo 
                  incitavo quelle donne là 
                  contro ogni sbirro recidivo 
                  gridando hip hip hip hurrà. 
                   
                  Una di queste attacca forte 
                  il maresciallo di polizia 
                  e gli fa urlare sbirri a morte 
                  abbasso la legge viva l’anarchia 
                  Un’altra prende la testa con forza 
                  di uno degli zoticoni 
                  e se la stringe come una morsa 
                  in mezzo ai suoi glutei ciccioni. 
                   
                  Tra tutte la donna più in carne 
                  si slaccia veloce il corsetto 
                  e come si avvicina un gendarme 
                  lo manganella a colpi di petto 
                  e cadono cadono cadono 
                  ogni singolo sbirro soccombe 
                  riecheggeranno nella storia 
                  i rumori di questa ecatombe. 
                   
                  Giudicandoli ormai sconfitti 
                  oltrepassarono ogni decoro 
                  e li lasciano stesi e zitti 
                  ritornando ai fatti loro 
                  li avrebbero anche evirati 
                  prima di andarsene di spalle 
                  ma quelli furono fortunati 
                  non avendo mai avuto palle 
                  ma quelli furono fortunati 
                  non avendo mai avuto palle.  
                 Angelica Paolorossi 
                  
                 Camillo 
                  Berneri.1 / Ancora sulla rivoluzione 
                 Ho letto la polemica 
                  tra Antonio Senta e Stefano D’Errico e, anche se con 
                  ritardo, vorrei aggiungere qualche riflessione. 
                  Che Antonio Senta faccia la recensione di un libro che contiene 
                  interventi assai diversi fra loro e dica per quale motivo ne 
                  apprezza alcuni e meno altri, mi sembra suo pieno diritto. Nel 
                  momento in cui ognuno di noi espone le sue idee su un soggetto 
                  controverso come Berneri prende il rischio di dispiacere a una 
                  parte dei suoi lettori. Berneri, in vita, ha corso più 
                  volte questo richio, ma non si è mai lasciato andare 
                  a schiacciare i suoi contraddittori con il volume dei suoi scritti. 
                  La letteratura su Berneri porta il segno delle difficoltà 
                  e delle polemiche che hanno pesato sul movimento anarchico dopo 
                  la sua morte. La sopravvivenza del movimento in un contesto 
                  non rivoluzionario ha prodotto un ripiegamento su se stesso, 
                  inducendo molti compagni ad accentuare i tratti ideologici ritenuti 
                  più marcanti, per poter conservare intatto il nocciolo 
                  duro della sua identità. Questo spiega come mai abbia 
                  avuto tanto successo la tendenza a “imbalsamare” 
                  Berneri, a farne una specie di santino, mettendo in ombra o 
                  sterilizzando per anni le discussioni animate a cui aveva preso 
                  parte da vivo, le sue analisi, le sue posizioni poco ortodosse, 
                  le sue provocazioni alla riflessione. 
                  Il suo pensiero si costruisce nella discussione: cambiando soggetto 
                  ed interlocutore è ovvio che dica anche cose diverse. 
                  A partire dalla sua morte, nel movimento anarchico si è 
                  più volte manifestata una scelta di facilità, 
                  prendendo ora questa, ora quell’opinione, come chiave 
                  di lettura generale, attribuendo in sostanza fissità 
                  ideologica ad alcune opinioni politicamente motivate. 
                  Masini, per esempio, quando raccoglie alcuni scritti berneriani 
                  e pubblica i Compiti nuovi del movimento anarchico, 
                  lo fa con intenti polemici nei confronti dell’astensionismo 
                  tradizionale del movimento, con lo scopo di dare legittimità 
                  alle scelte elettoraliste dei GAAP. Ma cos’ha questa scelta 
                  politica a che vedere con la situazione pre-insurrezionale 
                  spagnola del 1936, in cui Berneri pone il problema della partecipazione 
                  elettorale e soprattutto delle sue prevedibili conseguenze? 
                  Ho detto più di una volta che il problema principale 
                  di Berneri è quello di fare la rivoluzione. Anche in 
                  un contesto sfavorevole sul piano dei rapporti di forza fra 
                  le classi sociali come durante il fascismo, Berneri non smette 
                  di pensare alla rivoluzione italiana. Tutto il suo pensiero 
                  ruota intorno a questo problema: il programma del movimento, 
                  la questione delle alleanze, la struttura federale della nuova 
                  società ed il peso delle autonomie locali, il “sovietismo”, 
                  il sindacalismo d’azione diretta, la liquidazione del 
                  fascismo e del colonialismo, l’intervento nella rivoluzione 
                  spagnola, il confronto con i comunisti... 
                  Berneri non ha un problema di conservare la sua identità 
                  in un momento di crisi. Questa gli è chiara. Specialmente 
                  quando discute con altre forze politiche come “Giustizia 
                  e Libertà”, che cercano di pescare militanti in 
                  area libertaria, o con compagni che ragionano più in 
                  termini di identità che di analisi politica. Non ha paura 
                  di passare per centrista, dal momento che l’ago 
                  della bussola resta la rivoluzione da fare. È sperimentalista, 
                  è convinto che la libertà si ottiene attraverso 
                  la pratica della libertà, non ha paura di sbagliare e 
                  di riconoscere che ha sbagliato. 
                  I problemi che il movimento affronta (ed il modo in cui lo fà) 
                  dopo la Seconda Guerra mondiale sono di tutt’altra natura. 
                  La forza propulsiva della rivoluzione è stata ingabbiata 
                  dall’Unione Sovietica; in Occidente partiti e sindacati 
                  di orientamento comunista funzionano più come un “ministero 
                  dell’opposizione” nel quadro stabilito a Yalta, 
                  che come strutture che cercano di fare una rivoluzione. Le società 
                  occidentali sono ingessate dalla spartizione fra i blocchi e 
                  gli anarchici si trovano presi tra due fuochi. È quindi 
                  comprensibile la sorte che tocca a Berneri, la cui vitalità 
                  era legata ad un movimento che continuava a voler concretamente 
                  fare la rivoluzione. 
                  Il movimento anarchico del dopoguerra cerca di ricostruire le 
                  sue radici sociali, cerca di cogliere tutte le occasioni possibili 
                  per manifestare la propria presenza, critica ed attacca i rapporti 
                  sociali politici culturali dominanti, ma prima di tutto cerca 
                  di preservare la propria identità: fare la rivoluzione 
                  non è più un problema concreto da risolvere, ma 
                  una “fiaccola sotto il moggio” da tenere accesa 
                  nella notte delle riforme capitaliste e del dominio burocratico. 
                  Gli sprazzi di luce non mancheranno, come intorno al ’68. 
                  Il movimento ricomincerà a riflettere sulla propria azione. 
                  Dopo la fine dell’URSS i problemi cominciano a porsi in 
                  altri termini, ma occorrerà una intera generazione per 
                  realizzare la portata di questa mutazione. Gli studi su Berneri 
                  cominciano a diventare più numerosi con l’avvicinarsi 
                  dell’anniversario della sua morte, ma la loro qualità 
                  sarà assai diversificata e molti di essi saranno segnati 
                  dalla tendenza a leggere Berneri in chiave ideologica più 
                  che storica. 
                  Accumulare le citazioni di Berneri per fargli dire quello che 
                  si desidera non è difficile, e Stefano ce ne offre una 
                  dimostrazione illuminante. Ma è questo che può 
                  servire oggi al movimento anarchico? Il problema, ai miei occhi, 
                  è piuttosto quello di ricostituire le discussioni in 
                  cui Berneri ha preso questa o quella posizione, in un contesto 
                  storico determinato, per capire dove voleva andare a parare. 
                  A questo avrebbe potuto (dovuto?) servire il revival di interesse, 
                  libri e convegni che in questi ultimi anni sono stati dedicati 
                  a Berneri. 
                  Purtroppo il risultato è da questo punto di vista assai 
                  modesto, e non si può dare interamente torto ad Antonio 
                  quando esprime la sua delusione di fronte ai testi del convegno 
                  di Arezzo del 2007. Dovremmo piuttosto essergliene grati, perché 
                  ci richiama al senso dell’utilità del lavoro dello 
                  storico. 
                  Ora, se Stefano ci ha dato un paio di volumi che ci illuminano 
                  sulla sua lettura del pensiero berneriano, si può anche 
                  pensare che non ci abbia aiutato molto ad approfondire la conoscenza 
                  di questo pensiero. I suoi libri infatti ci informano molto 
                  di più sul suo autore che sull’oggetto studiato. 
                  Stefano legge e cita Berneri, ma espone e struttura il pensiero 
                  di D’Errico. Una scelta certo legittima sul piano politico, 
                  ma che lascia perplesso chi si aspetta un lavoro di analisi 
                  storica, in un convegno di studi storici, come capita appunto 
                  ad Antonio. 
                  Di fronte a questa polemica mi sarei aspettato che un autore 
                  acuto come D’Errico capisse facilmente il punto di vista 
                  espresso da Senta, anche se non lo condivide. 
                Gianni Carrozza 
                  Parigi (Francia) 
                
                   
                      | 
                   
                   
                    Camillo 
                        Berneri  | 
                   
                 
                 Camillo 
                  Berneri.2 / Carte alla mano 
                 Per Gianni Carrozza non sarebbe ‘politicamente corretto’ 
                  aver risposto per le rime a Senta, che m’addebita su Berneri 
                  ‘una procedura grossolana da un punto di vista storiografico 
                  e politicamente molto discutibile’. Gianni quindi non 
                  fa caso all’uso di epiteti offensivi senza riferimenti 
                  storiografici e per di più conclude che la mancata accettazione 
                  degli stessi sarebbe eccesso di vis polemica. Caro Gianni, come 
                  sai, il tono della polemica lo fissa chi la inizia. Io sollevo 
                  innanzitutto un problema di metodo. Altro che ‘schiacciare 
                  i (...) contraddittori con il volume [degli] scritti’! 
                  Scusa se pretendo per le tematiche berneriane qualcosa di più 
                  di giudizi estemporanei, segnatamente quando mi s’accusa 
                  (e senza fornirne prova alcuna) di sottoporre il pensiero di 
                  Berneri a ‘torsioni continue’! Quindi insisto: 
                  ‘grossolano’ è termine da usarsi? E se sì, 
                  lo si può fare senza supportare quel giudizio 
                  in modo adeguato? 
                  Però veniamo a noi. Idem dicasi, ma tolto l’insulto 
                  di Senta (che, nonostante due interventi continua a rimanere 
                  ingiustificato), per i tuoi di giudizi. Legittimo scrivere che 
                  d’Errico strumentalizza il pensiero di Berneri, senza 
                  il dovere deontologico (onestà intellettuale e non mera 
                  accademia) di spiegare dove e come? Oltretutto aggiungi che 
                  a Senta (novello Schopenhauer?) ‘dovremmo essere grati 
                  perché ci richiama al senso dell’utilità 
                  del lavoro dello storico’, perché d’Errico 
                  ‘non ci ha aiutato molto ad approfondire la conoscenza 
                  [di Berneri]’, visto che ‘legge e cita 
                  (...), ma espone e struttura [altro]’, (il proprio 
                  pensiero). Concludi parlando di una scelta ‘legittima 
                  sul piano politico, ma che lascia perplesso chi si aspetta un 
                  lavoro di analisi storica, in un convegno di studi storici’! 
                  Un ‘dottorale’ (ed antipatico) ipse dixit, 
                  che non prova nulla. Inoltre, al contrario di quanto scrivi, 
                  Senta non mostra d’esprimere ‘la sua delusione 
                  di fronte ai testi del convegno di Arezzo’. Anche 
                  se per te quei testi - come scopriamo oggi - fornirebbero un 
                  contributo ‘assai modesto’ all’approfondimento 
                  del pensiero berneriano, eri fra gli intervenuti, caro Gianni, 
                  autore, secondo Senta, di un saggio ‘preciso’. 
                  Non fare il modesto: a Senta sono piaciuti tutti i relatori 
                  di parte anarchica, eccezion fatta per Giampietro Berti ed il 
                  sottoscritto. A parte il fatto che avresti potuto esprimerti 
                  in quella sede (e quindi negli atti), sgravando il povero Senta 
                  dell’ingrato compito di confutarmi con 5 anni di ritardo, 
                  assume ancora più forza la domanda: dov’è 
                  il merito? 
                  Anch’io ho avuto, in Anarchismo e politica, qualcosa 
                  da dire sull’immagine di ‘consigliarista’ 
                  che sovente nei tuoi scritti sovrapponi al Berneri sovietista. 
                  Ma ho ragionato carte alla mano e non con giudizi apodittici 
                  non suffragati. Né mai avrei preso le parti di chi avesse 
                  usato nei tuoi confronti epiteti anziché argomentazioni. 
                   
                  Confrontiamoci quindi sullo specifico senza giudizi unicamente 
                  presuntivi. Il problema con Senta stava nell’accostare 
                  anarchismo e politica? È questione già trattata 
                  su queste pagine. Sarà quindi sufficiente reiterare una 
                  sola citazione: “...i nostri migliori, da Malatesta 
                  a Fabbri, non riescono a risolvere i quesiti che ci poniamo, 
                  offrendo soluzioni che siano politiche. La politica è 
                  calcolo e creazione di forze realizzanti un approssimarsi della 
                  realtà al sistema ideale, mediante formule di agitazione, 
                  di polarizzazione e di sistemazione, atte ad essere agitanti, 
                  polarizzanti e sistematizzanti in un dato momento sociale e 
                  politico” (1). Vogliamo ancora 
                  far passare Berneri per un antesignano dell’antipolitica? 
                  Al voler dare protagonismo politico al movimento sono collegate 
                  pressoché tutte le tematiche berneriane: problemismo; 
                  ‘attualismo’; denuncia del romanticismo 
                  autoconsolatorio; spinta verso battaglie d’opinione e 
                  per i diritti civili; demolizione dell’operaiolatria e 
                  del codismo filo-bolscevico, nonché dello spontaneismo 
                  e della fiducia nella cosiddetta ‘giustizia delle masse’; 
                  denuncia dell’ambivalenza dei totalitarismi; lotta contro 
                  l’ubriacatura del ‘tanto peggio - tanto meglio’; 
                  richiamo all’organizzazione specifica verso una discussione, 
                  non deterministica però fattiva, su ‘programma’ 
                  e progetto; politica delle alleanze; fiducia in un anarchismo 
                  inserito socialmente ed in un anarcosindacalismo di progetto; 
                  attenzione verso l’associazionismo indipendente; antitesi 
                  stato-società; differenza fra anarchismo (nella storia) 
                  ed anarchia (“religione”) (2); 
                  lotta alla diseducazione politica, all’ateismo di maniera, 
                  all’intolleranza ed al conformismo di sinistra; denuncia 
                  del contrattualismo; lavoro per un’epistemologia anarchica 
                  empiriocriticista. Elementi che, ci si metta l’anima in 
                  pace, non contrastano con la (per alcuni troppo) mitica ‘rivoluzione’ 
                  (termine enfatizzato da Gianni 7 volte in 2 cartelle). 
                  Con te, Carrozza, la controversia può riguardare forse 
                  la critica al ‘cretinismo astensionista’ (definizione 
                  berneriana)? Bene, il lodigiano non se n’occupò 
                  solo di fronte alla congiuntura spagnola, bensì già 
                  in occasione delle elezioni italiane: “Chi sa che 
                  cosa siano state le elezioni politiche del 1921 mi scomunicherà, 
                  forse, ma certamente non mi fucilerà se dirò che 
                  mi sono astenuto dal fare propaganda astensionista e che mi 
                  sono messo contro i vestali dell’anarchismo per difendere 
                  quei pochi compagni dell’Unione Anarchica Fiorentina (due 
                  o tre) dall’ostracismo al quale erano stati condannati 
                  per essere andati alle urne” (3). 
                  Ed io ho scritto: «Berneri “osa” mettere in 
                  discussione anche la pratica astensionista. Pure Bakunin ammoniva 
                  di non confondere tattica e strategia, perciò: “Il 
                  non distinguere la prima dalla seconda conduce al cretinismo 
                  astensionista non meno infantile del cretinismo parlamentarista” 
                  (4). Il lodigiano ne ricorda gli elogi ai 
                  primi eletti dell’Internazionale: “In una sua lettera 
                  al Gambuzzi (Locarno, 16 novembre 1870), Michele Bakunin scriveva 
                  di essere lieto che egli fosse tornato a Napoli per cercare 
                  di essere eletto deputato e soggiungeva: ‘Forse ti 
                  meraviglierai di vedere che io, astensionista deciso ed appassionato, 
                  spinga ora i miei amici a farsi eleggere deputati. Gli è 
                  che le circostanze e i tempi sono mutati. Anzitutto i miei amici, 
                  cominciando da te, si sono talmente agguerriti nelle nostre 
                  idee, nei nostri principi, che non c’è più 
                  pericolo che possono dimenticarli, mortificarli, sacrificarli, 
                  e ricadere nelle loro antiche abitudini politiche. E poi, i 
                  tempi sono diventati talmente seri, il pericolo che minaccia 
                  la libertà di tutti i paesi talmente formidabile, che 
                  bisogna che ovunque gli uomini di buona volontà siano 
                  sulla breccia, e che i nostri amici soprattutto siano in una 
                  tale posizione che la loro influenza diventi quanto più 
                  efficace è possibile. Cristoforo (Fanelli) mi ha promesso 
                  di scrivermi e di tenermi al corrente delle vostre lotte elettorali 
                  che m’interessano al massimo grado». Fanelli fu 
                  eletto deputato di Torchiara nel dicembre 1870 e Friscia fu 
                  rieletto in Sicilia. Bakunin vedeva nell’elezione a deputati 
                  dei più attivi organizzatori della I.a Internazionale 
                  un potenziamento di questa, per le agevolazioni materiali (viaggi 
                  gratuiti), per la possibilità di relazioni più 
                  estese, per una maggiore influenza sulle masse nonché 
                  una maggiore libertà di propaganda. Di fronte all’istituzione 
                  parlamentare egli rimaneva antiparlamentarista ed astensionista 
                  ed il suo atteggiamento del 1870 non è affatto da avvicinare 
                  a quello di Andrea Costa e nemmeno a quello di F. S. Merlino. 
                  Per Bakunin il problema era di strategia e non di tattica” 
                  (5). È Berneri a scrivere: “Il 
                  cretinismo astensionista è quella superstizione politica 
                  che considera l’atto di votare come una menomazione della 
                  dignità umana o che valuta una situazione politica-sociale 
                  dal numero degli astenuti delle elezioni, quando non abbina 
                  l’uno e l’altro infantilismo” (6). 
                   
                  Berneri si scaglia contro la reiterazione senza soluzione di 
                  continuità che l’anarchismo fa dell’astensionismo: 
                  “Come constato l’assoluta deficienza della critica 
                  antiparlamentare della nostra stampa, lacuna che mi pare gravissima, 
                  così non sono astensionista nel senso che non credo, 
                  e non ho mai creduto, all’utilità della propaganda 
                  astensionista in periodo di elezioni” (7)». 
                  Ho aggiunto: «Il pensiero del lodigiano diviene chiarissimo, 
                  in proposito, laddove scrive: “Vi sono, secondo me, 
                  quattro sistemi politici possibili: l’amministrazione 
                  diretta, la rappresentanza generica o autoritaria, la democrazia 
                  propriamente detta e l’anarchia. L’amministrazione 
                  diretta è un sistema politico nel quale il popolo in 
                  massa delibera volta a volta sulle varie questioni d’interesse 
                  generale, e provvede all’esecuzione delle proprie deliberazioni. 
                  La rappresentanza generica o autoritaria è un sistema 
                  nel quale il popolo delega la propria sovranità ad un 
                  certo numero di persone da lui scelte e lascia a quelle il potere 
                  deliberativo ed esecutivo. L’astensionismo politico è 
                  una reazione contro la rappresentanza generica, reazione salutare, 
                  ma non ha più ragione di permanere di fronte alla democrazia 
                  propriamente detta, sistema nel quale il popolo delega le varie 
                  faccende di interesse generale a dei tecnici, riservandosi di 
                  approvarne gli atti, controllando il loro operato, riservandosi 
                  di destituirli e destituendoli quando ciò occorra. Gli 
                  anarchici hanno ragione di continuare in seno alla democrazia 
                  la loro opposizione correttiva e la loro propaganda educativa 
                  al fine di permettere il passaggio dalla democrazia all’anarchia, 
                  sistema nel quale l’amministrazione diretta e la democrazia 
                  si integrano, sopprimendo qualunque residuo della rappresentanza 
                  autoritaria” (8). Infine, nel 
                  caso di plebisciti e referendum non vede per gli anarchici alcun 
                  motivo d’avversione: “Se domani si presentasse 
                  il caso di un plebiscito (disarmo o difesa nazionale armata, 
                  autonomia degli allogeni, abbandono o conservazione delle colonie, 
                  ecc.) si troverebbero ancora degli anarchici fossilizzati che 
                  crederebbero doveroso astenersi” (9)». 
                  Cosa ho mai scritto? Semplicemente ripeto che: «Per 
                  Berneri, il rifiuto assoluto del voto non è necessariamente 
                  impresso nel codice genetico dell’anarchismo, non è 
                  determinante per l’identità libertaria. Anzi, se 
                  da elemento tattico assurge a carattere di principio, diviene 
                  un ostacolo alla crescita del movimento, ennesima piombatura 
                  sclerotica che ne ingabbia lo sviluppo politico». 
                   
                  Le citazioni di Berneri sono forse inventate (e, a proposito 
                  di coerenza storiografica, non vengono riportate con l’ausilio 
                  delle ‘virgolette’ ed indicandone le fonti)?  
                  Si pensa invece (legittimamente) che la posizione di Berneri 
                  risulti ancora poco chiara? Bene, esiste il dibattito, per questo. 
                  Ma qui sembra si chieda un arbitrato, il lodo di un gruppo di 
                  studiosi emeriti, un esame congiunto d’interpretazione 
                  autentica...? Proceda pure chi ritenesse che l’anarchismo 
                  abbia bisogno di guardiani dell’ortodossia, ma nessuno 
                  si sogni di dare o togliere (a priori) patenti di ‘storico’ 
                  e/o ‘studioso doc’ (sic!). Evitiamo di 
                  dar cittadinanza in questo movimento alla prassi della delegittimazione 
                  ad argomentazione zero verso il pensiero divergente. Un dibattito 
                  di questa natura, se ci deve essere e lo si vuole serio e corretto, 
                  deve svolgersi carte alla mano, altrimenti si scade nella strumentalità. 
                  Questo sì, Berneri non l’ha mai fatto: non ha mai 
                  promosso le proprie posizioni attraverso il discredito gratuito 
                  degli interlocutori! E, a proposito di ‘anarchismo e politica’, 
                  cosa c’è di più politicista (nel senso più 
                  deteriore del termine)? 
                 Stefano d’Errico 
                  Roma 
                Note
 
                  - C. Berneri, Per un programma d’azione comunalista, 
                    manoscritto del 1926 rimasto inedito sino al 1964. 
                  
 - C. Berneri, La concezione anarchica dello Stato, 
                    inedito incompiuto del 1926, conservato presso Archivio Famiglia 
                    Berneri-Aurelio Chessa (ABC), Reggio Emilia, pubblicato per 
                    la prima volta da Pietro Adamo, Anarchia e società 
                    aperta, M&B Publishing, Milano 2001. Oggi in S. d’Errico, 
                    Anarchismo e politica, Mimesis, Milano 2007. 
                  
 - C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, da “L’Adunata 
                    dei Refrattari”, New York 25.4.1936. Poi in P. Adamo, 
                    Anarchia e società aperta, M&B Publishing, 
                    Milano 2001 e S. d’Errico, Anarchismo e politica, 
                    op. cit. 
                  
 - Ibid.
                  
 - Ibid.
                  
 - Ibid.
                  
 - C. Berneri, La questione elettorale. Il cretinismo astensionista, 
                    in Compiti nuovi dell’anarchismo, su “L’impulso”, 
                    Livorno 1955, già apparso come Astensionismo e 
                    anarchismo, ne “L’Adunata dei Refrattari”, 
                    New York 25.4.1936. Oggi in P. Adamo, Anarchia e società 
                    aperta, op. cit. e S. d’Errico, Anarchismo 
                    e politica, op. cit. 
                  
 - C. Berneri, Per finire, in Compiti nuovi dell’anarchismo, 
                    da “L’impulso”, Livorno 1955, già 
                    apparso insieme ad interventi di altri sotto il titolo comune 
                    Revisionismo elettorale nell’anarchismo, su 
                    “L’Adunata dei Refrattari”, New York 27.6.1936, 
                    poi in P. Adamo, Anarchia e società aperta, 
                    op. cit. e S. d’Errico, Anarchismo e politica, 
                    op. cit. 
                  
 - C. Berneri, Astensionismo e anarchismo, cit.
  
                  
                 Ancora 
                  su Malatesta, tasse, ecc. 
                Cari compagni,  
                  vorrei rispondere alla lettera di 
                  Davide Turcato pubblicata in “A” 371 (maggio 
                  2012, pag. 137), con la quale egli ritiene a sua volta di replicare 
                  a una mia precedente 
                  missiva. In realtà non capisco dove stia la ragione 
                  del dissenso, sempre che dissenso vi sia. 
                  Io mi ero limitato a esporre le mie titubanze di anarchico nell’introdurre 
                  una sorta di tassa patrimoniale, che affondi le sue radici nel 
                  presupposto “georgista” (da Henry George) che la 
                  Terra sia di tutti (res communis) e non di nessuno (res nullius), 
                  di tal che i non proprietari e gli espropriati abbiano diritto 
                  a una rendita dovuta al fatto di essere comproprietari (“comunisti”) 
                  di tutta la Terra. 
                  E a tal proposito citavo Malatesta, secondo il quale qualunque 
                  proposta interlocutoria andava passata attraverso il filtro 
                  di un lume regolatore, che ci sappia orientare tra scelte giuste 
                  e scelte sbagliate, sia pure in un’ottica gradualista. 
                  Non vedo dove stia il dissenso, dicevo, per due motivi: a) in 
                  primo luogo anche Malatesta condivideva questa impostazione 
                  sulla proprietà comune della Terra. Non chiedetemi di 
                  citare il luogo esatto dove l’avrebbe scritto, perché 
                  vado a memoria, e vi assicuro che le mie letture di Malatesta 
                  sono abbondanti, anche se preferisco l’ultimo, quello 
                  più riflessivo e ”possibilista” e forse meno 
                  rivoluzionario del primo; b) in secondo luogo, quanto dice Davide 
                  Turcato va nella mia stessa direzione, ossia di non pretendere 
                  l’abolizione dello Stato come un dato preliminare, ma 
                  come un esito quasi obbligato di alcune scelte preliminari. 
                  Una di queste, appunto, considerare la Terra come bene di tutti 
                  e non di nessuno, ossia di pochi. Se poi la leva fiscale sia 
                  idonea allo scopo è questione delicata, sulla quale è 
                  opportuno che si sviluppi un dibattito, sempre che questa sia 
                  l’unica o l’ultima delle imposte che ci affliggono, 
                  e non l’ennesimo balzello imposto in una situazione, come 
                  propone Domenico Letizia, di pre-rivolta fiscale. Saluti libertari, 
                  
                Fabio Massimo Nicosia 
                  Milano 
                                  
                
                    
                  
                     
                      |  
                          I 
                          nostri fondi neri 
                            
                       | 
                     
                     
                       
                         
                           Sottoscrizioni.  
                            Medardo Accomando (Manocalzati – Av) 20,00; 
                            Giorgio Meneguz (Brovello Carpovigno – VB) 10,00; 
                            Danilo Vallauri (Dronero – CN) 10,00; Alberto 
                            Ciampi (San Casciano Val di Pesa – Fi) 20,00; 
                            Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso 
                            Failla, 500,00; Gianandrea Blesio (Botticino Sera 
                            – Bs) 20,00; Ivano (Milano) 40,00; Colby (Modena) 
                            300,00. Totale euro 920,00. 
                          Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti 
                            specificato, trattasi di euro 100,00). Luca Todini 
                            (Brufano, Torgiano – Pg) 150,00; Roberto Pietrella 
                            (Roma) 200,00; Alessandro Marutti (Cologno Monzese 
                            – Mi); Sergio Guercio (Torino) 200,00. Totale 
                            euro 650,00. 
                         
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