rivista anarchica
anno 42 n. 371
maggio 2012


racconto

Non era per niente una cosa bella il razzismo

di Angelica Paolorossi

Rajko, Piero, la maestra, la televisione da comprare...

 

Venne fuori che qualcuno andava a dire in televisione che quelli come me erano pericolosi. Il guaio è che io di tutta quella faccenda non ne avevo ancora saputo un bel niente perché a casa mia la televisione non ce l’avevamo proprio. A dire il vero a casa mia non avevamo nemmeno una vera e propria casa come sottolineò la maestra quel giorno in cui venne a parlarci del razzismo.
“Prendete Rajko ad esempio, lui è proprio come voi” disse indicandomi, e poiché tutti si misero a guardarmi come se io fossi proprio uguale a loro, io mi sentii proprio come se fossi uguale a loro.
“Anche se sì insomma in un certo senso è diverso...” e tutti si misero a guardarmi come se sì, in un certo senso, fossi diverso, e allora io mi sentii come se sì, in un certo senso, fossi diverso.
“Ma anche lui ha una casa proprio come la vostra, anche se in realtà la sua non è una casa proprio uguale alla vostra...” e tutti si misero a guardarmi come se in realtà la mia casa non fosse proprio uguale alla loro, così che per un po’ aspettai di capire com’è che avrei dovuto sentirmi.
“Diciamo che la sua è una casa speciale perché si può spostare...” e tutti si misero a guardarmi come se la mia casa fosse speciale perché si poteva spostare così io pensai di dovermi sentire speciale proprio come uno che aveva una casa speciale che si poteva spostare e mi sentii speciale proprio come uno che aveva una casa speciale che si poteva spostare.

In mezzo a tutti quegli occhi fissi

Ma poi la maestra proseguì
“Alcuni dicono che quella casa dovrebbe essere spostata perché...come posso dire...è come se fosse parcheggiata dove non c’è un parcheggio, o come se il parcheggio ci fosse ma non fosse stato pagato e hanno paura che questo possa compromettere l’ordine, ecco diciamo, il regolare svolgimento delle cose ...” e tutti si misero a guardarmi come se, insomma va beh, s’è capito no? Tutti si misero a guardarmi male e io mi sentii come se tutti mi stessero guardando male e mi persi poi gran parte del discorso.
Stavo lì a rimuginare tra me e me, in mezzo a tutti quegli occhi fissi, sul com’è che proprio mio padre si fosse inventato un parcheggio proprio lì e non avesse neanche pagato il biglietto, voglio dire, tra tutte le kampine proprio la nostra doveva essere fuori posto, proprio roba da compromettere l’ordine, ecco diciamo, proprio roba da compromettere il regolare svolgimento delle cose, e proprio un sacco di altre cose, evidentemente...
“Attenzione bambini” gridò a un certo punto la maestra, e quando quelli si misero tutti sull’attenti, io pure mi misi sull’attenti e ricominciai ad ascoltare, solo che anche se ormai avevano tutti smesso di guardarmi io continuavo a sentirmi come se ancora non avessero smesso di guardarmi, cosa che non mi era mai capitata prima e mi parve strana, molto strana davvero. “Però!” pensai “è strano!”
Comunque la maestra voleva esser certa che avessimo capito bene – Il razzismo è una cosa brutta, è pensare che non sia divertente giocare con qualcuno soltanto perché è o sembra diverso. Chi non vuole giocare con qualcuno soltanto perché è o sembra un diverso è razzista e a Gesù dispiace quando uno è razzista perché Egli vuole che tutti i bambini giochino e si divertano insieme e diventa triste quando non lo ascoltano –
“Allora Rajko” intervenne il mio compagno di banco Piero “è razzista perché non ascolta Gesù e vuole che Gesù è triste?”
E tutti si voltarono a guardarmi come se fossi razzista perché non ascoltavo Gesù e volevo che lui fosse triste, così io iniziai un poco a scocciarmi di tutto questo voltarsi a guardarmi e dissi alzando la voce che non era vero che non ascoltavo Gesù o che volevo che lui fosse triste. Certo, era vero che io non lo avevo mai visto come lo avevano visto gli altri, perché come ho già detto la televisione io non ce l’avevo, ma dai discorsi che ne facevano loro ne avevo dedotto che fosse uno a posto questo Gesù, lo avrei tenuto come un phral per giunta perché mi stava simpatico pure a me e non era per niente vero che io volevo che lui fosse triste, tutt’altro, volevo pure io che fosse contento e così mentii. – Anche io ci ho parlato qualche volta, ieri per esempio è stato al campo da noi – e siccome tutti parevano guardarmi con ammirazione esagerai- abbiamo giocato a pallone e io gli ho parato un rigore! – Ma ormai non mi riusciva più di capire com’è che mi stessero guardando tutti, sapevo e vedevo soltanto che mi guardavano. Strano.

Finalmente la campanella squillò

“Rajko” mi riprese la maestra “questo non è rispettoso.”
“Ma io...” provai a difendermi.
“Fuori dalla porta” sentenziò.
Ne trassi che uno come Gesù, i rigori da uno come me, non se li sarebbe lasciati parare.
Mi alzai e imboccai l’uscita sfilando sotto quell’infinità di occhi che mi restarono addosso anche dopo aver chiuso la porta. Che ce ne fossero così tanti di occhi lì dentro non me ne ero mai accorto, non mi ero mai fermato a contarli come facevo adesso per passare il tempo. Di occhi ne avevamo due a testa. Di teste ne avevamo ventotto, una a testa più la maestra, che però per quel che ne sapevo io poteva anche valere di più e neanche capivo se mi ci dovevo mettere o no insieme agli altri nella conta. Comunque anche senza di me, così a occhio e croce, di sguardi dovevano essercene tanti, almeno cento in ogni occhio, qualcosa come tutto lo spazio dei prati di tutti i prati che avevo visto finora...
A conti fatti insomma, non era stata per niente una buona giornata; forse ero razzista e quasi sicuramente avevo reso triste Gesù.......Con tutto lo spazio dei prati dovevamo proprio andarci a parcheggiare nel posto sbagliato?.. Non potevamo avere anche noi una televisione anzi che starcene a guardare le stelle? Glielo avevo detto io a mio padre, una sera che ce ne stavamo di fuori a guardare le stelle.
“Dovremmo comprare la televisione”
“Per fare che?” aveva chiesto lui.
“Per guardare le cose” avevo risposto io.
“Guarda le stelle.” aveva concluso lui.
Finalmente la campanella squillò e fu l’ora di andarsene, e tutti uscirono, come me, ma io non mi sentii per niente come se stessimo uscendo tutti insieme, e anche se nessuno mi guardò come se non stessi uscendo insieme a loro, beh, forse fui proprio io a guardarmi come se non stessi uscendo insieme a loro e quasi quasi mi sentii come se in realtà stessi uscendo da solo e pensai di essere solo.
“Rajko” mi chiamò mio padre “andiamo?”
Gli corsi incontro e gli tesi la mano.
Lui la strinse.
Non ero solo.
Poi però mio padre fece una cosa che non avrei mai creduto, fece il razzista coi ragazzi del bar.
“Ehi! Perché non giochiamo tutti insieme a incendia il campo rom?” ci stavano invitando.
Io volevo giocare e mi fermai a guardarli proprio come uno che voleva giocare.
“Cammina” disse mio padre strattonandomi per la maglietta e affrettando il passo proprio come uno che invece non voleva giocare proprio per niente.
“Ma papà” provai a intervenire.
“Zitto e cammina. Quelli lì non sono degni neanche di pulirci le scarpe” sbottò con voce ferma senza fermarsi.

Gridava in silenzio mio padre

Camminai.
Lo guardai dispiaciuto e camminai.
Lo guardai dispiaciuto e deluso e camminai.
Lo guardai dispiaciuto e deluso e arrabbiato e camminai.
Se ci ero rimasto male io figuriamoci loro; erano stati così carini a invitarci, così sorridenti nel farlo e noi? Noi non ci eravamo nemmeno fermati un momento a parlargli, che so, a spiegargli magari che quel giorno lì avevamo da fare ma che ci avremmo volentieri giocato la prossima volta a incendia il campo rom insieme a loro. E certo che non glielo avevamo detto, perché mio padre non ci avrebbe mai voluto giocare con loro – quelli lì non sono degni neanche di pulirci le scarpe – aveva detto. E meno male che non lo avevano sentito perché ci sarebbero rimasti ancora peggio. E meno male che non lo aveva sentito Gesù. Gesù già. Chissà come l’avrebbe vista Gesù tutta quella faccenda. Sicuramente non sarebbe stato contento per niente, ed era ben la seconda volta in un giorno che tra e me e mio padre gli davamo motivo di essere triste...roba che presi a sentirmi triste anche io. Aveva ragione la maestra: non era per niente una cosa bella, il razzismo.
Gridava in silenzio mio padre quel giorno, lo faceva coi polsi, mi stringeva la mano fortissimo e mi faceva impressione, mi guardava come se ci fosse qualcosa da avere paura e allora anch’io lo guardavo come se ci fosse qualcosa da avere paura, ma io quasi quasi avevo un poco paura di lui.
E anche se mi teneva la mano io lo sentivo distante.
E mi sentivo solo, a camminare così da razzista.
E non era per niente una cosa bella, il razzismo.

Angelica Paolorossi