rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


lettere

 

Signora Ministra della Giustizia, chi è il ladro?

“Che io possa avere la
forza di cambiare le cose,
che io possa avere la pazienza di accettare le cose
che non posso cambiare,
che io possa avere l’intelligenza
di saperle distinguere”.

(Tommaso Moro)

Sono state pubblicate dai giornali alcune denunce dei redditi e ho pensato che molta gente che guadagna un sacco di soldi a volte ruba, molto di più di un barbone per sfamarsi, di un tossicodipendente per trovare i soldi per la sua dose e di un malavitoso per cercare di cambiare il suo destino e quello della sua famiglia.
Eppure, chissà perché, in carcere è così difficile trovare un banchiere, un politico, un giudice, un imprenditore, un vescovo e altri cosiddetti “colletti bianchi”, forse perché ci sono veri delinquenti che non entrano mai in galera, e poi ci sono ex delinquenti che non escono mai dal carcere.
Leggendo il giornale “La Repubblica” di venerdì 24 febbraio 2012 ho scoperto che l’ex Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Franco Ionta guadagna 543.954 euro. E mi sono domandato come fa un uomo che comanda le carceri a non vergognarsi di guadagnare così tanti soldi mentre un agente della Polizia Penitenziaria riesce a malapena a sopravvivere e a mantenere i suoi familiari e i detenuti guadagnano veri stipendi di fame. Non mi resta che sperare che il nuovo Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, (ex Presidente del Tribunale di Sorveglianza Roma) si diminuisca lo stipendio per proporre di aumentarlo alle guardie carcerarie e ai detenuti che lavorano.
E per ultimo ricordo alla Ministra della Giustizia, tecnica, ma spero volenterosa, che i fondi destinati alla retribuzione dei detenuti-lavoratori, sono passati dai 71.400 euro del 2006 ai 49.664 euro del 2011 (- 30,5%), e che il numero degli occupati è rimasto pressoché invariato; il risparmio è stato ottenuto riducendo le ore d’impiego e da 18 anni le retribuzioni dei detenuti non vengono adeguate: Il lavoro alle dipendenze del DAP viene retribuito avendo come riferimento economico i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro di vari settori, in misura non inferiore ai 2/3 del trattamento previsto nei contratti stessi, così come indicato nell’art. 22 dell’Ordinamento penitenziario. Tuttavia l’adeguamento ai CCNL non è stato effettuato dal 1994, per carenza di risorse economiche. (Notizie registrate al Registro Stampa del Tribunale di Padova n°1964).
Ricordo pure alla Ministra della Giustizia che dal mese di novembre 2011 svolgo attività lavorativa come scrivano/bibliotecario nel carcere di Spoleto, con passione, dedizione e fantasia e mi sono attivato, con spese personali di cartoleria e valori bollati, e ho scritto a diverse case editrice per rinnovare e aggiornare la biblioteca, facendo arrivare per il momento un migliaio di libri. Eppure la mia paga media mensile è di 26,48 ¤ e non credo proprio che questa sia una remunerazione decorosa e rieducativa, la trovo piuttosto umiliante.
A questo punto mi chiedo: Signora Ministra della Giustizia, chi è il ladro?

Carmelo Musumeci
Carcere di Spoleto (Pg)
www.carmelomusumeci.com

Proposta: i “Comitati di liberazione dallo Stato”

Sfogliando il numero di Marzo della prima rivista italiana in ordine alfabetico, leggo sbalordito l’articolo di Andrea Papi, riassunto magnificamente nel titolo “Il tributo iniquo delle tasse”. Papi in tal articolo si sofferma su una considerazione etica e libertaria della tassazione, il problema non è la quantità di tasse che paghiamo, se esse siano eque o no o se i ceti medio – alti paghino la quantità giusta di tasse, il problema è la tassazione in sé. Ogni anarchico sa, che mettere in discussione ogni dì lo stato è il compito principale, dobbiamo partire dal presupposto che lo stato vive la sua coercizione attraverso lo strumento fiscale, in poche parole, riconosciamo lo stato moderno attraverso i tributi, quando paghiamo le tasse diamo il nostro ok alla proliferazione dell’organismo statuale.
Papi riflette in modo davvero intelligente tutto ciò, senza macchia, un articolo da incorniciare per la sua precisione, strabiliante ancor di più che anche tra gli anarchici si avvii una discussione di tal genere, un dibattito che finalmente guardi alle tasse come prodotto dell’imposizione del potere statuale e dei suoi amici economici.
Come dimenticare tutte le polemiche con quell’agenzia di morte morale e non solo, chiamata Equitalia? Papi nell’articolo parla di disobbedienza civile e non-violenta contro lo strumento fiscale, aggiungo che condivido dicendo non sarebbe ora di mettere su dei “Comitati di liberazione dallo Stato”, partendo proprio dalla lotta fiscale, dallo sciopero contro la rapina fiscale? Un servizio va scambiato tra gli individui, secondo scelte non coercitive e liberamente, volontariamente tra gli uomini, quello che fa lo stato, invece, è imporre, la stessa logica che fa vivere tutte le organizzazioni della malavita in teoria all’opposto dello stato, in realtà specchio dell’altra realtà.
Siamo sottoposti alla condizione, beffarda per lo più, di contribuire a spese che non abbiamo voluto e non possiamo controllare, grazie alle tasse che versiamo si pagano gli aeri militari della morte e grazie alle nostre tasse si costruiscono le megastrutture di morte come la TAV e sempre con le tasse si paga chi di mestiere è autorizzato a “picchiare” chi contro queste megastrutture lotta. Il problema è lì, nella tassazione. Disobbedienza fiscale non è un concetto assurdo ma una vertenza autenticamente e intimamente libertaria.
Un saluto libertario.

Domenico Letizia
(Maddaloni – Ce)

 

La malattia dell’economia globale (con una proposta di risanamento)

Dom Arigipulo di Zab (Novara) si è messo nei panni dei due noti editorialisti economici del Corriere della Sera, Alesina e Giavazzi e ha scritto un “loro” articolo assolutamente falso ma altrettanto assolutamente verisimile. Eccolo.

Almeno due secoli di storia economica ci hanno portato alla situazione attuale. Pure noi, che da sempre lodiamo i pregi del sistema capitalista mondiale, ci siamo accorti che qualcosa non funziona a dovere.
Tranquilli, non siamo certo diventati antiliberisti: siamo sempre convinti che proprietà privata dei mezzi di produzione e libero mercato siano i fondamenti di ogni sistema economico sano.
Non si può certo immaginare di creare valore in un sistema pianificato al modo del vecchio socialismo sovietico. Anche i cinesi l’hanno compreso nel corso degli ultimi trent’anni: non possiamo certo definire la Cina un paese socialista nel senso classico marxiano. Le diverse aree dell’Impero di Mezzo nelle quali funzionano le nostre stesse regole di mercato ormai sopravanzano i territori protetti ed i residui collettivisti presenti nell’organizzazione del lavoro agricolo e dei settori industriali arretrati.
Ormai tutto il mondo è capitalista. Anche chi si oppone formalmente ha, in fondo, conservato solo una vuota denominazione: partito comunista cinese, partiti comunisti e socialisti qua e là nel modo, i residui di un castrismo ormai riassorbito tra i tranquilli regimi nazional-populisti latinoamericani.
Partiamo dunque da questo dato: non esiste un’alternativa credibile al capitalismo globalizzato.
Eppure c’è una crisi profonda che sta fiaccando il sistema economico mondiale. Eppure dobbiamo ammettere che qualcosa non funziona a dovere.
Dove sta il problema principale che impedisce al sistema economico di funzionare al modo in cui classici della “triste scienza” avevano vaticinato con tanta sicumera?
Il problema sta negli esiti imprevisti dell’Illuminismo ideologico. A furia di considerare la libertà individuale come fosse un valore in sé, si è esagerato non poco. Certo i pensatori settecenteschi pensavano alla loro persona, ai loro familiari, ai loro amici: insomma, ai membri delle classi privilegiate. I liberi ed eguali (ma non troppo) dovevano essere gli ottimati: gli aristocratici per famiglia e tradizione, ma anche i nuovi arrivati in forza del loro censo (quindi uomini d’affari, delle professioni, della neonata borghesia industriale). Ma qualcuno ha voluto esagerare e ha esteso i cosiddetti diritti umani fondamentali anche alle classi subalterne, ai lavoratori tutti. Così, come per magia, ci siamo trovati in un mondo nel quale le differenze di ceto sono sparite: un operaio di fabbrica può vantare gli stessi diritti di un manager per la cui istruzione sono state spese (dalla sua famiglia o da altri) quantità enormi di denaro.
Tornando sul terreno dell’economia politica, abbiamo assistito alla liberazione del fattore produttivo lavoro. La soggettività dei lavoratori si è posta, nel corso degli ultimi due secoli, su un inusuale piedistallo, pretendendo di essere coprotagonista sulla scena del mondo della produzione e dello scambio. Il fattore lavoro si è voluto differenziare dagli altri fattori produttivi (risorse naturali, capitale) e ha imballato, con tali pretese, il funzionamento corretto del sistema capitalista.
Ecco allora la nostra proposta. Proviamo, sperando che non sia già troppo tardi, a rimediare agli eccessi ideologici del pensiero liberale. Rimoduliamo il liberalismo, costruiamo un pensiero ben temperato dalle prove e dalle durezze della vita. Acquistiamo coraggio e diciamocelo con chiarezza: il sistema capitalista può funzionare bene solo se si ricostruisce un meccanismo di regole che riconduca il lavoro nel suo ambito naturale.
Intendiamo dire che il lavoro deve essere servile. Deve cioè essere di proprietà di colui che può acquistarlo in forza dei capitali finanziari posseduti.
Il capitale umano è funzione dell’accumulazione del capitale tecnico e di quello finanziario: è cosa limpida e cristallina.
Se vogliamo che l’imprenditore e che l’investitore possano essere davvero padroni del loro destino, abbiamo bisogno che il lavoro si pieghi completamente alla loro volontà demiurgica.
Le materie prime si ribellano forse a chi le forgia? Le macchine ben funzionanti si ritorcono contro il loro manovratore? Le masse di denaro flottante nei forzieri delle banche centrali in compagnia dell’oro ivi custodito cospirano forse ai danni dei loro padroni? E allora perché il lavoro dovrebbe essere l’unico fattore produttivo a ribellarsi contro i signori dell’economia globale?
Ecco il problema ed ecco la soluzione: è necessario, al più presto, ricostruire un insieme di regole formali (sostenute al livello gerarchico più elevato, cioè a livello costituzionale) che riconducano il lavoro entro i confini di un servaggio efficiente e funzionale alle esigenze della produzione e dei consumi dei ceti privilegiati.
Solo introducendo questa innovazione giuridica (che altro non è se non un ritorno ad un passato più felice) possiamo sperare di annullare il conflitto di classe fondato sull’invidia.
Solo in tal modo possiamo immaginare che l’Imprenditore possa riacquistare la sua originaria libertà di intraprendere, di plasmare la sua impresa a sua somiglianza, di gestire le risorse (anche quelle umane) in vista di un vero accrescimento del valore aggiunto.
Solo in tal modo possiamo liberare Stati ed Imprese dall’eccesso di indebitamento che sta demolendo il sistema capitalista: il lavoratore-servo, infatti, smetterà di pretendere tutti quei servizi di vario genere che hanno svuotato le casse erariali di più di una nazione.
E ci siamo limitati solo alla menzione dei vantaggi economici di tale ristrutturazione normativa. Ognuno può vedere da sé quali potranno essere i vantaggi morali e politici per l’intera nostra comunità.

(testo di Dom Argiropulo di Zab)

 

No Tav / Una ribellione contagiosa

Dieci giorni indimenticabili. Dieci giorni che hanno dato una spinta all’opposizione sociale nel nostro paese. In questi dieci giorni la scintilla partita dalla Val Susa ha infiammato le piazze della penisola, un contagio immediato, capillare, incontenibile, che sta mettendo in difficoltà l’esecutivo guidato da Mario Monti.
Il governo, forte dell’appoggio bipartisan di buona parte dell’arco parlamentare, nei suoi primi cento giorni ha goduto di una sorta di benedizione nazionale. Destra e sinistra hanno provato a vendere l’illusione che i tecnici prestati alla politica potessero curarne i mali. Nei fatti sono stati bravi nel mostrare un’asettica capacità di fare, e in fretta, quello che Fondo Monetario, Banca Centrale Europea pretendono dai paesi dell’Unione schiacciati dalla crisi: eliminazione di ogni forma di tutela, disciplinamento forzato dei lavoratori, svendita dei beni comuni.
La precarietà del lavoro, già sancita dalle leggi Treu e Biagi, nei piani di Monti deve divenire l’unico orizzonte possibile e desiderabile da tutti.
La retorica contro la noia del posto fisso, della vita tutta quanta nella stessa città, dei legami con i propri cari come catena da spezzare sta accompagnando il percorso verso la demolizione del poco che resta. L’attacco alla tutela contro i licenziamenti politici, alla cassa integrazione, il lavoro interinale che esce dall’eccezione per divenire la norma sono alcuni dei tasselli del puzzle di Monti.
Nonostante la Grecia rivelasse, come uno specchio orientato nel prossimo futuro, l’inevitabile esito delle politiche del governo, le lotte sono state deboli, parcellizzate, incapaci di catalizzare il consenso popolare.
L’imponente manifestazione del 25 febbraio in Val Susa è stato il primo segnale – forte e chiaro – di un’inversione di tendenza. Nonostante una campagna mediatica martellante, nonostante le dichiarazioni del capo della polizia Manganelli, che descriveva il movimento No Tav come nido di terroristi pronti a uccidere, decine di migliaia di persone si sono riconosciute in un movimento capace di rappresentare chi vuole case, ospedali, scuole, treni per i pendolari e non è più disponibile a pagare la crisi dei padroni.
Non è più solo una questione di ambiente: oggi più che in passato è diventata la sfida di chi si batte per l’interesse generale contro l’arroganza di chi vuole imporre con la forza un’opera inutile, dannosa, costosissima.
La partita sulla linea ad alta velocità tra Torino e Lyon è arrivata ad un punto cruciale. È in ballo un intero sistema, un sistema elaborato e oliato per anni, per garantire agli amici degli amici di destra e sinistra, un bottino sicuro e legale.
Le linee ad alta velocità costruite nel nostro paese sono state l’ossatura del dopo tangentopoli: un sistema raffinato e semplice per dribblare tutti gli ostacoli legali. Siti di interesse strategico, leggi obiettivo, general contractor sono stati alcuni degli strumenti adottati per cementare un sistema sicuro di drenaggio di denaro pubblico a fini privatissimi. Un sistema che funziona perché va bene a tutti, per tutti c’è una fetta di torta.
Un sistema che nessuno può permettersi di far saltare. Un sistema che il movimento contro la Torino Lyon ha reso trasparente, mostrandone i meccanismi, aprendo crepe, costruendo una resistenza popolare alla quale guardano in tanti.
La strategia del governo è chiarissima: celare le ragioni della lotta No Tav, declinando nella categoria dell’ordine pubblico un movimento che non riescono a piegare né con le buone né con le cattive.
In risposta alla manifestazione del 25 febbraio il governo ha deciso di allargare il cantiere/fortino della Maddalena. Millecinquecento uomini in armi – la forza dello Stato nel suo volto più vero, quello della repressione violenta – sono stati dispiegati nel catino della Clarea.
Luca Abbà, un compagno da sempre in prima linea nella lotta, si arrampica su un traliccio dell’alta tensione per rallentare i lavori. Con criminale determinazione gli uomini dello Stato lo inseguono obbligandolo a salire pericolosamente vicino ai fili. Viene folgorato e cade. Resterà per tre quarti d’ora a terra in attesa di soccorsi, mentre le ruspe continuano il loro lavoro.
Manganelli aveva dichiarato che gli anarchici cercavano il morto, per un pelo gli uomini di Manganelli non hanno ucciso Luca, anarchico e No Tav.
La risposta in Val Susa e in tutta Italia è stata forte, immediata, corale.
Per un’intera settimana ci sono state manifestazioni, blocchi di strade ed autostrade, cortei spontanei. La bandiera con il treno crociato è divenuta la bandiera di un paese che resiste, alza la testa, vuole cambiare radicalmente la rotta. I partiti dell’esile opposizione istituzionale di sinistra, che si illudevano di cavalcare la protesta, trasformandola in voti e poltrone, sono rimasti ai margini di una lotta agita in prima persona da gente che non vuole più affidare ad altri il proprio futuro.
Gente disponibile a rischiare la vita e la libertà, gente che ha ben compreso che solo l’azione diretta, senza deleghe e senza tutele, può inceppare il meccanismo.
Il governo ha risposto con violenza e arroganza. Le truppe di Cancellieri hanno spaccato braccia e gambe, hanno gasato e caricato, si sono scatenate nel rastrellare la gente nelle case e nei bar.
Dopo una settimana di blocchi in Val Susa e ovunque in Italia, il governo ha deciso di andare avanti. Costi quel che costi. La litania è quella consueta: il collegamento con l’Europa, la piccola Italia schiacciata dietro le Alpi, il treno che in quattro ore ti conduce a Parigi, il Tav che porta lavoro, i manifestanti sempre violenti. Il primo ministro rivendica la propria autonomia dai governi precedenti, ma si limita a fare quello che gli altri non erano riusciti a realizzare fino in fondo: gli interessi dei padroni e dei banchieri.
L’idea di sviluppo di Monti si basa sulla distruzione delle risorse e sulla devastazione dei territori: l’unica cosa che conta è far girare le merci, far girare i soldi, fare grandi opere utili solo alla lobby che sostiene e finanzia un’intera classe politica.
Dalla Val Susa viene un segnale forte e chiaro: noi non ci stiamo. Non ci stiamo più: il mondo che vogliamo per i nostri figli è fatto di solidarietà, di cooperazione, di uguaglianza.
Il governo ha paura, ha paura dell’infezione valsusina, ha paura che l’anomalia No Tav divenga una mutazione genetica durevole e diffusa. Per questo occorre disciplinare, costi quel che costi, chi oggi parla con la voce di tutti coloro che, nel nostro paese, si battono contro un’idea di sviluppo che mira al profitto di pochi contro la vita e la libertà di tutti.
Un movimento radicato e insieme radicale, capace di autogovernarsi, resistere, mantenendo salda negli anni la propria sfida.
Monti e Cancellieri puntano il dito sugli anarchici, preparano nuove misure repressive. Si torna a parlare di fermo di polizia, di arresti in differita, dell’inasprimento delle pene per reati come l’insulto a pubblico ufficiale, i blocchi di strade e ferrovie, sino ad un nuovo tipo di associazione illegale che consenta di imprigionare gli anarchici.
Quello che Monti e il suo governo non capiscono è che gli anarchici sono parte riconosciuta del movimento No Tav da lunghi anni, che i tentativi di dividere e spaccare non hanno mai funzionato, perché chi lotta e si confronta in modo diretto, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha costruito saldi rapporti di fiducia e mutuo appoggio.
Quello che Monti non comprende – o forse lo comprende sin troppo bene – è che gli anarchici sono una minoranza, ma le idee di libertà, partecipazione, uguaglianza, sperimentazione sociale, la pratica dell’azione diretta, della cooperazione, dell’autogestione si stanno diffondendo tra i tanti che hanno compreso che questo non è il migliore dei mondi possibili.
La commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana esprime la propria solidarietà a Luca e ai suoi cari, auspicando che possa presto tornare alla lotta.
Esprime la propria solidarietà ed il proprio appoggio ai compagni e alle compagne arrestate per la resistenza No Tav, che, anche in carcere, continuano a lottare per la libertà e sono puniti con l’isolamento.
Si stringe a Tobia, rinchiuso tra le mura di casa con il divieto di scrivere lettere e fare telefonate, Tobia che non accetta che gli tappino la bocca ed è in sciopero della fame (poi sospeso al 13° giorno, n.d.r.).
Sarà sempre più dura. Per chi sfrutta ed opprime, per chi pesta e umilia. Tra blocchi e barricate cresce la voglia di resistere, di cambiare di senso al presente, di consegnare un altro futuro a chi verrà dopo di noi.

La Commissione di Corrispondenza
della Federazione Anarchica Italiana
cdc@federazioneanarchica.org
tel. 3333275690

 

Bravo Accame (e occhio all’ideologico)

Ritengo Felice Accame uno degli epistemologi (l’etichetta è riduttiva, lo so, ma in qualche modo bisogna pur definire, pena un’estensione terminologica impropria per gli spazi di una rivista come “A”) più importanti del panorama non solo italiano, oltre che, ovviamente, una delle vere personalità che intervengono su”A”.
Questa premessa non è una excusatio non petita, come dimostrerà il seguito di questa breve argomentazione. Sono, cioè, assolutamente d’accordo anche con quanto Accame scrive a proposito dell’“ideologia” (in “A” 368, febbraio 2012, p.76), cioè che essa sia da intendere quale “sistema di valori”, nonché, in virtù di un’estensione-designa anche una “progettazione sociale”- prima che di questa progettazione sia stata sancita la negatività o la positività”.
D’accordo: era la classica definizione, da Destutt de Tracy in poi, che Carlo Cattaneo estende anche all’ambito sociale. Ma, con Karl Marx e Friedrich Engels, soprattutto nella “Deutsche Ideologie” (Ideologia tedesca), opera ancora “giovanile”, ideologia vuol dire “falsa coscienza del mondo” (altrove “falsa rappresentazione”) e allora “ideologi” diviene espressione negativa, applicata alla concezione ancora astratta della realtà presente (ovviamente secondo Marx ed Engels) nei “Giovani Hegeliani” (“sinistra hegeliana”) ossia Bruno e Edgar Bauer, Moses Hess, Arnold Ruge e Max Stirner, in parte a chi al”movimento”afferiva, un po’ confusamente, come Michail Bakunin, con cui, però, Marx ed Engels si scontreranno in seguito, in sede di Prima Internazionale, per ben altri motivi. Concezione fatta poi propria dai marxisti (almeno qui non vale la famosa frase di Marx “Je ne suis pas marxiste”, “non sono marxista”, non si ha cioè uno scollamento tra Marx e i marxismi successivi, dove rilevo, a mo’ di critica agli anarchici, ma a livello storico-critico, che essi spesso considerano l’“universo” marxista quasi fosse un insieme indistinto), ma anche da gran parte del pensiero, dominante e di opposizione, se guardiamo, definendolo, alla fattualità politica. “Ideologia” come “falsa coscienza”, cioè lo sentiamo dire da marxisti e iper(o meglio neo)liberisti, da politologi e sociologi e filosofi, da giornalisti e mass-mediologi.
Sono quindi d’accordissimo con Accame quando sostiene che “Bollare – come si fa oggi a destra e a manca – come “ideologico” un argomento e pretendere con ciò di aver messo a tacer l’avversario – ...è da irresponsabili – nel senso letterale del termine” (ibidem).
Credo che sarebbe una sorta di correttezza epistemologica e quindi linguistico-deontologica seguire qui Felice Accame, ma anche su “A” (lascio al lettore il compito di trovare citazioni a riguardo, cosa difficile, sfogliando l’intera collezione dei 40 anni ormai passati o invece, cosa più fattibile, limitandosi alla raccolta dell’ultimo anno) troviamo spesso l’uso anzidetto, in chiave di bassa strumentalità, perché oggi dire”argomentoideologico”significa”argomento strumentale, al servizio di una certe classe sociale “o anche “di alcune singole categorie”. Facit?
Accame ha ragione e senz’altro deve proseguire, su questo terreno come su altri, per un “nuovo rasoio di Ockham” contro le idee ricevute come contro i “concetti-zeppa”, quelli superflui, ma sarebbe necessario, se non un “consensus omnium”, almeno un accordo limitato (magari ad “A”, ma potenzialmente non solo a questa rivista) per riformulare espressioni come questa. Servirebbe anche ad evitare equivoci comunque tuttora più che mai presenti a livello di argomentazioni correnti, dove il codice comunicativo non è sempre condiviso da emittente e ricevente. Servirebbe soprattutto ad obbligare notisti politici di ogni “ispirazione ideale” a dismettere un linguaggio comodo quanto stereotipato, spesso non significante.

Eugen Galasso
(Firenze)


Botta... / Non dimentichiamo che ci sono vittime e carnefici

Carissimo Andrea,
quando sosteniamo che determinate ingiustizie come lo schiavismo, la tortura, lo stupro... che vengono inflitte a persone umane e non umane, sono delle azioni che consideriamo intollerabili, non stiamo automaticamente sostenendo che occorre fare la guerra a chi non la pensa come noi.
Non tollerare le ingiustizie, a nostro parere, non significa per forza reprimere e combattere chi ha una diversa visione rispetto alla nostra. Significa, invece, usare l’attivismo, il boicottaggio, la critica, la denuncia, l’informazione, le lettere, gli articoli, i discorsi, i libri, i filmati, i fumetti, la musica affinché quella determinata ingiustizia possa cessare. E d’altronde lo abbiamo già scritto e ripetuto in diverse occasioni, anche nell’ultima lettera (“A” 370, pag. 93 “Anarchismo, anarchici, antispecismo”) quando scriviamo “...vittime senza voce che possono solo contare su chi osa non tollerare le ingiustizie attraverso l’attivismo, la sensibilizzazione, il boicottaggio...”.
L’antispecismo, a nostro parere, è, di per se stesso, non violento perché ogni forma di sopruso o di imposizione finisce per ricalcare l’ideologia del dominio. E d’altronde ci sarà un motivo per cui non si sente mai di un vegan o di un antispecista che entrano nei ristoranti per prendere a bastonate chi azzanna le bistecche! Gli antispecisti e i vegan non lo fanno! Al contrario, se proprio vogliamo parlare di imposizione o di intolleranza come base di ogni guerra, dovremmo considerare gli atti che danno la possibilità di azzannare quella stessa bistecca. Questi atti sono la prigionia, lo sfruttamento, l’alimentazione forzata, lo stupro attraverso l’inseminazione artificiale, l’assassinio di un individuo nel pieno della sua vita, la riduzione in schiavitù, la tortura...
Quando si parla di quella che potremmo definire questione animale, si tiene sempre e solo in considerazione l’umano. Ed è proprio questo lo specismo! Volendo considerare la tolleranza e il rispetto delle differenze, infatti, si dimentica sempre che ci sono delle vittime e dei carnefici. Si dimentica sempre che la tolleranza nei confronti dei carnefici dovrebbe passare in secondo piano rispetto a quella da accordare alle vittime che chiedono solo di poter continuare a vivere, di vedere tollerato il loro diritto di vivere in libertà. Ma nel caso dello specismo questo non avviene perché, per lo specismo, ciò che conta, in questo caso la tolleranza, può essere applicato solo a chi è superiore, e quindi all’umano. Il diverso dall’umano non viene neppure preso in considerazione.
Era questo ciò che intendevamo nel criticare chi invoca tolleranza solo per i carnefici. La tolleranza nei confronti dei carnefici è sicuramente un gesto profondo e nobilitate, ma solo quando è preceduto da una ferma condanna per le sue azioni, solo quando tiene in considerazione e in precedenza la tolleranza nei confronti delle vittime.
È solo così che la tolleranza assume un senso anche nei confronti dei nazisti nonostante gli stermini da loro attuati. E da un punto di vista antispecista la gravità dell’olocausto subito dagli ebrei non è più grave di quello subito dagli animali non umani negli allevamenti. Riteniamo che ribaltare la questione e usare l’argomentazione della tolleranza per condannare chi denuncia un’ingiustizia sia poco corretto. Riteniamo che trasformarlo in un fanatico che vuole “colpire, annientare, distruggere e, se va bene, sottomettere” chi non la pensa come lui, sia il classico metodo con cui si tende a reprimere ogni forma di dissenso.
In realtà, a riflettere con un minimo di lucidità sulla questione animale, chi viene colpito, annientato, represso, sottomesso e, sempre e comunque e in qualsiasi allevamento, ucciso, è sempre e solo l’animale.
Anche secondo noi l’anarchismo nasce per liberare e non per creare nuove imposizioni, come giustamente scrivi. Noi siamo molto lontani dal voler creare imposizioni, ma riteniamo che una liberazione non possa avere senso se limitata solo all’umano. Così come non ha senso la liberazione di una sola razza, o di un solo sesso. Nessuna liberazione può basarsi sulla sottomissione di chi è diverso, di chi appartiene ad un’altra specie.
Per quanto riguarda la nostra espressione “anarchici vecchio stampo” non intendevamo certo fare divisioni tra buoni e cattivi, ma solo riferirci a chi non accetta l’antispecismo solo perché non è stato indicato dai pensatori anarchici del passato. E la nostra non è neppure una forma di ingenuità che non tiene conto dei disastri commessi in nome di buone cause. Il nostro linguaggio risente inevitabilmente della drammaticità della situazione in cui si trovano tutti gli animali deportati, richiusi, vivisezionati, sfruttati e violentati.
Non abbiamo alcun interesse o intenzione di far prevalere il nostro punto di vista, di creare guerre o nemici da combattere. Ciò che ci preme è solo amplificare delle voci rinchiuse, sfruttate, derise e annientate all’interno di capannoni, recinti, laboratori, zoo, acquari... Fare in modo che queste voci si sentano nonostante lo sforzo politico e mediatico che studia ogni mezzo per farle tacere. Nel fare questo continuiamo, da anni, ad usare pazienza e perseveranza. Continuiamo a fare tavoli in mezzo alla strada parlando con la gente, ad organizzare eventi, a mostrare immagini e video che rappresentano ciò che avviene realmente, ciò che non si vuole mostrare, continuiamo a scrivere articoli, libri e lettere affinché la questione venga affrontata con la serietà che merita. E speriamo che, alla fine, siano queste voci e non certo le nostre idee e i nostri pensieri ad avere ragione, a permettere che una sostanziale liberazione avvenga, ma avvenga per tutti e per tutte.
Tutto questo ci pare abbastanza lontano dal voler “colpire, annientare, distruggere e, se va bene, sottomettere” chi non la pensa come noi. Resta il fatto che questa sofferenza, queste ingiustizie hanno un peso indicibile e non sono facilmente rappresentabili o interpretabili con parole dolci, con parole che esprimano una grande tolleranza nei confronti di chi le sta causando. Chi ha visto ciò che accade in un macello, chi ha visto trascinare via, verso il macello, una mucca da latte oramai talmente sfruttata e talmente esausta da non riuscire più a camminare, chi ha visto usare le scosse elettriche per farla muovere, chi ha visto le convulsioni, gli occhi spalancati dal terrore, chi ha sentito le urla e lo strazio e la disperazione, chi è consapevole, chi vede tutto questo in ogni prodotto animale, chi non riesce a voltarsi dall’altra parte, chi ha scelto di muoversi attivamente perché queste ingiustizie cessino, non sempre riesce a ritenere normale che altri accettino con leggerezza tutto questo, soprattutto se ci si trova in un ambito libertario.
Ma questo, ovviamente, non significa condannare chi è diverso da noi. Significa, invece, ritenere ingiusta, sbagliata, intollerabile un’idea, un comportamento, un’azione, un’opinione. Il giudizio non viene posto sulla persona. La persona, fortunatamente, è in perenne mutamento. E nessuna persona è un nemico irrecuperabile, almeno ai nostri occhi. Quasi tutti i vegan sono stati carnivori e specisti, e quasi tutti ne sono perfettamente consapevoli. È per questo che non vogliono sottomettere nessuno, ed è per questo che sanno molto bene quanto occorra essere espliciti nel rappresentare quelle voci che non si vogliono ascoltare, che è molto meglio dimenticare fingendo che vada tutto bene.
Un caro saluto attivamente antispecista.

Troglodita Tribe
Serrapetrona (Mc)
troglotribe@libero.it

 

... e risposta / Così chiarita, siamo d’accordo

Benissimo cari Troglodita Tribe, finalmente cominciamo a capirci nella sostanza. Questa vostra “intolleranza dolce” mi piace. Per quel che mi riguarda è molto più rivolta a se stessi che ai soggetti e all’oggetto da contestare.
Ma è proprio per questo che mi va bene. Così personalmente la vedo di più come determinazione ad oltranza nel combattere il male e l’ingiustizia, che è la forza di volontà degli idealisti e dei rivoluzionari.
Ma è sempre proprio per questo che mi va bene. Anche perché non è affatto scontato che sia come voi dite. Nella mia esperienza l’intolleranza è un’altra cosa, ed è più rivolta all’esterno del soggetto che verso se stessi, è spesso la base della non accettazione degli altri.
Ma messa così come la mettete voi, è perfetta: aiuta a combattere nel modo che ritengo più giusto.

Andrea Papi

 

Malatesta, le tasse, lo Stato

In una lettera apparsa nel n. 369 di “A”, Fabio Massimo Nicosia dichiara di cercare “soluzioni nell’ambito dell’anarchismo” e descrive la sua soluzione ‘georgista’. Nella lettera cita anche Malatesta, di passaggio. Vorrei a mia volta citare un breve passaggio di Malatesta, in risposta a Nicosia.
Nel Programma anarchico, Malatesta elenca tutti i mali sociali e poi scrive: “Tale stato di cose noi vogliamo radicalmente cambiare. E poiché tutti questi mali derivano dalla lotta fra gli uomini, dalla ricerca del benessere fatta da ciascuno per conto suo e contro tutti, noi vogliamo rimediarvi sostituendo all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti”.
Questa è l’essenza dell’anarchismo di Malatesta e del nostro movimento, prima ancora che l’abolizione del governo. Voler abolire il governo è solo una conseguenza necessaria di quanto sopra. Voler abolire il governo senza condividere quanto sopra vuol dire cercare soluzioni in tutt’altro ambito e si fa solo confusione a voler dare l’impressione del contrario.

Davide Turcato
(Vancouver – Canada)

 

Afghanistan / Governo italiano doppiamente assassino

Il governo italiano assassino dei soldati italiani e di combattenti e civili afgani

In Afghanistan è in corso una guerra. Che consiste di stragi, devastazioni ed orrori inauditi. A questa guerra da dieci anni partecipa anche l’Italia. Illegalmente, poiché la Costituzione della Repubblica Italiana lo proibisce esplicitamente, inequivocabilmente.
L’illegale, criminale partecipazione italiana alla guerra è responsabile della morte dei soldati italiani li’ assassinati, ed è responsabile della morte degli afgani assassinati dagli italiani.
E l’Italia è corresponsabile altresì di tutte le altre stragi, di tutti gli altri orrori, commessi dalle truppe d’occupazione della coalizione di cui fa parte.
I governanti italiani che continuano a mandare giovani italiani a morire e ad uccidere in Afghanistan sono dei criminali, sono degli assassini. Sono direttamente responsabili di quelle uccisioni i governanti italiani di questi ultimi dieci anni e con essi i parlamentari che hanno votato a favore di questo crimine ed i presidenti della
Repubblica che questo crimine hanno avallato tradendo il loro dovere di fedeltà alla Costituzione che la partecipazione alla guerra vieta.
Sono colpevoli della morte degli italiani uccisi dagli afgani e sono colpevoli della morte degli afgani uccisi dagli italiani. Poiché se non avessero inviato i soldati italiani a partecipare alla guerra in Afghanistan gli uni e gli altri sarebbero ancora vivi.
Dieci anni di stragi. Dieci anni di criminale violazione della legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Dieci anni di complicità col male più abissale.
Cessi immediatamente la partecipazione italiana alla guerra terrorista e stragista.
Tornino immediatamente e definitivamente in Italia tutti i soldati italiani dispiegati in Afghanistan. Tornino vivi.
Cessi immediatamente la flagrante, insensata, scellerata violazione della Costituzione italiana e del diritto internazionale.
Cessi immediatamente questo abominevole crimine contro l’umanita’.
Si adoperi lo stato italiano per la pace, il disarmo e la
smilitarizzazione dei conflitti.
Cessi lo stato italiano di far morire degli esseri umani e si impegni invece per salvare le vite, recare aiuti umanitari, promuovere i diritti di tutti gli esseri umani, con interventi di cooperazione internazionale e di umana solidarietà rigorosamente civili, non armati, nonviolenti.
Vi è una sola umanità. Solo la pace salva le vite.
La guerra – che sempre consiste di omicidi – sempre è nemica dell’umanità.

Peppe Sini
responsabile del “Centro di ricerca per la pace e i diritti umani” di Viterbo
strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo
e-mail: nbawac@tin.it
web: http://lists.peacelink.it/nonviolenza

 

Sopruso (alle inumane, quotidiane, vittime innocenti)

Dall’alba di millenni
mani che afferrano
tieni la testa giù
terrore negli occhi
cuore che batte
ancora per poco
dolore dolore
dolore
sangue urlare
senza speranza ormai
buio
coltelli fucili e
risate
appetito gola e
discorsi
discorsi
discorsi
la bibbia il nonno
i cicli la vita
la morte
ecco solo alla fine
la morte.

Sandro Spinazzi
(Marghera – Ve)

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Piero Cagnotti (Dogliani – Cn) 30,00; Panayotis Kalamaras (Atene – Grecia) 20,00; Pino Fabiano (Cotronei – Kr) 50,00; Piero Barsanti (La Spezia) 20,00; Nicola Colliva (Casalecchio di Reno – Bo) 20,00; L.B. (Ancona) “ricordando P. I., la sua compagna”; 350,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando il sorriso di Franco Serantini, 500,00; Pietro Mambretti (Lecco) 20,00; Paolo Sabatini (Firenze) 20,00; Marco Cressatti (Bari) 10,00; Oreste Roseo (Savona) ricordando Domenico Pastorello e Isac Garcia Barba, 70,00; Albino Trucano (Borgiallo – To) 20,00; Aldo Curziotti (Sant’Andrea Bagni – Pr) 20,00; Bruno Riva (Savosa – Svizzera) 10,00; Bas Moreel (Olanda) 50,00; Claudio Neri (Roma) 20,00: Attilio Destri (Tresana – Ms) 20,00; Daniele Ferro (Voghera – Pv) 20,00; Giorgio Franchi (Codigoro – Fe) 20,00; Franco Schirone (Milano) 100,00; Giordano de Luca (Roma) 50,00; a/m BFS, Claudio Albertani (Città del Messico – Messico) 50,00. Totale euro 1.490,00.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). A/m Antonio Senta, Eros Bonfiglioli (Bologna); Fantasio Piscopo (Milano) “in ricordo di mio padre Tullio”; Enrico Calandri (Roma); Giacomo Ajmone (Milano); Fabio Palombo (Chieti) 250,00; L. D. (Ancona); Andrea Albertini (Bolzano) 150,00; Gianluca Botteghi (Rimini); Giulio Canziani (Castano Primo – Va); Matteo Parisi (Brescia); Gianni Alioti (Genova); Francesco Barba (Kassel – Germania); Matteo Gandolfi (Genova); Pietro Steffenoni (Lodi). Totale euro 1.600,00.